Dorothea Lange. Politiche del visibile.

Sebbene il Magazine sia fruito soprattutto da un pubblico di lettori residente in Italia, una recente permanenza a Parigi, e l’inevitabile visita di alcune mostre fotografiche, mi porta a condividere alcune riflessioni e spunti di recensione, nella speranza che i lettori in viaggio possano a loro volta visitarle, o che magari le esposizioni arrivino anche nelle nostre città.

Sulla scia di quanto discusso durante una delle ultime puntate del podcast, e memore delle riflessioni condivise da Federico Emmi in un suo recente articolo, ho varcato la soglia del Musée de Jeu de Paume per incontrare l’opera di Dorothea Lange, di cui il museo espone, in originale, alcuni dei lavori fondamentali sia per la vita e la coscienza politica dell’autrice, sia per la storia della fotografia documentale e non.

“Politiques du visible” riunisce più di un centinaio di stampe d’epoca realizzate tra il 1933 e il 1957 dalla famosa fotografa americana, tra cui opere importanti, alcune delle quali non sono mai state esposte in Francia. Oltre alle fotografie presentate, sono esposti diversi oggetti appartenuti a Dorothea Lange, come taccuini scritti sul campo, provini a contatto e varie pubblicazioni che collocano la sua opera nel contesto del travagliato periodo tra le due guerre mondiali negli Stati Uniti.

Tra le poche donne fotografe del suo tempo ad essere riconosciuta in vita, Dorothea Lange ha raggiunto una fama mondiale per le sue immagini che hanno magistralmente descritto la vita degli americani durante la Grande Depressione e hanno in parte determinato la nostra visione di quel periodo. Tuttavia, la fama di questi scatti iconici della crisi economica nasconde una parte meno nota dell’opera dell’artista, come le sue fotografie di giapponesi americani internati durante la seconda guerra mondiale, da sempre censurate e mostrate per la prima volta solo nel 2006.

Il percorso espositivo è suddiviso in cinque parti. La prima copre il periodo della depressione (1933-1934) con opere fondamentali nella storia della fotografia come White Angel Breadline e Migrant Mother e mette in evidenza la complessità di questo periodo storico. Il secondo è dedicato all’opera di Dorothea Lange per la FSA (1935-1939) nell’ambito del programma politico ed economico del New Deal, che testimonia l’impegno civico che ha guidato l’approccio della fotografa. La terza presenta le fotografie scattate nei campi di internamento dei giapponesi americani nel 1942, seguite da quelle dei cantieri Richmond (1942-1944) e, infine, un reportage sulla giurisprudenza americana (1955-1957).

I lavori di Dorothea Lange hanno scosso le coscienze per più di 80 anni, e se si riesce a non scivolare nello scontato confronto tra i migranti di oggi e di ieri, o nel parallelismo, pur con le dovute differenze, tra i campi di concentramento nazisti, giapponesi ed americani, quello che resta è ancora un messaggio incisivo, scolpito negli occhi dei soggetti fotografati, semplice e diretto come la composizione degli scatti, difficilmente cancellabile una volta fattane l’esperienza.

Mettere a nudo le contraddizioni di un mondo che promuove il benessere e che produce, inevitabilmente, situazioni di disagio personale e sociale; documentare non solo il dramma personale, ma anche la risposta, a volte sorprendente, di chi ne è stato colpito, come nel caso dell’architetto di giardini giapponese che si ritrova a costruirne uno fuori dalla sua baracca/prigione a Manzanar, con l’unico materiale a sua disposizione: la sabbia del deserto della Sierra Nevada.

Due migranti camminano su un’autostrada, dovranno raggiungere a piedi la città di Los Angeles, centinaia di chilometri a piedi, sotto il sole, valigie in spalla; sul ciglio della strada un cartello pubblicitario: la prossima volta provate ad andare in treno. Rilassatevi!

Contrapposizioni intelligenti, come quella sopra citata, si affiancano ad immagini così dirette da non richiedere nessuna particolare ironia per trasmettere la situazione o i sentimenti dei soggetti. Differenti approcci, differenti politiche fotografiche, tutte pienamente espresse nello spettro del visibile, senza sottintesi o significati da ricercare nel chiaroscuro.

Per quanto la mostra sia stata allestita in uno spazio contenuto, in virtù di quanto detto la sensazione che si ha all’uscita è di aver pienamente compreso il messaggio dei lavori esposti, l’opera dell’autrice, ed in un certo qual modo anche il personale travaglio interiore, raccontato nei taccuini e pienamente visibile in ciascuna delle fotografie. Ma soprattutto se ne esce con una visione più ampia della produzione di Dorothea Lange, che va finalmente oltre l’iconica Migrant Mother per raccontarci non solo storie diverse di sofferenza e riscatto, ma anche come queste storie debbano essere fotografate.

Silvio Villa