Cartoline dall’infanzia

Nel 1969, anno in cui è ambientato Once upon a time in Hollywood (2019), Quentin Tarantino ha sei anni e assiste alla proiezione del film Bambi (1942), esperienza che lo lascia profondamente traumatizzato, al punto di dichiarare in una recente intervista che pianse per ore e ore dopo aver visto quel film di animazione, unico lungometraggio che lo fece davvero spaventare in vita sua. Infatti se è vero che la scena della morte della madre di Bambi nel film è effettivamente una vicenda  traumatizzante, che ha colpito profondamente la generazione di Tarantino, occorre sottolineare un aspetto forse banale, ma da non sottovalutare quando ci accostiamo ai meccanismi che regolamentano la costruzione dell’immaginario: ovvero che quello che noi viviamo nella nostra infanzia segna in maniera quasi definitiva il modo in cui noi guardiamo e ricostruiamo il mondo.

Ecco, credo che il punto di osservazione con cui è necessario guardare questo suo film sia proprio il tentativo di ricostruire non tanto un periodo storico, quanto piuttosto di liberare un immaginario che è sempre e comunque legato all’infanzia; un mondo fatto di ricordi ed emozioni filtrate attraverso lo specchio deformante della memoria. In questa ottica si comprende bene il rapporto di amicizia maschile tra Di Caprio, attore in decadenza, e Brad Pitt, sua controfigura, relazione che assomiglia di più allo stereotipo dell’amicizia adolescenziale tra il tipo in gamba e l’amico più fragile; nonché la continua reiterazione delle corse in macchina con le canzoni alla radio ad alto volume, stereotipi adolescenziali che durante il film insistono seguendo la ferrea logica del godimento infantile che è racchiuso in una sola parola: ancora.

In Once upon a time in Hollywood Tarantino coglie il senso profondo dell’arte, intesa come la cristallizzazione nella memoria delle immagini, dei filmati e delle vicende storiche rielaborate come se fossero osservate dagli occhi di un bambino, perché solo l’artista è in grado, esattamente come un bimbo, di ricostruire un mondo che viene percepito essenzialmente come unitario e sincretico. L’infanzia è essenzialmente stupore, pertanto solamente chi conserva dentro di sé quello sguardo di meraviglia riesce a creare e ricreare continuamente un immaginario sempre uguale e sempre diverso, nella direzione che è proprio l’azione creativa del bambino che si esplica nel gioco che produce personaggi e narrazioni. Dunque non deve sorprendere la cura maniacale con cui il regista colloca sulla pellicola omaggi e citazioni, a partire proprio da quei programmi televisivi o film di serie B di cui il regista si nutrì da bambino, né deve stupire l’attitudine con cui Tarantino modifica le vicende storiche realmente accadute proprio perché l’artista, come i bambini, si prende tutte le licenze poetiche che vuole. Ad esempio il regista lo fa in Bastardi senza gloria (2009), nel quale addirittura Hitler e Goebbles vengono uccisi a colpi di mitra in un cinema in fiamme, e poi lo fa ancora in questo ultimo film, nella descrizione caricaturale e fanciullesca di Bruce Lee, oppure cambiando il finale della triste vicenda che vide, proprio a Los Angeles, l’omicidio di Sharon Tate, uccisa dai seguaci di Charles Manson. Non a caso è prerogativa delle narrazioni infantili poter cambiare i finali a proprio piacimento, perché l’unico modo per salvare e proteggere i sogni dalla realtà consiste proprio nella possibilità di inventare una nuova storia, di cambiare quel che è stato per poi raccontare una vicenda diversa. Se abbiamo una storia nuova da raccontarci possiamo ingannare la morte, fosse solo per un altro giorno ancora; e infatti la formula “c’era una volta…” è allo stesso tempo un omaggio a Sergio Leone, ma anche l’incipit di tutte le fiabe e di tutte le favole prese dalla realtà oppure solamente inventate.

C’era una volta a Hollywood
è il film che segna la maturità espressiva di Tarantino che, sempre abile a destrutturare i generi modificandone e reinventandone la grammatica e i linguaggi filmici, in questo film ha preferito rivolgere lo sguardo dentro se stesso, attingendo proprio alla materia più preziosa che possediamo: ovvero i sogni, le immagini e i desideri della nostra infanzia, che è sempre fuori dal tempo (come recita la canzone dei Rolling Stones che fa da colonna sonora ad una delle ultime scene), proprio perché appartiene a tutti i tempi.

Rossano Baronciani