Il paesaggio come ricerca: intervista a Giacomo Infantino

La fotografia di paesaggio è uno dei generi più sottovalutati, fraintesi e banalizzati nei nostri tempi digitali. Cliché e contemplazione, convenzioni e cultura, che si rivelano soprattutto occasioni perse.
Il confine tra noi e il mondo non è mai tracciabile in modo definitivo, è sempre un dialogo ed uno scambio. Ed è molto difficile distinguere l’interno e l’esterno del paesaggio.
Esiste, come dice Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista autore del libro Mindscapes, “una relazione che è al contempo distacco e vicinanza, intimità ed estraneità: psiche nel paesaggio e paesaggio nella psiche, in un unico movimento.
Ci sono però artisti che si smarcano dall’ordinario e parlano di sé stessi attraverso il paesaggio, come Giacomo Infantino che, con un linguaggio moderno di stampo cinematografico, porta avanti una ricerca personale sulla condizione dell’uomo contemporaneo nei confronti dell’abitare l’ambiente che lo circonda.

Qual è la tua personale storia della fotografia?

Dopo esser diventato maggiorenne e conseguito il diploma, ho iniziato a viaggiare moltissimo, ed iniziai in quel momento senza pretesa alcuna a realizzare le prime fotografie. La fotografia era solo un mezzo per poter accumulare ricordi come se temessi che tutte le esperienze che realizzavo potessero dissolversi. Fin da ragazzino utilizzavo piccole compatte o le famose usa e getta che riuscivo a reperire, si trattava di un semplice gioco, estremamente divertente, ma che nel tempo si è dimostrato un qualcosa di molto più importante e  inconscio. La fotografia è diventata centrale nella mia vita nel momento in cui, dopo il mio primo viaggio in Islanda, capì che ciò che mi interessava non era documentare il mondo attraverso la nostalgia sistematica dei ricordi, ma piuttosto la possibilità di palesare in qualche modo ciò che fino ad allora sopperivo e lasciavo in disparte, la mia interiorità.

Quanto gli studi artistici di Brera e la tua esperienza all’estero hanno influenzato il tuo modo di vedere fotograficamente?

Sicuramente il mio percorso accademico è centrale tuttora nella mia vita. Ho intrapreso gli studi in Nuove Tecnologie dell’Arte in cui ho avuto la possibilità di sperimentare diversi linguaggi audiovisivi, come quelli che costituiscono il cinema, ma anche il suono e la programmazione. Tale percorso è servito a darmi numerosi spunti, ma anche dubbi non indifferenti su quanto nella mia ricerca da poco avviata. All’inizio venni bombardato da un’infinità di nozioni che, se non assimilate o diluite con il giusto criterio, rischiavano di essere fuorvianti e nocive. Non dico che fosse un male, anzi, ma spesso sono del parere che serve il giusto tempo di gestazione tra ciò che definiamo lo studio dei linguaggi dell’arte e la sua messa in atto. Per esempio ero incostante afflitto sulla direzione che volevo  intraprendere con il mio lavoro fotografico. Ebbi però la fortuna di partecipare alla Canon Masterclass al Visa Pour L’image di Perpignan, in Francia, per la prima volta potei fare molta chiarezza su ciò che mi interessava realmente. Inoltre ci fu la possibilità
e il prestigio di confrontarmi con tantissimi giovani talenti provenienti da tutta Europa e anche da alcuni massimi esponenti dell’agenzia Magnum come Jerome Sessini. Questa esperienza fu una sorta di rottura totale, assolutamente positiva, in quanto mi confrontai con le idee e i pensieri di persone che non appartenevano al mio nucleo di crescita accademico e che mi aiutò a mettere in discussione totalmente tutto ciò che avevo realizzato fino ad allora e diluire ciò che invece doveva essere centrale e necessario alla mia crescita. Questa esperienza ad ogni modo fu possibile grazie alla mia stessa scuola e ai professori che hanno creduto in quello che stavo realizzando donandomi così il regalo più grande, ossia un confronto multiculturale lontano dalla retorica nazionale e iper-contaminata dalla realtà Europea. Ad oggi sto ultimando la mia esperienza all’estero presso l’Hochschule Für Grafik Und Buchkunst di Lipsia, dove grazie al contributo di artisti come Joachim Brohm autore del libro “Two Rivers” insieme ad Alec Soth, Tina Bara artista e fotografa tedesca attiva nel movimento di pace dell’opposizione della DDR e Steven Black, pittore e artista affermato stanno inevitabilmente influendo fortemente nella mia visione di ricerca e del mio immaginario personale.

Quali fotografi e quale tipo di fotografia alimentano le tue visioni?

Ad alimentare le mie visioni è stato principalmente il cinema. Mi iscrissi al triennio di Nuove Tecnologie con l’intento di studiare regia e montaggio. Il cambiamento arrivò dopo essermi innamorato delle opere di Tarkowski, Bergman, Kubrick, Antonioni, Wenders e Wong Kar Wai, maanche le contaminazioni e le produzioni video nell’ambito musicale come Björk, Arca, Thom Yorke e Mùm. La fotografia fu il passo successivo. Alcuni tra i numerosi autori che influenzano il mio percorso sono sicuramente Todd Hido, Gregory Crewdson, Lise Sarfati, Jeff Wall, James Casebere, Paolo Ventura e moltissimi altri. In particolare questi autori sono legati dal processo di creazione statica e meditata della scena, hanno spesso un’impronta cinematografica che gioca sul filo della realtà e della finzione. In questi autori ho trovato le prime suggestioni che hanno aperto la strada al mio lavoro. La tua fotografia è strettamente legata alle tue radici e cioè al paesaggio di confine. Paesaggio che innanzitutto è uno stato mentale prima che fisico. E’ proprio in questo territorio che prendono vita le tue immagini.
Assolutamente si. Vivo in un paesino in provincia di Varese circondato da sette laghi. A pochi chilometri si trova il confine con la Svizzera. É un territorio storicamente noto per le vedute pittoresche e il rifugio ideale per isolarsi dalla grande città. Questi luoghi tuttavia, parlo per la mia generazione, sono stati spesso degli ambienti da cui bisognava scappare. La provincia, quella di Varese in particolare, ha sempre subito l’influenza di Milano e ciò ha portato ad oscurare totalmente una città che di per sé ha molto da poter raccontare. I territori di confine posti al margine del nostro Stato hanno la capacità di essere totalmente liquidi e privi di un’identità ben specifica. I suoi abitanti lo sono allo stesso modo. Quando iniziai il lavoro “To the northwest” e successivamente “Unreal”, oggi riuniti sotto un’unica ricerca, sono il tentativo strettamente personale di rendere tangibile questa marginalità geografica, ma che si riversa inevitabilmente sulla psiche e la percezione personale di ognuno di noi. Spostandomi negli anni e allargando sempre di più il mio lavoro, i luoghi di confine e le mie radici personali sono affondate in altri terreni. In Germania, dove vivo attualmente, ho ritrovato le medesime sensazioni, in particolare nella città di Dresda e del suo distretto, in territorio di confine con la Repubblica Ceca. È incredibile come questi luoghi vivano di un’aurea propria. Ciò che mi intriga è la possibilità di plasmare diversi luoghi con la propria immaginazione e il proprio retaggio. Quando attraverso questi paesaggi è come ritrovare uno stato mentale in cui si ha la possibilità di prendere posizione attraverso la propria persona. Non si tratta di documentare, ma piuttosto ricercare un ambiente totalmente oscuro da cui è possibile far emergere la propria luce. Vuole essere una ricerca che possa mettere in luce si una visione interiore e introspettiva, ma che sappia parlare a nome di quelle persone, che come me, hanno provato quell’enorme solitudine legata ad un paesaggio che sembra provare le stesse emozioni.

Nel tuo progetto “Unreal”, traghetti l’osservatore tra realtà e finzione, in una dimensione dove il tempo è sospeso. Atmosfere oniriche nelle quali la luce artificiale ha sempre un ruolo da protagonista.

Come già anticipato, “Unreal”, diventa per me stesso la possibilità di piegare a totale indiscrezione il paesaggio che ho di fronte. L’intervento di luci artificiali, installazioni, performance effimere, ma anche il semplice utilizzo dei lampioni posti sulle strade, grazie alla notte e all’oscurità, apre le porte alla totale libertà di creazione. Nelle mie immagini spesso compare la figura umana in quanto ho sempre cercato di raccontare queste identità, i suoi personaggi, le ombre, attraverso il paesaggio stesso. Queste figure vengono rappresentate come silhouette indefinite, spesso anche autoritratti. La figura umana diventa irriconoscibile e totalmente distaccata dal contesto. Cerco di privare la maggior parte delle informazioni legate ad essa. Non è importante in che luogo o in quale regione si sviluppi l’intero lavoro, potrebbe essere la Russia, come la Germania o piuttosto l’America, questo è davvero fondamentale. La perdita di identità dei luoghi e delle persone sono ciò che mi interessa davvero in quanto io per primo persi, in principio, ciò che potevo definire le mie radici. Il mio vuole essere un tentativo attraverso cui l’unico modo per leggere e percepire qualche sentimento o emozione delle identità da me ritratte è solo tramite la lettura del suo contesto, il paesaggio. Cerco di realizzare immagini poste in un limbo in cui non sta accadendo nulla, vogliono essere situazioni irreali, ma allo stesso tempo al limite tra il sogno e una realtà oggettiva. Qui interviene la luce. Spesso come ben dici diventa l’indiscussa protagonista della mia ricerca. Attraverso essa è possibile costruire quasi da zero tutto il concetto mentale che ti sei prefissato, esternare quella sensazione di alienazione e solitudine che ho sempre avvertito in simbiosi a questi territori.

Una luce “cinematografica” per sottolineare un sentimento tra alienazione e solitudine, un mix quanto mai attuale. La narrazione che si genera ricorda vagamente le immagini di Gregory Crewdson per la luce e le ambientazioni più visionarie di David Lynch legate alla natura. Cosa ne pensi?

Si, il sentimento di solitudine credo sia molto più complesso di quello che sembri. Tutti avvertiamo questa emozione, chi più e chi meno. Posso parlare per me stesso, ma credo sia lampante come la nostra società e una gran parte delle generazioni più giovani soffrano di depressione, solitudine e soprattutto d’ansia. Sono sentimenti che non per caso emergono cosi drasticamente nella società attuale. Io in primis lo sperimento sulla mia pelle. Per queste ragioni diventa centrale nel mio lavoro affrontare queste tematiche e restituirle attraverso delle semplici immagini. Crewdson e Lynch sono i maestri indiscussi di tale poetica, anche se ritengo che le cose siano profondamente cambiate dalla creazione delle opere dei due artisti. Le ragioni sono di tipo culturale e sociale. La “denuncia” visionaria interpretata da Crewdson per esempio nasce dal retaggio del sogno americano più idilliaco e le premesse di tale aspirazione sono ormai state assimilate e ben lontane dai giorni d’oggi, anche se ovviamente non manchi certo di contemporaneità. I lavori dei due autori hanno il valore di essere opere atemporali. Molti sono i legami in comune, ma la differenza principale credo stia proprio nel cambiamento drastico che tutti abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni. Ancora non sappiamo quali saranno i veri riscontri di una vita dominata da un tessuto digitale, tumultuoso, frenetico e iper-connesso, ma che lascia spesso un grande vuoto dentro a chi è il suo primo fruitore. È un discorso complesso ma centrale nella nostra società contemporanea. L’uomo è alle soglie di numerose prese di coscienza, come l’imminente proclamazione di una nuova era geologica fortemente influenzata dall’essere umano che sembra finalmente smuovere, in qualche modo, il pensiero antropocentrico dell’uomo. Tale influenza, che già sancisce ipotesi interessantissime come gli scritti di Donna Haraway sul Chthulucene si riversano non solo su problematiche di tipo ambientale, politico e culturale, ma credo stia apportando cambiamenti massivi sulle generazioni di oggi sia nel bene e nel male. Tutta via sono queste le ragioni per cui sento la necessità di raccontare la mia personale visione dell’essere umano in relazione al paesaggio attraverso un’analisi di carattere introspettivo avvalendomi di un linguaggio, quello cinematografico, che credo sia tra i più suggestivi e fruiti dalla moderna società tutta.

Qual è il tuo approccio alla progettazione?

Il mio approccio alla progettazione non è mai stato troppo metodico o rigido. Ho spesso e volentieri trovato stimolo nelle possibilità della deriva di Guy Debord. Trovo affascinante il dominio delle variabili psicogeografiche mediante la conoscenza e il calcolo delle loro possibilità. Questo tipo di approccio può essere deleterio, ma allo stesso tempo può riservare stupore e meraviglia. Il progetto “Unreal” per esempio è frutto di lunghe giornate trascorse in macchina, spesso anche tutta la notte, in cui l’unica cosa importante è quella di lasciarsi trasportare in una costante esplorazione del territorio. Una volta raccolto il materiale nel corso degli anni è solo li che è stato possibile costruire una vera e propria “ricostruzione narrativa”. Le possibilità sono infinite in quanto trattasi di una rappresentazione fortemente soggettiva. Ciò che mi emoziona tuttora è vedere come, dopo infiniti viaggi, luoghi diversi e il mutare del mio pensiero negli anni sia possibile raggiungere, un po’ come in un film, la propria introspezione.

Ultimamente hai esposto ad un festival molto interessante, We Land. Si sta muovendo qualcosa in Italia per la fotografia di paesaggio smarcata dai cliché, quali le differenze rispetto l’Europa?

L’esperienza al We Land Photo Fest, tenutosi questo novembre a Specchia, in Salento, è stata semplicemente meravigliosa. Il festival organizzato dalla associazione Photosintesi ha raggiunto un livello completo e di grande proposta culturale. La direzione artistica del festival di Adriano Nicoletti, che ringrazio ancora per la grande fiducia, è stata fondamentale per la sua riuscita. In particolare We Land ha dimostrato che la fotografia è qualcosa che sta diventando sempre più centrale nella nostra cultura anche in quei luoghi in cui sembra non ci siano le basi per avviare tali eventi culturali.
Il risultato è stato un grande lavoro di gruppo merito di questa associazione che sicuramente saprà farsi strada negli anni avvenire. Il festival inoltre è stato impreziosito dalla presenza di grandissimi autori come i carissimi amici Chiara Leone, Paolo Moretti, Cosmo Laera, ma anche di autori eccezionali come Massimo Siragusa e di esperti come Barbara Silbe, Antonello Bertolucci, Nicolas Lozito e tanti altri.
In Italia qualcosa si sta sicuramente muovendo e questo è merito anche dei lavori eccezionali di grandissimi artisti, spesso molto giovani, che grazie ai propri sforzi e al contributo di curatori, ricercatori, antropologi e storici riescono a costituire nuovi canali di veicolazione. Le differenze con l’Europa devo ammettere non è così drammatica come mi aspettassi. Il livello di numerosi autori italiani, la qualità delle ricerche che presentano e del contributo, spesso anche tangibile nella realtà, non è inferiore alle produzioni europee o americane. La vera differenza sta nel considerare la fotografia un vero e proprio linguaggio artistico utile non solo alla rappresentazione sia personale che documentaria del mondo, ma risiede nel suo riconoscimento delle possibilità concrete come mezzo etnografico, antropologico, educativo e di ricerca in cui il ruolo del fotografo diventa centrale nella costruzione e a una presa di consapevolezza della nostra società, del paesaggio o di qualsiasi sua declinazione. In Italia credo che tutto ciò sia ben chiaro ai più, ma rispetto ad alcune realtà europee possiamo soltanto che migliorare.

Come percepisci lo stato della fotografia in Italia soprattutto per i giovani fotografi? Quali spazi e quali possibilità?

In quanto tale credo che le opportunità per i giovani fotografi, talenti emergenti e figure di qualsiasi genere nell’ambito dell’arte contemporanea oggi non manchino. Sono numerose le proposte culturali, i festival, i concorsi, i collettivi indipendenti, il self publishing sempre più articolati e prestigiosi che, sempre attraverso un lavoro ben costruito e di valore, offrono le possibilità di divulgazione del proprio messaggio. Le potenzialità della scena contemporanea risiedono, a mio avviso, nei canali alternativi spesso lontani da istituzioni o restrizioni, basati sempre più su una ricerca autoriale e di alto livello. Inoltre in alcuni casi esse riescono a fare da ponte concreto tra la sfera indipendente a quelle più istituzionalizzate. Queste realtà abbracciano i giovani in modo inclusivo e aprono le porte a scenari indipendenti in grado di includere un’ampia fetta dei suoi fruitori.
La fotografia e l’arte contemporanea, anche in Italia, sta diventando un linguaggio sempre più masticato dalle giovani generazioni in cui le possibilità dei suoi percorsi diventano totalmente ibride e multidisciplinari. Alcuni esempi sono: lo spazio LO.FT, associazione culturale che si dedica alla promozione dell’arte visuale, in particolare della fotografia contemporanea, attraverso attività di formazione, editoria e mostre nata dall’idea di Francesca Fiorella e Alice Caracciolo. Essa inoltre vinse il bando PIN – Iniziativa promossa dalle Politiche Giovanili della Regione Puglia e ARTI ottenendo così un finanziamento per attività ideate da giovani con un’idea imprenditoriale.
Oppure le opportunità di carattere educativo e di formazione alternative e strettamente più intime come “Percorsi Fotosensibili”, nato dall’idea dell’artista Silvia Bigi. Si tratta di un progetto indipendente che mira a far riconoscere ad ogni studente il proprio potenziale tramite la sperimentazione, la progettualità e la messa in forma di lavori fotografici realizzati con l’apprendimento di linguaggi innovativi, tecniche e i codici della fotografia artistica contemporanea.
Oppure “Spazi Fotografici”, progetto che ha dato vita a un luogo fisico e mentale dove imparare, approfondire la cultura fotografica e confrontarsi, guidati da autori e professionisti di altissimo profilo. Quest’ultimi hanno realizzato di recente una Masterclass in cui vi insegnano autori giovanissimi come l’artista Francesco Levy.
Esistono anche realtà legate al mercato dell’arte, come il progetto a cura di Alessandro Curti “Still Young” in cui io stesso ho avuto la possibilità di essere inserito in diversi contesti che si affacciano al grande pubblico come il MIA Photo Fair. Oppure realtà internazionali come le attività promesse da Canon in cui vi è l’opportunità di viaggiare e conoscere autori di fama mondiale e di assistere ad un festival storico come il VISA Pour L’Image.
Queste sono solo alcune delle realtà sempre più diffuse su tutto il territorio, nate sia da artisti, sia da curatori e studiosi, ma che offrono soluzioni di alto spessore di valorizzazione e diffusione del proprio lavoro attraverso sia la formazione, la diffusione e soprattutto la valorizzazione della fotografia contemporanea, sia su territorio nazionale che internazionale. Inoltre da studente posso affermare come la fotografia e il percorso inerente all’arte sia sempre più tumultuoso e ricco di studenti che abbracciano questa disciplina. Ovviamente non tutto è positivo e ci sono numerose difficoltà, ma di certo credo sia innegabile che la fotografia in Italia stia vivendo un periodo positivo che fino a qualche decennio fa era si di alto livello, ma sicuramente marginalizzato e lontano dalle numerose proposte odierne. Credo che tutto ciò sia estremamente positivo e sicuramente ci troviamo solo all’inizio di un percorso, in cui mi sento essere fiducioso e speranzoso, che possa solo migliorare e crescere nel tempo.

Quanto è importante la presenza di galleria serie, attive, che credano alla fotografia come forma d’arte?

La presenza delle gallerie d’arte serie e attive credo sia uno snodo assolutamente importante e necessario. Questo sia per le ragioni più ovvie, come questioni economiche, di mercato, di diffusione, ma soprattutto di veicolazione. Ciò che trovo estremamente interessante è come i giovani stiano apportando numerose modifiche ad un sistema che per certi versi è rimasto troppo a lungo bloccato e istituzionalizzato, spesso poco accessibile e fin troppo d’élite. Esistono note realtà in cui il loro credo, inerente al linguaggio dell’arte, è assolutamente centrale.
“Dimora Artica” per esempio è uno spazio dedicato alle nuove tendenze dell’arte contemporanea e alla riflessione sulle forme condivise dalla produzione artistica, l’immaginario mitico e la cultura popolare in cui organizza mostre nella propria sede e in altri luoghi associando una peculiare modalità critica alla promozione dell’arte del presente, oppure il progetto “Office Project Room”, nato dall’incontro fra il collezionista e imprenditore Francesco Macchi e l’artista Matteo Cremonesi. L’obiettivo anche qui è quello di promuovere la cultura contemporanea senza restrizioni e abbracciando le nuove forme di linguaggio che costituiscono il contemporaneo. 
Questi sono alcuni esempi di “gallerie” che stanno evidenziando una nuova identità e forma della galleria più classica. Sono spazi non adibiti alla semplice esposizione e compravendita, ma si palesano come realtà interdisciplinari e di ricerca in grado di apportare un grandissimo contributo allo status quo della scena artistica contemporanea.

https://www.giacomoinfantino.com/

Mirko Bonfanti