ARCHITETTURA e FOTOGRAFIA: il RISCATTO delle PERIFERIE. Intervista a Pasquale Liguori

Può l’architettura – attraverso la rappresentazione fotografica – essere contemporaneamente simbolo di modernità ma anche di degrado e di riscatto sociale? Può la fotografia di architettura fungere da denuncia e insieme accendere una luce di speranza per il futuro?

Osservando i lavori di Pasquale Liguori, fotografo romano di origine napoletana autore di volumi, mostre e saggi sulla fotografia urbana e sociale, con una predilezione per i luoghi ai margini della città e gli edifici residenziali pubblici, la risposta è sicuramente affermativa.

Attraverso la fotografia egli analizza il paesaggio urbano di alcune periferie in Italia e in Europa con un occhio disincantato, oggettivo e distaccato, non superficiale, che va oltre l’immaginario comune e il pregiudizio che spesso in maniera sprezzante circonda questi spazi, alla ricerca di quei dettagli che da un lato facciano emergere le qualità architettoniche – ormai quasi perdute – di contesti nati con precisi intenti urbanistici, dall’altro mostrino l’appropriazione di quegli stessi luoghi da parte dei relativi abitanti, al fine di rivalutarli e suscitare quell’interesse che li faccia rientrare a pieno titolo nel dibattito politico ed urbanistico sugli sviluppi futuri delle città, offrendo loro nuove possibilità.

I quartieri analizzati, seppur differenti per contesto, epoca storica e dimensione territoriale, derivano tutti da specifici e ambiziosi programmi di edilizia popolare di iniziativa pubblica, nati dall’esigenza di offrire un alloggio a basso costo alle masse. Spesso frutto di un’urbanistica utopica o ideologica carica di aspettative che non sempre ha dato i frutti sperati, nel tempo si sono trasformati per lo più in quartieri dormitorio con problemi di degrado, isolamento, disagio, tensioni sociali e integrazione, oppure hanno perso progressivamente la propria identità; eppure, se osservati da vicino, essi mostrano una celata vitalità e fermenti di rinascita, anche grazie ad iniziative esterne che stanno producendo nuovi impulsi economici e culturali.

Ed è proprio lì che arrivano le fotografie di Liguori, alla ricerca di un’insita “capacità di esprimere fascino, energia, ingegno e dignità” che questi luoghi hanno, attraverso una rappresentazione nuda ed essenziale, quasi cristallizzata in un preciso momento, dove emergono soprattutto l’architettura e il contesto urbano privati della presenza umana. Questo approccio originale, attento ad immortalare quanto in genere viene tralasciato dai più, propone una visione alternativa della città, in bilico tra “ambizione, declino e possibilità di riscatto”, cercando di scavare nel profondo e nella quotidianità di questi quartieri, seppur senza invaderla o ostentarla, mostrandone la dignità spesso ignorata. In questo modo divergenze e conflitti sembrano essere appianati, permettendo all’osservatore di guardarli con altri occhi, al fine di stimolare in lui “una consapevolezza civica per una città migliore” (P. Liguori).

Tra i principali progetti dell’autore ricordiamo “BorGate” (2017) e “BO/rgate” (con banco ottico, di prossima pubblicazione) derivanti da un’approfondita ricerca sulle “borgate romane”, termine che, pur accomunando in maniera dispregiativa differenti fenomeni di degrado architettonico e sociale della periferia romana, in realtà si riferisce alle “borgate ufficiali” fasciste della fine degli anni ‘30 del Novecento, caratterizzate da “casette poverissime” e “borghetti rurali” costruiti lontani dalla città storica di allora, al di fuori del Piano Regolatore, in linea con la volontà di antiurbanesimo del governo. Oggi queste zone sono profondamente cambiate, assorbite nella città consolidata seppur caratterizzate da una certa connotazione informale.

In “IMPASSE – Roma-Berlino Periferie alla svolta” (2019), egli confronta invece il Corviale, maestoso e audace edificio di impronta lecorbuseriana a sud-ovest di Roma realizzato dallo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), allora iconico simbolo di modernità e oggi isolato e spettrale, con il quartiere Marzahn della ex Berlino est, costruito ai tempi della DDR, enorme distretto abitativo di una certa qualità che ha subito un forte declino dopo la riunificazione della Germania. Entrambi frutto di una medesima stagione costruttiva e simili tecniche di prefabbricazione (anni ’70-80) seppur derivanti da una differente ideologia, hanno avuto un analogo percorso evolutivo che li ha portati nel tempo a costituire “un paesaggio spigoloso, con linee chiare e abbondanza di cemento”, divenendo “metafora della durezza e del brutalismo dei grandi complessi residenziali” (A. Holm).

Da dove ti deriva la passione per la fotografia? Quando e come hai iniziato?

Ho iniziato da ragazzino, nell’epoca dell’analogico, seguendo mio padre – un fotografo amatore – che mi aveva prestato la macchina fotografica (una Praktica made in DDR – ndr): lui amava fare diapositive e proiettarle, e io sono cresciuto così, circondato da una marea di telaietti che riempivano casa. Successivamente la passione per la fotografia è maturata sempre più, utilizzando nuovi strumenti e passando al digitale, ma l’amore per l’analogico è rimasto, nonostante comporti una certa fatica, sia perché i materiali non sono spesso facilmente reperibili, sia perché le foto prevedono una lavorazione più complessa.
Da una decina d’anni ho iniziato a svolgere questa professione con metodica progettuale e veri e propri “progetti fotografici” partendo dai quartieri periferici, luoghi in cui ero già abituato a muovermi, essendo cresciuto alla periferia di Napoli dove avevo iniziato a fotografare da ragazzo
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Perché le periferie?

Io desidero con la fotografia fare ricerca sul vivere e l’abitare contemporaneo, indagandone le possibilità di sviluppo, e le periferie sono il luogo più interessante da questo punto di vista per il loro ruolo di bordo e di membrana, ove avvengono gli scambi più attivi e le trasformazioni più veloci, ma dove si ha la maggior complessità e iniquità. Nelle nostre città c’è una forte polarizzazione tra zone con condizioni di maggior benessere e qualità da un lato e le periferie dall’altro, queste ultime caratterizzate da edilizia priva di criteri urbanistici, dove si ammassano difficoltà e ingiustizia sociale, spesso acuite dalla privazione dei servizi, ma con il più grande potenziale. Se si pensa che nei prossimi decenni la gran parte della popolazione andrà a vivere nei centri urbani si può immaginare che lo sviluppo maggiore sarà proprio nelle periferie, le parti più vive e pulsanti che vale la pena di analizzare.

Pur partendo dalla rappresentazione dell’architettura, tu definisci la tua fotografia “a metà tra la ricerca sullo spazio urbano e il reportage”: cosa intendi esattamente?

Come diceva Gabriele Basilico la fotografia urbana non deve essere solo bella, ma deve indurre alla riflessione. La mia non è una vera e propria “fotografia di architettura” fine a se stessa, alla ricerca dello Zeitgeist, ma è una fotografia calata nel sociale, nella quale cerco di riprendere gli elementi di umanità ad essa sottesi, perché quando si parla di periferie automaticamente ci si deve collegare al vissuto e alla condizione degli abitanti. L’architettura è per me quindi solo un mezzo – tra l’altro molto efficace – per descrivere dove stiamo andando, cosa si è fatto e cosa ancora si può fare, indagando il rapporto tra uomo e struttura, tra forma e vita, alla ricerca di cosa l’edificato può offrire all’uomo e di come il vivere informale può modificare costruzioni e disegni nati con altro scopo, almeno nella mente del progettista. Partendo da un’impostazione tecnica di fotografia di architettura, pertanto, inserisco l’informazione sociale, per poi trasferirla al rapporto con il soggetto che abita la città.

Come ti prepari?

Quando inizio un progetto per me la prima cosa è “non usare” la macchina fotografica, per non ricadere nel rischio della “paparazzata”, ma studiare profondamente il luogo che dovrò fotografare: è importante immedesimarmi in esso, ma soprattutto conoscere ed essere consapevole della sua storia. Per questo mi preparo studiando sui testi storici, sulle fonti, facendo ricerche e sopralluoghi, parlando con gli abitanti del posto, per essere assorbito in maniera più empatica con chi ci vive. Purtroppo invece spesso questo tipo di fotografia viene utilizzato per appagare la propria curiosità pettegola, come nel turismo delle periferie (slumming), con incursioni nella “riserva indiana” volte a documentarne degrado e difficoltà, contrarie alla crescita socio-urbana e al vivere comune.

Nelle tue fotografie, prive della presenza umana e con un’apparente staticità degli oggetti ritratti, risaltano il vuoto e la solitudine, con strade deserte e un effetto spaesante: da cosa deriva la scelta di non raccontare un divenire ma cristallizzarlo in preciso momento?

In genere scatto all’alba (quando tutti dormono e il potere di acquisto di un ricco o un povero sono uguali) e la domenica mattina, nel momento in cui c’è la massima presenza nelle case e la minima fuori, in modo da rappresentare quasi esclusivamente lo spazio urbano. Le mie fotografie, però, sono solo apparentemente inanimate, perché cerco di cogliere, tra gli interstizi, le tracce lasciate da chi ci vive, piccole testimonianze del vissuto quotidiano, senza dover necessariamente ritrarre le persone e senza far sconto al degrado, seppur questo non sia l’ingrediente principale. L’assenza aiuta: una fotografia priva di uomini evita di connotarla dando un colore, una razza o un’estrazione sociale agli abitanti, e permette allo spettatore di arricchire lo spazio a suo piacimento, pensando quel luogo in altro modo, come era in origine o come potrebbe essere, immaginandone il potenziale nascosto dietro quei muri.

Relativamente al Corviale hai scritto che “esige l’assenza di ogni pregiudizio” e che non bisogna “ricercare ciò che si vuole con ostinazione, ma quello che con discrezione si manifesta”: ritieni che quanto ritrai in fotografia parli direttamente all’osservatore?

Si, nella misura in cui l’osservatore inizia a riflettere su quello che dicevamo prima, sul potenziale. Per me la fotografia da sola non funziona, deve sempre essere collegata ad altre, con cui deve interagire e produrre un’emozione nell’osservatore, che deve a sua volta essere parte attiva nel processo: la fotografia non esiste se non c’è uno spettatore e viceversa.  

Come scatti? Utilizzi metodi differenti?

Io scatto da solo. Non faccio postproduzione selvaggia introducendo degli artefatti, salvo lievi interventi per regolare i livelli di luce. Non amo fotografie autocompiacenti per la loro precisione, ma ovviamente faccio attenzione alle prospettive, all’ortogonalità, al luogo, a determinate inquadrature (ad esempio l’uso del banco ottico mi permette di evitare le linee cadenti).

Nel progetto sulle borgate ho utilizzato sia l’analogico che il digitale, per me due filosofie differenti dal punto di vista dell’approccio e di come il fotografo si pone di fronte alla città: sono emozioni e sensazioni diverse. L’analogico, più macchinoso, ti induce a fare una riflessione più accurata del soggetto da ritrarre, conservando innato un fattore emotivo che sento di dover vivere da fotografo.

Uno dei tuoi principali progetti è quello sulle borgate romane, di cui hai recentemente presentato una selezione di scatti analogici con banco ottico al castello di Legnano (MI) al Festival Fotografico Europeo. Come è nato e come si è evoluto?

Il lavoro sulle borgate romane, il primo progetto che ho seguito con una certa metodica, è un tributo a Roma, dove vivo da vent’anni, e deriva dalla volontà di raccontare una parte di città meno conosciuta, più complessiva, con “carotaggi” in luoghi differenti disposti a raggera nel territorio.
Ho seguito un criterio storico, visto che questi distretti furono edificati nello stesso periodo da parte del Governatorato fascista secondo un preciso Piano, seppur con differenti principi architettonici e urbanistici, spesso assenti: da un lato “case rapidissime” costruite velocemente con fragili muri e carenze igieniche, tra cui Acilia, Gordiani o Tor Marancia; dall’altro quartieri più interessanti e organizzati, con spazi comuni e ballatoi, progettati dall’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari, tra cui il Tufello e il Trullo; in altri casi strutture a falansterio (palazzoni) come a Val Melaina e Donna Olimpia, tutti abitati da un popolo umile, in parte espulso dal centro storico per far spazio ai grandi sventramenti, in parte spostatosi a causa del rincaro degli affitti, in parte immigrato da altre regioni italiane. Tra i primi esempi alcuni agglomerati non sono arrivati fino ad oggi, rasi al suolo per motivi igienici, per cui le mie fotografie non ritraggono edifici ma solo spazi vuoti.

Gordiani, 2016 (BorGate) ©Pasquale Liguori

Il progetto, da cui era scaturito un volume a colori con fotografie in digitale, si è recentemente evoluto alla luce di nuove evidenze storiche e ricostruzioni che, all’interno di un dibattito ancora in corso, hanno elevato a 19 il numero delle borgate, spingendomi ad indagare e scoprire nuovi quartieri, tra cui Fiumicino, Donna Olimpia e Bufalotta, che per me è lecito ritenere paragonabili alle 12 ufficiali (secondo l’irrinunciabile opera di Italo InsoleraRoma moderna). In questa seconda fase, più pensata, ho scelto di scattare fotografie in bianco e nero in banco ottico analogico di grande formato, quindi con un metodo più lento e più maturo, in luoghi che in gran parte già conoscevo, di cui ho voluto rappresentare nuovi scorci per rafforzare la riflessione sul rapporto tra uomo e struttura e sull’idea di bordo urbano.

Parlando di borgate romane, il lavoro di Pier Paolo Pasolini ti ha in qualche modo ispirato?

In realtà no. Ovviamente Pasolini è un importantissimo autore che ha avuto il merito di occuparsi delle borgate sdoganando una serie di cliché e luoghi comuni del tempo, sporcandosi le mani ed entrando a diretto contatto con il vivere le difficoltà, però oggi il suo tipo di fotografia – che comunque è molto diffusa – credo possa fare più danno che beneficio alla periferia. La difficoltà umana rappresentata attraverso i soggetti che la vivono, seppur mossa da un fine nobile, non fa altro che sedimentare uno stigma, appesantendo il connotato dei luoghi ed aumentando l’ego autoriale del fotografo, invece che aiutare il riscatto sociale. Al posto di questo tipo di fotografia, che io chiamo “delle passioni tristi” (prendendo in prestito un termine di Spinoza), preferisco pensare a una fotografia dell’agire, correlata a una certa forma di attivismo politico, che eviti i luoghi comuni, stimolando la riflessione e la reazione.

Tu vivi a Roma ma sei cresciuto a Napoli (dove hai fotografato Scampia), due città molto complesse: ritieni che le periferie possano essere veramente quei “luoghi da cui ripartire per ripensare o discutere il senso dell’urbanità e dell’abitare” (C. Cellamare), al di là di molti slogan politici?

Napoli e Roma sono due città che amo, con simili difficoltà ma incomparabili dal punto di vista della conformazione, perché a Napoli la parte più popolare (a parte la conurbazione orientale da cui provengo) è in pieno centro, mentre a Roma è più spostata ai margini, composta da innumerevoli micro-città. In questi casi partire dalla periferia è fondamentale per il futuro dell’abitare, anche se purtroppo il problema, ormai strutturale, non viene realmente affrontato, tanto che ad ogni elezione si ripresenta aggravato dal passare del tempo. L’architettura ha un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale, ma non da sola: ben vengano iniziative socio-culturali che facciano conoscere la città e la periferia ai cittadini, ma devono essere abbinate a politiche attive e a un’opera educativa; spesso le rigenerazioni urbane portano alla speculazione e alla gentrification sottraendo i luoghi agli abitanti, mentre quello che manca sono servizi, lavoro, spazi comuni, semplici azioni che permettano un vivere dignitoso. La fotografia per me deve servire a questo, cioè ad accompagnare chi si occupa di riqualificazione urbana nel processo di cambiamento.

Scampia, 2020 ©Pasquale Liguori
Scampia, 2020 ©Pasquale Liguori

Fuori dall’Italia hai fotografato periferie a Berlino e nei paesi dell’ex blocco sovietico: hai trovato più differenze o similitudini?

Oggi questi luoghi degli intensivi urbani sono molto comuni e hanno problemi simili, accomunati da una medesima esigenza di riscatto sociale da parte di persone che vivono la medesima condizione in luoghi diversi”, seppur caratterizzati da architetture, forme e insediamenti differenti.

A Berlino, in particolare, ho analizzato Marzahn, che ho voluto mettere in relazione con il Corviale di Roma: da un lato il leggendario “Serpentone” (di cui si è detto di tutto, anche che tolga a Roma l’arrivo del Ponentino), opera che non si è mai potuta sviluppare come avrebbe dovuto perché il quarto piano destinato ai servizi comuni venne immediatamente occupato, isolando così quasi mille famiglie; dall’altro il più importante intensivo dell’Europa continentale (quasi 300.000 abitanti) costruito in pochissimi anni con blocchi Plattenbau, progetto avveniristico della Germania democratica volto a dare una casa a tutti ma spopolatosi dopo la caduta del muro, con la progressiva eliminazione dei servizi di cui era ricco e l’arrivo di persone in difficoltà, spesso a formare vere e proprie enclaves come quella dei tedeschi di Russia. Nonostante i differenti criteri urbanistici e i diversi obiettivi iniziali, in questo confronto ho voluto evidenziare le analogie e indagare il rapporto biunivoco che c’è tra uomo e architettura, mostrando come una medesima struttura, che aveva dato tante opportunità in passato o che era nata con intenti sociali, possa diventare il luogo delle difficoltà e del disagio. 


Mi sono poi occupato di alcune zone della ex Jugoslavia di Tito, dove, per ragioni politiche, venivano realizzate costruzioni massive di edilizia popolare di cui sono rimasti interessanti esempi, con soluzioni impressionanti per creatività, tecnologia e pubblica utilità e un’architettura a sé stante rispetto a quella degli altri paesi dell’ex blocco sovietico.

La ricerca sul territorio continua? Che progetti hai nel cassetto?

Io mi occupo anche di attivismo per la Palestina: mi piacerebbe indagare il consumo di suolo degli insediamenti coloniali illegali dei territori occupati da Israele sottratti ai Palestinesi, in molti casi legalizzati contravvenendo alle disposizioni internazionali, specie in Cisgiordania. Essi sono caratterizzati da colonie nate spontaneamente a partire da roulottes temporanee, per arrivare a costruzioni vere e proprie che riproducono un misto di stili – derivante dalla diversa provenienza della popolazione – violentemente importato in un territorio arabo di cui ha snaturato il paesaggio. Ho fatto dei sopralluoghi e studiato un primo avanzamento sul suolo, ma è molto difficile andare in profondità come vorrei, perché c’è una condizione razziale di apartheid a danno dei Palestinesi, di controllo dell’esercito e di ostacolo a fare indagini di questo tipo, ma non demordo.


A Roma invece vorrei fare esplorazioni verticali e approfondite su alcuni quartieri, tra cui Centocelle, seguendo la periferia dal punto di vista di come una comunità – in particolare quella araba – viva all’interno di uno storico agglomerato multiculturale romano, oggi inglobato nella città.

Complimenti per il tuo lavoro, e ti auguro che questi progetti possano andare in porto, così potrai tornare a raccontarceli!

Patrizia Dellavedova