ARCHITETTURA E FOTOGRAFIA: TARANTO. I PAESAGGI INTORNO ALLA FABBRICA. Intervista a Vito Leone

Quando si parla di periferie non si può dimenticare lo stretto rapporto che talvolta lega questi luoghi a una fabbrica di cui essi sono frutto, “costola” appositamente creata (o trasformata) per offrire una casa ai lavoratori. Questo è quello che è avvenuto a Taranto, dove la fabbrica è l’ILVA (in origine Italsider), una delle più grandi acciaierie europee inaugurata negli anni Sessanta, oggi tristemente nota per la mala gestione delle problematiche che hanno interessato il suo territorio.

Ed è proprio la periferia intorno all’ILVA protagonista del progetto fotografico “Periferie umane. I paesaggi intorno alla fabbrica” di Vito Leone, tarantino, giornalista e docente di lingua e civiltà inglese, oltre che fotografo interessato ad indagare il rapporto tra uomo e paesaggio, con particolare attenzione a quei “paesaggi alterati dall’uomo” che hanno ispirato negli anni ‘70 il movimento dei New Topographics, con “un’interpretazione inedita e personale dell’esistente” e una ricerca fotografica in continua evoluzione – con cui ha partecipato a mostre ed eventi in Italia e all’estero – che cerca di “scovare l’arte nel quotidiano”.

Obiettivo di questo progetto, che è un omaggio alla città di Taranto ma offre spunti e temi universali, è quello di “conferire dignità alla periferia industriale, alle aree suburbane vicine alla fabbrica”, cercando di “trasformare la bruttezza e la brutalità degli stessi in bellezza”, attraverso fotografie apparentemente neutre ed essenziali, prive della presenza umana o dove la stessa è solo percepita, attente alla forma e alla struttura dell’architettura, alle sue linee e geometrie, ma nel contempo intrise di umanità, così che la “struttura architettonica perde il suo valore d’uso quotidiano e diventa metafora, simbolo, linea, essenza” (R. Capriglia – H-ermes. Journal of Communication). Obiettivo è quello di ridare dignità e vita a questi luoghi, alla ricerca di quella forma sottesa all’apparente caos – teorizzata da Robert Adams – che possa resistere al degrado e alla violenza per creare un nuovo ordine.

Ritratto di fabbriche, zona Croce, Taranto (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Ritratto di fabbriche, zona Croce, Taranto (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Questo tipo di fotografia, che parte dal quotidiano, prende spunto dalla “fotografia della banalità” di Luigi Ghirri, perché “fotografa cose a cui nessuno bada al fine di ridare loro dignità, sottraendole agli schemi e ai giudizi sbrigativi di chi non guarda mai niente”, ed è strettamente connessa al territorio tarantino a cui Leone è profondamente legato. Essa deriva dal bisogno di documentare, con quella “innata capacità di osservare la società e i suoi mutamenti con spirito analitico” e con “un contrappunto di linee e di forme che coglie il ritmo della città” (L. Coluccia – Artevitae), i luoghi che gli appartengono, alla ricerca della bellezza e dell’umanità nascosta. La fotografia diventa quindi uno spunto di riflessione sulle dinamiche sociali ivi sottese, comuni a tutte le periferie urbane, nel tentativo di ridare dignità a una città che ha subito molti torti, senza ottenere quel riscatto che avrebbe da tempo meritato.

Gli scatti interessano in particolare i quartieri Tamburi, Paolo VI e Porta Napoli di Taranto, ma anche le nuove zone di espansione edilizia e le zone retroindustriali abbandonate.

Tra questi il Tamburi, a nord-ovest della città vecchia, erroneamente conosciuto come “quartiere costruito a ridosso della fabbrica”, in realtà è un antico sobborgo noto per l’aria salubre, divenuto quartiere operaio già all’inizio del XX secolo per famiglie di ferrovieri e dipendenti dei Cantieri Navali ex Tosi, ampliato negli anni Sessanta – con l’avvento dell’Italsider – a seguito di specifici interventi di edilizia popolare (Piano Ina Casa). Con il raddoppio dell’ILVA degli anni Settanta e la creazione della fabbrica-colosso, grande una volta e mezzo Taranto, il quartiere è stato quasi fagocitato da essa, arrivando “a quindici passi dal siderurgico” (G. Foschini), con i conseguenti problemi derivanti dalle polveri e dall’inquinamento.

Graffiti, Quartiere Tamburi (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Graffiti, Quartiere Tamburi (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Dalla metà degli anni ’60 si aggiunse il quartiere Paolo VI, dedicato al papa che nel 1968 celebrò la messa di Natale tra gli altiforni, edificato dall’Iclis (Istituto case per i lavoratori dell’industria siderurgica) nella periferia settentrionale di Taranto: una “città nella città” destinata alle tute blu del centro siderurgico, inizialmente moderno quartiere residenziale disposto attorno alla chiesa, con case a schiera e giardini, secondo il modello economico e sociale sperimentato dalla FIAT e dall’Olivetti, poi sviluppatosi con enormi caseggiati separati da larghi viali, ampliandosi a dismisura. Oggi, in seguito al prepensionamento di molti operai e al conseguente ritorno nei paesi d’origine, oltre all’arrivo di servizi come l’ospedale e l’università, è divenuto un variegato quartiere satellite che “racchiude tutte le contraddizioni e il desiderio di riscatto di un’intera città” (R. Musolino).

TTT, Quartiere Paolo VI (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
TTT, Quartiere Paolo VI (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Il quartiere Porta Napoli, invece, cerniera tra i due lembi di Taranto, storica area portuale e commerciale punteggiata da botteghe, depositi e stalle, dopo la demolizione – avvenuta negli anni ’80 – di casermoni fatiscenti di edilizia popolare, non sostituiti dai previsti nuovi interventi residenziali, si presenta oggi desertificato, con capannoni in parte abbandonati e altri in via di riconversione e riqualificazione, offrendo grandi prospettive di crescita all’intera area.

Forza Napoli - Rione porta Napoli (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Forza Napoli – Rione porta Napoli (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone
Palazzo rosso - Rione porta Napoli (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Palazzo rosso – Rione porta Napoli (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Perché ti interessano i “non luoghi”, le periferie, i paesaggi intorno alla fabbrica?

Sono attratto dai non-luoghi e dalle periferie perché sono paesaggi sospesi, desolati e quasi metafisici, privi di figure umane ma mai privi della loro presenza percepita. Mi interessano perché è lì che vive l’umanità, anonima e numerosa, un’umanità fatta di persone simili e sole. I luoghi “antropologici” sono riconoscibili, storici, simbolici ma, a mio parere, anche scontati e privi di curiosità e di pathos. Le periferie invece sono i nostri veri monumenti, luoghi dove le persone nascono, vivono, fanno sacrifici, gioiscono e muoiono: lì risiedono i nostri ricordi, lì fluisce la nostra vita.

Dal minimalismo sei passato alla fotografia urbana e di architettura per approdare alla ricerca sull’uomo e il paesaggio: come si è evoluta la tua ricerca fotografica? A chi ti ispiri?

I social sono stati per me una vetrina mondiale e un luogo di confronto con fotografi e critici d’arte, dove sperimentare e ricevere consensi o critiche. Una ventina d’anni fa, infatti, ho scoperto casualmente sui social un gruppo ispirato al minimalismo americano degli anni ’60-70 che si occupava di scultura, land art, architettura e fotografia, e subito mi sono riconosciuto in quelle foto di “dettagli, annotazioni, metafore”. Ho cominciato così ad approfondire le correnti artistiche ad esso collegate, conoscendo e studiando i grandi pittori e scultori americani di quegli anni: ho inizialmente scoperto e amato Donald Judd, Frank Stella, Daniel Buren, per poi passare al paesaggio di periferia, metafisico, antropizzato e non romantico di Lewis Baltz, esponente della corrente americana dei New Topograph, attraverso gli italiani Gabriele Basilico e Luigi Ghirri da un lato e i coniugi Becher dall’altro, questi ultimi fondatori negli anni ’50 della scuola di Dusseldorf (di cui fa parte Andreas Gursky), creatori di un nuovo modo di fotografare a cui molti si sono ispirati. A posteriori definirei la mia fotografia proprio un misto tra tutti questi autori, che mi hanno ispirato e che ho assorbito strada facendo, in bilico tra paesaggio di periferia e minimalismo, a cui ho aggiunto la mia cultura personale, la mia sensibilità artistica e l’amore per la storia dell’arte.

Cosa rappresenta per te l’architettura con le sue forme, la geometria, le linee e i colori? Come la utilizzi all’interno della tua ricerca fotografica?

Io sono attratto dalla geometricità e dall’essenzialità dell’architettura, che cerco di estrarre dagli edifici che fotografo – che pur continuano ad esibire le tracce del proprio vissuto – al fine di dar loro una nuova dignità e forma: è come se, attraverso gli scatti, quasi prendendo le distanze dall’immagine, “riuscissi ad ‘iconizzare’ l’ambiente circostante, nel tentativo di spiegare agli altri la mia idea di bellezza”, che per me è presente anche in un paesaggio di periferia o nei profili di un edificio degradato, alla ricerca dell’essenza e della legge matematica che sta dietro le forme e gli oggetti quotidiani, in un processo di “sottrazione” del segno. È per questo che cerco la correttezza compositiva, il bilanciamento dei pesi visivi, degli spazi e dei vuoti, il cromatismo, la prospettiva centrale, ponendo grande attenzione alle geometrie, alle proporzioni, alle linee cadenti, con un uso maniacale delle regole grafiche. Cerco di utilizzare al massimo la riduzione, la semplificazione, l’astrazione, la pulizia dell’immagine, la valorizzazione di ciò che spesso sfugge all’occhio distratto.

Google, zona 167, Statte (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Google, zona 167, Statte (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone
Quartiere Taranto 2 (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
Quartiere Taranto 2 (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Come ti prepari?

In realtà il paesaggio industriale e urbano è parte integrante della mia vita, soprattutto nel caso del territorio intorno all’ILVA: qui conosco bene i luoghi, li studio, ci passo in diverse ore del giorno fino a quando trovo il momento, la luce e l’angolazione giusta per fare la foto. Talvolta invece sono attratto da un particolare, da uno scorcio o da una struttura e, siccome non ho sempre con me la macchina fotografica – in genere uso una reflex digitale con obiettivi grandangolari – torno in un altro momento a fotografarlo, preparandomi opportunamente.

Il tuo progetto “Periferie umane” su Taranto, recentemente presentato al Festival Fotografico Europeo e da cui è scaturito un volume, tratta di luoghi a te familiari. Come è nato? Vuole essere più una denuncia o un riscatto sociale?

In realtà non nasce né come denuncia né come riscatto sociale: semplicemente è un modesto tentativo, tramite una sorta di mappatura dei paesaggi intorno alla fabbrica, di dare dignità al quartiere da cui provengo e a quanto mi circonda: è il mio album di ricordi.
In una delle sue ultime interviste Efrem Raimondi affermava che “oggi più che mai il fotografo deve avere una visione del mondo. Non deve necessariamente pronunciarsi dal punto di vista politico o sociale, […] non deve sventolare una bandiera, ma io devo riconoscere il suo sguardo sul mondo”. Ecco: questo è il mio sguardo sul mondo, che deriva da un particolare che mi colpisce e che ritengo di immortalare, scovando l’arte nel quotidiano e suggerendo un’interpretazione inedita e personale dell’esistente, senza voler emettere un qualche giudizio. Nonostante questo punto di partenza, però, a posteriori si potrebbe dire che l’insieme delle mie foto costituisca una sorta di denuncia – cosa che probabilmente deriva dall’amore che ho per il mio territorio e dalla mia esperienza di giornalista – contro i torti subiti da una città che rimane ancora bellissima, nonostante il paesaggio deturpato a causa dell’industria.

Tu sei nato e cresciuto proprio nel quartiere Tamburi, vicino alla fabbrica: come ci hai vissuto? Cosa ritieni che l’ILVA abbia dato a Taranto e ai suoi abitanti, nel bene e nel male, e da dove bisognerebbe ripartire per il futuro della città?        

Il rapporto di Taranto con la fabbrica è quasi indissolubile e fortemente influenzato da questa presenza che ha legato il destino della città a quello del siderurgico, condizionandone, in positivo e in negativo, le dinamiche economiche, sanitarie e sociali. L’errore principale è stato costruire la fabbrica attaccata alla città e al quartiere senza isolarla.
Taranto è posta tra due mari, come una piccola Venezia, collegata con un ponte girevole alla città nuova e con l’altro ai Tamburi, dove sono nato io. L’area allora era agricola, caratterizzata da turismo e pesca, a cui si aggiungeva la presenza della Marina e dei cantieri navali.
La fabbrica fu impiantata a ridosso del mio quartiere su terreni coltivati ad ulivo, ignorando però le potenzialità agricole e di espansione turistica del territorio. Il suo arrivo fu per molti un sogno e un’opportunità di ricchezza che segnò l’espansione demografica e lo sviluppo dell’intera regione, con molti immigrati dal sud Italia: le ciclopiche ciminiere allora significavano progresso e lavoro, senza che nessuno sapesse a cosa si andava incontro. Nel quartiere si viveva bene, come in un piccolo paese, senza immaginare che la polvere e i fumi
sarebbero stati causa di inquinamento e malattie, tema questo approfondito solo da una ventina d’anni.
Oltre a questi gravi problemi, però, da tempo la fabbrica non è più nemmeno una possibilità di ricchezza né di benessere: sono drasticamente diminuiti i lavoratori e oggi è quasi un monumento di archeologia industriale, vista la vetustà delle sue strutture e impianti.

ILVA by night (Periferie umane) - 2019 ©Vito Leone
ILVA by night (Periferie umane) – 2019 ©Vito Leone

Ciononostante oggi Taranto sta rinascendo, provando a distaccarsi dalla monocultura dell’acciaio e dalla dipendenza dalla grande industria: credo che il futuro della città debba ripartire innanzitutto dalla propria storia millenaria, puntando sul turismo e sul ritorno all’agricoltura, ma debba anche ricercare nuove funzioni, come sta avvenendo ad esempio a Porta Napoli, dove alcuni depositi e botteghe stanno riacquistando nuovi usi quali club musicali, locali di spettacolo o ristoranti: questa è una sfida che la città si merita di vincere.

Oltre alla mappatura del territorio tarantino, dove protagonista è l’architettura priva della presenza umana, negli anni hai portato avanti altri progetti come “La commedia umana”, dove al centro vi sono le persone in rapporto al paesaggio circostante: come ti sei approcciato a questi due mondi così apparentemente diversi?

Negli anni ho affrontato temi e progetti differenti, da cui vengo di volta in volta attratto o ispirato. Tra questi la mappatura della mia città è un progetto aperto, costantemente integrato da nuovi scatti, mentre quello sulla “commedia umana”, con cui sono entrato nella shortlist dei Sony Awards nel 2017, è iniziato e finito. In questo caso ho fotografato in giorni e anni diversi dallo stesso punto (un ponte) – come da un palcoscenico – i bagnanti sulla spiaggia, al fine di documentare l’umanità nei suoi aspetti più vari, raccontando tante piccole storie, con un risvolto di tipo sociale. Ciononostante questo genere di fotografia è stata definita architettura umana o paesaggi umani, perché le persone fanno parte anch’esse di un’architettura. Questo perché il mio concetto di fotografia è sempre lo stesso, indipendentemente dal soggetto, così come le regole che utilizzo negli scatti: ripresa frontale, un certo ordine compositivo, la corretta distribuzione degli elementi sul piano.

Tra gli edifici che hai fotografato vi sono caseggiati popolari di varie epoche ma anche icone della storia dell’architettura come la Concattedrale di Taranto, tra le ultime opere di Gio Ponti, o le trombe delle scale razionaliste. Hai trovato differenze nel fotografare soggetti così diversi?

Come ho detto in un’altra occasione, il mio interesse artistico “non è al significato dell’immagine in sé, ma alla tensione tra i materiali e le forme e al loro comportamento nello spazio. L’osservatore può interpretare con la sua personale sensibilità, liberandosi dai codici di lettura convenzionali, dettagli urbani che sono spesso sotto i nostri occhi senza che siano letti artisticamente, ma che ognuno può sentire propri”. Pertanto, indipendentemente dal fatto che il soggetto sia un capolavoro di architettura o un umile edificio di periferia, esso viene astratto e perde le sue peculiarità estetiche originarie. Ad esempio nel progetto “Vuoto solido” (scale razionaliste) appartenente al mio periodo minimalista, all’interno della fotografia l’originaria architettura diventa altro: la funzionalità scompare dando spazio alla pura estetica in astratto, quale metafora di una chiocciola o una spirale.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

In genere quando penso di aver raggiunto l’obiettivo della mia ricerca fotografica termino il progetto che sto seguendo e cerco nuovi spunti, facendomi ispirare da stimoli esterni o nuove scoperte. Purtroppo gli anni del Covid hanno inibito un po’ tutti e al momento sono un po’ scarico di stimoli, che però cercherò strada facendo.

Ti auguro allora di trovarne di nuovi, così potrai tornare a raccontarci nuovi progetti.

Patrizia Dellavedova