A cavallo del tempo

Nel suo libro “Hold still”, un meraviglioso memoir autobiografico, Sally Mann afferma di trovarsi in accordo con la teoria che sostiene che, se si vuole mantenere cristallino un ricordo, non si deve richiamarlo alla mente troppo spesso, poiché ogni volta che lo si rivive lo si altera irrimediabilmente, non facendo in realtà esperienza dell’originale, ma di quanto si è sentito l’ultima volta che lo si è rivissuto. «With tiny differences creeping in at each cycle, the exercise of our memory does not bring us closer to the past but draws us farther away», un po’ come accade con la compressione lossy dei file Jpeg, ne perdi un pezzo ogni volta che li apri e li chiudi.

Per fortuna esistono le fotografie. Forse.

Nel testo di Claudio Marra “L’asse Rose/Duchamp” 1 l’autore cita Rose, la protagonista del film di James Cameron “Titanic”, quando perde l’amato Jack: «Non ho di lui neppure una fotografia!» quasi a colmare il vuoto, l’assenza. Un simulacro; qualcosa che trattiene per noi i nostri cari, oltre il tempo, oltre la morte.

Questo, dunque, può una fotografia?

Pare non essere del tutto di questo parere Rossano Baronciani, che nel suo libro “Il tempo non esiste”2 scrive: «Quel che è stato muta e si crea costantemente, perché noi stessi cambiamo ogni volta, e le fotografie finiscono col diventare un tratto di matita in un foglio bianco che ogni volta ricominciamo a disegnare, ogni volta in un modo diverso». 

È su questo punto che vorremmo concentrare la nostra attenzione. Abbiamo davvero fermato il tempo in una fotografia?

Nel suo lavoro “Family” Masahisa Fukase ci ha provato: dal 1971 al 1989 realizza foto di famiglia nel suo studio fotografico, proseguendo le sessioni anche dopo la morte del padre (cui dedica un altro interessante lavoro che vi suggeriamo “Memories of my father”). Fukase afferma «My entire family, whose image I see inverted in the frosted glass, will die one day. This camera, which reflects and freezes their images, is actually a device for archiving death». 

Archiviare la morte, dunque.

Come scrive Roland Barthes nel suo “La camera chiara”3 «Per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di “rendere vivo” non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti.»

Del lavoro del fotografo giapponese, una immagine ci colpisce particolarmente: quella di famiglia, al funerale del padre. 

Fonte Google – ©Masahisa Fukase

Uno di loro regge una cornice che contiene una fotografia del padre ancora vivo.

Rose avrebbe probabilmente apprezzato: eccola lì la fotografia, eccolo il simulacro, ecco l’oggetto transazionale che sfida la morte!

Se da un lato di primo acchito il giochino ci pare perfettamente funzionare, dall’altro osservandola ci sembra di aprire una matrioska per ritrovarcene un’altra tra le mani e poi un’altra ancora, con la sensazione che né la cornice del quadro, né i lati della fotografia siano davvero riusciti a fermare tempo, pensieri e a trattenere i nostri cari.  “Things are queer” avrebbe detto Duane Michals.

E se bastasse girare le spalle in una fotografia di famiglia, per opporsi al flusso del tempo?

Fonte Google – ©Masahisa Fukase

Forse potrebbe funzionare, perché ci aiuterebbe a cercare nella nostra memoria, anziché chiedere soccorso ad un’immagine bidimensionale, come fece, pentendosene, Sally Mann. Nel suo sopra citato libro la fotografa ammette che «non è stata la morte a portarmi via mio padre, ma la fotografia»: ciò di cui si rende amaramente conto è che ha ricordo delle fotografie di suo padre, più che di lui. Nella sua memoria è più presente dunque il padre “bidimensionale” che quello tridimensionale: il timbro della sua voce, il suo profumo le sono sfuggiti. 

Ciò nonostante fotografiamo.

La fotografia, in sé, non è altro che una serie di segni, forme, colori su di uno spazio bidimensionale. La fotografia non può nulla senza di noi. La fotografia non esiste senza qualcuno che la guardi. Non siamo noi a tornare indietro nel tempo quando guardiamo una fotografia del passato; è la fotografia a raggiungerci, è l’immagine che ritorna prepotentemente nel flusso del tempo fino a connettersi al nostro presente, all’attimo in cui la guardiamo e sentiamo le emozioni, che per loro natura non possono che essere presenti e certamente non eterne.

Non solo; gli sguardi non sono tutti uguali e non sono sempre uguali.

Un album di nozze nel cassetto dimenticato di due coniugi vittime del disamore non ha lo stesso impatto che ha avuto la prima volta che è stato sfogliato.

Una fotografia nelle mani di un perfetto sconosciuto, diventa fotografia anonima con tutto il diritto di raccontare una nuova storia, e spesso, poi, è la storia di tutti. A questo riguardo è interessantissimo l’esperimento “The Anonymous Project” in mostra ad Arles (Recontres de la Photographie)  lo scorso anno.

Fonte Google – ©The Anonymous Project
Fonte Google – ©The Anonymous Project

Nel 2017 il regista Lee Shulman, creatore del progetto, compra una scatola contenente vecchie diapositive e si innamora della gente e delle storie che vi scopre; decidendo di raccogliere e conservare diapositive a colori degli ultimi 70 anni, il collezionista crea un corpo di fotografie che hanno dei punti in comune: le feste di compleanno, le foto delle vacanze, le foto di bambini, le foto degli animali domestici, le foto di gruppi famigliari. 

Tutti abbiamo nel cassetto una foto di noi o di nostro figlio che soffia sulle candeline della torta di compleanno. Molti di noi si sono avvicinati al fotografare, per dirla con Roland Barthes, come «quell’amico che si è avvicinato alla Fotografia solo perché essa gli permetteva di fotografare suo figlio». Sostanzialmente, proprio come lo stesso Barthes ci racconta nel suo sopra citato libro, siamo decisamente più Spectator che Operator (il fotografo), e, sotto questo punto di vista, i social network insieme alla mobile photography hanno esaltato questa tendenza. Provate ad assistere all’ingresso in chiesa di una sposa: non è più semplicemente ammirata sfilare lungo la navata, ma osservata tramite il monitor del proprio cellulare. Osservate come, al taglio della torta, ci sia la ressa di invitati per fotografare il sontuoso dolce, se non addirittura la richiesta di essere ritratti al suo fianco, sorridenti. 

La fotografia di matrimonio, peraltro, è oltremodo densa di immagini che si ripetono simili per ogni evento. La cosa non è affatto sfuggita ad Erik Kessels che nella sua raccolta della rivista “Useful Photography” dedica proprio al matrimonio il suo numero 10. Kessels è attratto proprio dal ruolo dello Spectator: non fotografa, ma raccoglie fotografie (consigliatissimo il suo libro. “The many lives of Erik Kessels”); le accosta in gruppi generando il racconto non più della storia personale, ma di quella collettiva.

In essa, al fine, è certamente lecito riconoscersi ma è nello stesso tempo straniante: un deja vu che ci fa mettere mano al portafoglio alla ricerca della nostra foto “ciancicata” (citando Claudio Baglioni) che ci riconsegni le coordinate del nostro affetto, lì, nello spazio bidimensionale di quella fotografia.

Nonostante tutto siamo in questo tempo, in questa dimensione: l’album di famiglia, la foto sulla lapide, il ritaglio della fotografia nel nostro portafoglio, il gruppo di famiglia incorniciato ed appoggiato alla mensola sopra il caminetto, le fotografie il giorno di Natale, o le fotografie delle vacanze, insomma, è lecito siano per noi appigli in questo viaggio, in questo flusso nel quale siamo immersi, come in una corrente marina cui sarebbe stupido opporsi, oltre che impossibile. 

Tutto sommato, in quest’ottica, pur se grottesche ed inquietanti, le fotografie post-mortem tanto in voga in epoca vittoriana sono la verace ammissione di questo bisogno: indovinato, a tal proposito, il titolo del libro di Mirko Orlando che ne tratta in modo esaustivo “Ripartire dagli addii”4: muovere, muoversi oltre. Restare nel flusso.

Anche la sopra citata Sally Mann compie un esperimento sui generis post-mortem: attraverso le sue coraggiose fotografie di cadaveri in decomposizione, presso “The Body Farm” , una struttura a disposizione della Università di ricerca antropologica del Tennesse, la Mann si interroga proprio sul trapassare e sul tempo, fino a cercarlo, in extremis, nei segni che inesorabilmente lascia consumando il corpo di un essere umano ormai cadavere, senza più vita.

Fonte Google – ©Sally Mann

In modo decisamente diverso e certamente più orientale, preferiamo tuttavia lasciarvi con le immagini dei drive-in di Hiroshi Sugimoto; nella fotografia “Union City Drive-in”, lo schermo del cinema reso bianco accecante a causa della esposizione lunga tutta la durata del film ci racconta in altro modo l’azione del tempo, restituendoci in immagine l’oblio o l’assoluto che ci aspetta, quando il tempo, forse, non sarà più una dimensione dell’esistere e quel film sarà la nostra intera esistenza.

Fonte Google – ©Hiroshi Sugimoto

Una fotografia in fondo, come diceva William Henry Fox Talbot5, è solo una deriva dal corso del tempo, prima che tutto scompaia, compresa la nostra memoria.

Luisa Raimondi

1 . “Forse in una fotografia” di Claudio Marra; Clueb Edizioni

2. “Il tempo non esiste” di Rossano Baronciani; effequ Edizioni

3. “La camera chiara” Roland Barthes, Piccola Biblioteca Einaudi

4. “Ripartire dagli addii” di Mirko Orlando; MJM Editore

5. Si legga “L’istante e la sua ombra” di Jean-Christophe Bailly; edizione Bruno Mondadori.

Foto in copertina ©Luisa Raimondi