Invito alla lettura: “L’infinito istante” di Geoff Deyr

«Sapere in anticipo che cosa stai cercando significa che stai solo fotografando i tuoi preconcetti, cosa che è molto limitante».

Questa è una frase della fotografa Dorothea Lange citata nelle primissime pagine da Geoff Dyer, autore del libro “L’infinito istante”.

Non a caso; attraverso la densa ma scorrevole lettura del suo libro, infatti, ritroviamo in pieno lo spirito delle parole della Lange. Nonostante la premessa dell’autore sullo scopo del suo saggio, per il lettore non è immediato capire dove veramente ci vuole condurre attravero le sue pagine, che, oltretutto, non sono organizzate in capitoli. Cercando tenacemente il filo conduttore che solo parzialmente si intuisce dalle prime pagine, dopo poco si arriva tuttavia ad essere totalmente coinvolti dalla ricerca di Geoff Dyer attorno alla Fotografia, complici di un excursus che non vuole essere né esaustivo, né didascalico.

Nella sua dichiarata parzialità Dyer ci insegna piuttosto quanto entusiasmante sia avventurarsi quasi fortuitamente tra le immagini con lo spirito curioso e puro di un “non addetto ai lavori” (l’autore non è fotografo e, come lui stesso ci racconto, neppure possiede una fotocamera) e ci svela infine che esistono connessioni e legami tra le immagini e gli autori: «[…] in misura sempre maggiore la storia della fotografia sembra essere fatta da fotografi che hanno dato le proprie versioni personalizzate di un repertorio di scene, tropi, soggetti e motivi. Questo repertorio si espande e si evolve costantemente, invece di essere fisso e statico, ma un numero sorprendente degli elementi che lo costituiscono fu stabilito fin dalle origini da Henry Fox Talbot negli anni Quaranta dell’Ottocento. Alcune foto di Talbot erano derivate, a loro volta, da modelli precedenti trovati in pittura». In un mondo, quello attuale, dove l’omologazione è spesso conseguenza della massificazione, un’analisi come la sua è decisamente preziosa. [Sulla fortuita associazione tra due immagini, in particolare a partire da una immagine di H.F. Talbot, si legga l’articolo sull’interessante libro di J.C. Bailly, “L’istante e la sua ombra”]

Il suo approccio alle fotografie che conosce e ci propone scevro da pregiudizi lo conduce dunque all’analisi della Fotografia a partire dagli stessi soggetti, ripresi da autori diversi a lui noti, portandoci peraltro alla scoperta di tanta fotografia americana o, ancor meglio «dell’America».

«Io fotografo per scoprire come apparirà una cosa fotografata» dichiara uno dei tanti fotografi di cui ci parla l’autore, Gary Winogrand; è infatti lo stesso esperiemento che Dyer compie del suo viaggio tra le fotografie: «Certe immagini hanno catturato il mio sguardo proprio come è capitato che certe cose abbiano catturato lo sguardo del fotografo che per primo le ha registrate»; ciechi, mani, notte, panchine, schiene, pompe di benzina, nudi, negozi di barbieri, scale, porte, fotografie dalle finestre, strade, cappelli sono solo alcuni dei soggetti che l’autore utilizza come punto di partenza per raccontarci tanta parte di Fotografia del Novecento.

Se infatti il suo esperimento è già di per sé motivo per leggere il libro, tutto quanto scrive in questo saggio è decisamente di grandissimo godimento, dal suo metodo di lettura delle immagini, alla scoperta delle differenze tra gli autori di fronte ad uno stesso soggetto, fino agli innumerevoli aneddoti che ci racconta. Scopriamo allora che Kertész aveva prestato a BrassaÏ la sua prima macchina fotografica, o che Georgia O’Keeffee, artista amante di Stieglitz, era grande amica di Rebecca Beck, moglie di Paul Strand e che il primo dei due grandi fotografi aveva fotografato nude entrambe le donne; leggiamo delle tante amanti di Edward Weston, una su tutte l’indimenticabile Tina Modotti, così come della ossessività con cui W. Eugene Smith fotografò dalla sua finestra in un loft preso in affitto a Pittsburgh, sull’orlo di una profonda depressione; scopriamo che la prima mostra di Walker Evans fu organizzata nel 1933 nelle gallerie di architettura del Museum of Modern Arte dove, per pura coincidenza, si teneva anche una retrospettiva dei dipinti di Edward Hopper, ma il fotografo era infastidito dalla cosa, nonostante, come Wim Wenders notava, le immagini del pittore «tendono a non essere assolutamente dei dipinti, ma fotografie in attesa. E non sono solo in attesa, sono anche foto di un’attesa, ed è questa caratteristica che condividono, più evidentemente, con le fotografie di Evans».

Dorothea Lange, Paul Strand, Andres Kertész, Edward Weston, Edward Steichen, Alfred Stieglitz, Weegee, Lee Frielander, Diane Arbus, Michael Ormerod, Joel Meyerowitz, Stephen Shore, William Egglestone, Robert Frank sono solo alcuni dei fotografi che compaiono tra le pagine di questo saggio sulla Fotografia.

Basta dare un’occhiata alla bibliografia e alle note in fondo al libro per apprezzare quanto pregnante possa essere il contenuto di queste pagine e quanto interessante dunque l’esperimento di mettere in relazione le tante immagini di questi importanti autori.

«Coincidenza? La domanda non ha senso. Come disse Cartier-Bresson “esistono solo coincidenze”[…] Quanto può protrarsi una coincidenza, prima che cessi di essere tale? La coincidenza deve essere di un istante? E quanto dura quell’istante, l’infinito istante?».

L’auore sembra dare una risposta a questo quesito sul finire del suo saggio, quando ci riporta qualche fotografia di James Nachtwey, con un balzo in avanti nel tempo, rispetto ai fotografi sui quali si è soffermato nel corso del suo libro; in esse ritrova tanti dei particolari, luoghi o categorie («chiamatele come vi pare» ci dice lo schietto Dyer!) delle immagini incontrate nel corso del libro. L’istante allora pare davvero infinito, purché si abbia sempre l’onestà di restare autentici, tanto quanto Dyer è riuscito a restare limpido nella sua lettura.

 

Luisa Raimondi