La fotografia come memoria nel rapporto tra arte e architettura degli architetti BBPR, Dardi, Monaco Luccichenti e Moretti
Come rappresentare ciò che oggi non c’è più? Come testimoniare ciò che nel tempo è stato trasformato, si è perduto o è stato concepito come effimero (come gli allestimenti museali o le performances artistiche)? Come evidenziare dettagli di architetture del passato che sfuggono allo sguardo?
“Nulla può dare […] una visione per quanto minima dell’avvenimento qualunque esso sia come una fotografia ben eseguita” (R. Namias).
Grazie alla sua immediata capacità visiva la fotografia è una delle più importanti fonti di conoscenza del vicino passato, soprattutto se posta a corredo di altri documenti d’archivio come disegni, carteggi, testi, progetti o modelli che la contestualizzino, testimoniando opere d’arte, architetture, gesti artistici o personaggi che non ci sono più.
Interessante esempio ne è la mostra da poco conclusasi “Architetture a regola d’arte” al MAXXI di Roma, curata da Luca Galofaro con Pippo Ciorra, Laura Felci ed Elena Tinacci, volta ad indagare il rapporto creativo e poetico tra architettura e opera d’arte nel lavoro di alcuni tra i più importanti architetti italiani del Novecento, seppur molto diversi tra loro: BBPR, Luigi Moretti, Costantino Dardi, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti.
Qui, infatti, storici allestimenti museali o di mostre temporanee che hanno segnato la storia dell’architettura, oggi in gran parte perduti, così come le opere degli artisti con cui questi professionisti hanno collaborato, sono stati illustrati a partire dai documenti d’archivio della Collezione MAXXI Architettura, con un grande utilizzo – tra le altre fonti – di immagini scattate da fotografi professionisti o dagli stessi artisti, provenienti non solo dal MAXXI ma anche da archivi privati o fondi archivistici come la RIBA collection, l’ICCD, il civico archivio fotografico di Milano, l’archivio della Triennale e quello della Fondazione Memoria della Deportazione di Milano.
Diverse modalità di approcciare il progetto e differenti linguaggi e materiali sono stati qui legati dal fil rouge della presenza dell’arte nell’architettura, come “due facce di una stessa medaglia che continuamente si incontrano e contaminano”, a sottolineare la “capacità di costruire un rapporto interdisciplinare nuovo con l’arte e con gli artisti”, in cui la dimensione personale si interseca con quella professionale: dagli allestimenti museali dei BBPR alle architetture integrate alle opere d’arte dello Studio Monaco Luccichenti; dalle installazioni di Costantino Dardi all’amore per l’arte di Luigi Moretti, collezionista e gallerista oltre che architetto.
LO STUDIO BBPR
Tra i lavori riferiti all’architettura in rapporto all’arte dello Studio BBPR (fondato nel 1932 da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgioioso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers) si ricorda soprattutto il progetto di restauro e allestimento del museo del Castello Sforzesco di Milano (1954-56, 1963), concepito non come puro contenitore ma come narrazione ed educazione alla storia, attraverso opere d’arte poste in successione, con uno sguardo rivolto sia al passato che al futuro culminante nella sala della Pietà Rondanini di Michelangelo, dove la scultura, isolata da due quinte semicircolari in blocchi di pietra, era raccolta in uno spazio in cui il visitatore veniva introdotto gradualmente, preparandosi alla visione dell’opera.
Questo importantissimo esempio di museografia italiana del secondo dopoguerra, dove gli architetti “realizzano una macchina espositiva in cui l’allestimento e l’oggetto d’arte sono legati indissolubilmente, facendo entrare in risonanza le opere, l’allestimento, l’architettura e il restauro” (P. Brambilla), rappresenta l’emblema del fertile rapporto che essi ebbero con l’arte, con una costante interazione tra discipline che ritroviamo nei loro progetti sia in maniera esplicita con il coinvolgimento di artisti, sia in maniera indiretta attraverso le loro visioni architettoniche volte a creare negli allestimenti una narrazione e un’esperienza sensoriale oltre che conoscitiva grazie a tagli di luce, dettagli ricercati, materiali inediti e strutture espressive.
Ne sono un esempio il Labirinto per ragazzi al Parco Sempione per la X Triennale di Milano del 1954 (edizione volta a “riaffermare il rapporto unitario tra architettura, pittura e scultura”): questo padiglione – non più esistente – originariamente dedicato alle tre arti, era costituito da tre grandi spirali di muratura su cui si srotolava un lungo graffito di Saul Stainberg (che ne riprenderà l’idea anni dopo all’ingresso della palazzina Mayer a Milano), con un percorso di progressiva scoperta che terminava al centro con una scultura mobile di Alexandre Calder.
Allo stesso modo nello showroom Olivetti a Manhattan (1954, demolito negli anni ’70) un bassorilievo di 20 m dello scultore Costantino Nivola decorava una parete rapportandosi al design delle macchine da scrivere ideate da Marcello Nizzoli, sostenute da piedistalli in granito o trasportate da una ruota in metallo direttamente dal magazzino sottostante, mentre un’altra parete avrebbe dovuto ospitare opere di Chagall e Shawinsky. In questo modo, come in altri punti vendita della Olivetti ad opera di importanti architetti (Ugo Sissi a Roma, Carlo Scarpa a Venezia, Franco Albini a Parigi), l’architettura era volta ad esaltare i caratteri innovativi del marchio attraverso il design e l’arte.
Nell’allestimento della sala La forma dell’utile, invece, la prima esposizione dedicata all’industrial design alla IX Triennale di Milano (1951), curata da Belgiojoso e Peressutti, il percorso espositivo, che si snodava tra cavetti di acciaio e sfere di ottone con immagini illuminate da neon entro tubi metallici, era preceduto da una scultura in gesso innestata su un puntone da pavimento a soffitto di Max Huber.
Più recentemente il Memoriale italiano di Auschwitz (1979-80), una tra le prime installazioni multimediali, originariamente collocata nel Blocco 21 dell’ex campo di sterminio e poi smantellata – oggi a Firenze nello spazio Ex3 (Memoriale delle Deportazioni) – a cui lo studio collaborò insieme allo scrittore Primo Levi, al regista Nelo Risi, al pittore Pupino Samonà e al compositore Luigi Nono, fu concepito come un’enorme spirale ad elica da percorrere internamente lungo una passerella in traversine in legno, come in un tunnel ferroviario rivestito da un una tela di 500 m, suddivisa in 23 strisce dipinte, raffigurante il fascismo e il nazismo, la Resistenza e la deportazione, attraverso un uso del colore dove al nero della violenza si contrapponeva il bianco del movimento cattolico, il rosso del socialismo e il giallo dell’ebraismo.
Questo non fu il primo e unico memoriale realizzato dallo studio per i caduti nei campi di concentramento (si ricorda in particolare quello presso il Cimitero Monumentale di Milano, del 1946, successivamente ricostruito): gli architetti, infatti, per le proprie convinzioni personali (l’ebreo Rogers dovette riparare in Svizzera durante la guerra, mentre Banfi e Belgiojoso per l’impegno in favore della resistenza furono deportati a Mauthausen, dove il primo perse la vita) furono molto attivi sul tema, con scritti e mostre organizzate in ricordo di architetti e intellettuali osteggiati dalle politiche del regime. Questa vicenda è stata narrata sempre al Maxxi all’interno della mostra “Il tempo ritrovato. Storie di architetti ebrei”, rientrante nel progetto “Architecture and remembrance” finanziato dalla Commissione Europea con “l’obiettivo di indagare le conseguenze delle leggi razziali del 1938-40 e delle misure discriminatorie dei regimi nazifascisti sulla professione e la vita di architetti ebrei in Italia e in Europa centrale”.
COSTANTINO DARDI
Parlando di mostre temporanee di oggetti d’arte è d’obbligo citare anche il lavoro di Costantino Dardi, per il quale “il rapporto tra arte e spazio è un tema di riflessione costante” a metà tra la storia, con riferimenti alla pittura rinascimentale di Piero della Francesca e Paolo Uccello, e la contemporaneità, con allestimenti basati sullo studio del contesto in cui si intersecano minimalismo, land art e arte concettuale, e con artisti di avanguardia come Sol LeWitt, Daniel Buren e Giuseppe Uncini, volti ad definire in maniera nuova lo spazio per raggiungere la sintesi tra opera e luogo.
“I suoi progetti espositivi sono vere e proprie installazioni in cui l’opera d’arte ritrova un proprio paesaggio di riferimento”, avvicinandosi sempre più a un evento artistico in cui il tempo e lo spazio sono sempre diversi e irripetibili, così come il rapporto tra oggetto e contesto: per lui l’installazione “rappresenta il luogo della massima tensione e sintesi tra arte e architettura”, nella quale “l’opera d’arte e lo spazio […] si fondono in un’unità complessa e necessaria” e in cui la prima contribuisce a potenziare il linguaggio architettonico.
Attraverso una sapiente modulazione della luce e dello spazio grazie ad incastri di solidi geometrici, ritmi di pieni e vuoti, strutture leggere accostate a setti murari, stretti camminamenti e relazioni inaspettate tra interno ed esterno, egli crea una serie di rapporti tra il contesto e gli oggetti in esposizione, senza individuare una posizione specifica per le opere ma creando “traiettorie che ripercorrono le tracce lasciate dall’esperienza visiva nello spazio”, rileggendo e ricreando gli spazi attraverso vere e proprie ‘azioni artistiche’ che “risignificano ogni volta, in un’istantanea, opera e luogo, arte e spazio, città e natura” (R. Albiero, Costantino Dardi l’arte della configurazione).
A partire dalla vittoria del concorso per l’AGIP di Mestre nel 1968, dove egli comprende l’importanza delle figure geometriche elementari nella generazione dello spazio, Dardi si appassiona al rapporto con l’arte, anche grazie alle sue frequentazioni con l’ambiente artistico romano e in particolare con Achille Bonito Oliva, che negli anni ’70 e ‘80 lo porta a varie sperimentazioni sul tema, firmando la sistemazione del Palazzo delle Esposizioni di Roma (1982) e il Padiglione italiano all’Expo di Osaka (1968), oltre ad allestimenti di grandi mostre per la Triennale di Milano, la Quadriennale di Roma e la Biennale di Venezia (tra cui una facciata per la celebre Strada Novissima di Paolo Portoghesi: un percorso di 70 m perimetrato da dieci facciate urbane per lato a grandezza naturale realizzate da differenti architetti, quale riflessione sul tema della strada), ma anche in luoghi normalmente sottratti ai cittadini come i resti archeologici, tra cui le mostre “Avanguardia/Transavanguardia ’68-77” sulle mura aureliane e “Roma Capitale 1870 – 1922” ai Mercati Traianei, o quella su Etienne Boullée al Vittoriano quale set cinematografico del film “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway (1986).
LO STUDIO MONACO LUCCICHENTI
Molto diverso il rapporto con l’arte nel lavoro degli architetti Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, significativi interpreti del Movimento Moderno seppur meno noti al grande pubblico, attivi dagli anni ’30 (quando ottennero il secondo posto al concorso per il palazzo dei Congressi all’E42) e nel Dopoguerra, sia in importanti opere pubbliche simbolo del miracolo economico, come quelle per le Olimpiadi di Roma del 1960, insieme ad altri noti architetti (tra cui il quartiere residenziale del Villaggio Olimpico, il viadotto di corso Franciae il terminal dell’aeroporto di Fiumicino), sia negli interni dei transatlantici e nell’edilizia residenziale privata per la medio-alta borghesia romana, con esempi ritenuti quanto di meglio realizzato in questo campo nell’Italia del boom.
Nelle loro architetture, caratterizzate da una certa sperimentazione formale e dall’utilizzo di materiali raffinati, insieme a grandi abilità progettuali, interesse per la qualità dei dettagli ed attenzione alla funzionalità e alla distribuzione interna, “l’arte entra nello spazio costruito come frammento” attraverso incisioni, decorazioni pavimentali, lampade, maniglie, cancellate, pannelli murari, comignoli, arazzi, tutti disegnati da artisti di fama con cui essi intessono rapporti personali (tra cui Giuseppe Capogrossi, Antonio Corpora, Pietro Consagra, Nino Franchina, Gino Severini), trasformando lo spazio in un “dispositivo in cui arte e architettura si fondono assieme” e dove “gli interventi artistici non solo arricchiscono lo spazio architettonico e si integrano nel contesto, ma diventano metafora spaziale di un dialogo che trascende le opere e coinvolge il dialogo personale tra gli autori”, riproponendo quella collaborazione tra le arti che aveva caratterizzato gli anni Trenta.
Dai comignoli-scultura di Franchina nella Casa a ville sovrapposte Minciaroni (1949-55) ai pavimenti delle terrazze disegnati da Corpora per il Villino Federici (50-52) o da Capogrossi per la sede di Confindustria all’Eur (1968-70), fino ai grandi arazzi di Severini per gli interni della turbonave Leonardo da Vinci, per la quale essi curarono gli arredi delle sale e dei saloni (1958-60); dai mosaici utilizzati in prospetti, ingressi e ambienti alle incisioni di Consagra per gli ingressi della Palazzina Ariete (1947-50) e del Villino Federici, i due architetti “individuano una pratica progettuale nuova, nella quale lo spazio architettonico coinvolge il dialogo personale tra gli autori”, distribuendo “frammenti d’arte ancora apprezzabili nel tessuto urbano della Capitale”.
Nella loro produzione non mancarono allestimenti di mostre, come il Padiglione dei minerali ferrosi per la Mostra autarchica del minerale italiano al Circo Massimo (1938) o la mostra della Federazione Italiana dei consorzi agrari all’Esposizione EA53 al palazzo dei Congressi EUR di Roma (1952-53), per la quale Severini realizzò all’ingresso dell’edificio il “fregio dell’agricoltura” , un’enorme pittura murale su pannelli di compensato, sovrapposta ad un precedente affresco di Achille Funi, oggi riportato alla luce.
LUIGI MORETTI
Chiude questo excursus Luigi Moretti, uno dei più rilevanti architetti del XX secolo (seppur a lungo isolato dalla critica e solo recentemente rivalutato), autore durante il fascismo di opere come il masterplan del Foro Mussolini, la piscina del Duce, l’Accademia di scherma e la GIL di Trastevere. Nel Dopoguerra la sua vasta e differenziata attività professionale si articola tra la scena romana, quella milanese ed internazionale, tra edifici privati (tra cui il complesso per abitazioni e uffici in corso Italia a Milano, villa La Saracena a Santa Marinella e il Watergate a Washington) e importanti incarichi pubblici di architettura e urbanistica a Roma (tra cui l’EUR e il Villaggio Olimpico), con un linguaggio innovativo e personale, che, pur abbandonandone i vincoli, si è lasciato ispirare dal barocco al razionalismo, dal brutalismo all’informale, aprendo la strada al postmodernismo.
Nelle sue architetture “è sempre evidente la tensione tra modernità e tradizione”, tra l’amore per la storia e la nuova plasticità promossa dalle avanguardie: “una polarità indistruttibile tra presenza realistica e incantesimo” (come disse di lui G. Ungaretti nella prefazione di una raccolta di opere del 1968, a dimostrare ancora una volta la compresenza delle arti) derivante da una personale ricerca basata sulla centralità dello spazio, con un dinamismo delle forme legato all’uso di sequenze spaziali che rimandano ad altri spazi, dimensioni rapportate alla scala umana, alternanza di luce e ombre, tensione data dal peso che scarica a terra o rimane sospeso, esibizione di connessioni.
Da raffinato collezionista di opere d’arte (soprattutto del Seicento e dell’antichità) qual era, egli ebbe un profondo rapporto con l’arte, inizialmente espresso grazie alla collaborazione di pittori e mosaicisti come Gino Severini, Giulio Rosso, Angelo Canevari, Achille Capizzano, poi in maniera più complessa attraverso la sua attività di appassionato ed esperto, di collezionista e gallerista, oltre che di architetto. Per lui esiste un intimo rapporto tra arte e architettura, dove la prima è il motore e il substrato teorico della seconda, che ne raccoglie le sollecitazioni, tanto da sostenere che “non esiste l’uomo architetto, esiste l’uomo artista; l’unità umanistica è inscindibile”. La sua poetica parte dall’analisi delle forme e dello spazio nella storia, non tanto come ritorno al passato ma come chiave per scoprire il presente e quale presupposto per l’architettura moderna, traendo ispirazione da Giotto, Borromini e Michelangelo da un lato, per la loro capacità di sublimare il rapporto tra arte e architettura, e dagli artisti contemporanei dell’informale e dell’astrazione figurativa dall’altro, che lo portano a creare nelle sue architetture “luci, ombre, intonaci con una densità materica, tagli dei volumi contrapposti” raccogliendo quel messaggio di drammaticità e complessità intriso nelle forme barocche.
Relativamente a questi temi i suoi strumenti di ricerca sono la rivista Spazio, da lui pubblicata continuativamente in sette numeri tra il 1950 e il 1953 e sporadicamente negli anni successivi, che si proponeva di mostrare il collegamento fra le arti (dall’architettura alla scultura, dalla pittura al cinema e al teatro), luogo d’elezione dove far confluire le proprie idee sull’architettura e i risultati dei suoi studi, e l’omonima Galleria d’arte a Roma, spazio di incontro e di esordio dove esporre ed accogliere artisti come Pollock, Burri, Capogrossi, Conrad e altri, affiancandovi altri luoghi espositivi tra Roma e Torino. Sintesi di questa ricerca la ‘pinacoteca drive-in’ della mostra “Contemporanea” allestita nel 1973 da Piero Sartogo nel parcheggio sotterraneo della galleria di Villa Borghese a Roma, da lui stesso progettato.
Attraverso ricerche e scritti sui maestri del passato, schizzi di studio e collages riguardanti l’architettura antica, ma anche reportages fotografici su edifici della tradizione, egli instaura un rapporto intimo tra arte e architettura, che culmina nel film documentario “Michel-ange” del 1964, da lui diretto insieme a Charles Conrad e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (ottenendo il premio “film d’arte”), volto a ricostruire la vita personale ed artistica di Michelangelo Buonarroti – figura dell’architetto artista per eccellenza – attraverso l’illustrazione delle sue opere più importanti e la lettura di alcuni brani dei suoi testi, stabilendo in via definitiva che “l’architettura è arte e l’arte è architettura”.
Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: Castello Sforzesco, sala 17, La “Pietà Rondanini” esposta in una nicchia di pietra serena – Servizio fotografico by Paolo Monti/The image comes from the Fondo Paolo Monti, owned by Beic and located in the Civico Archivio Fotografico of Milan. La Fondazione BEIC è titolare dei diritti d’autore dell’Archivio Paolo Monti.