Diretto da Fernando Meirelles e Kátia Lund nel 2002, candidato a 4 Premi Oscar tra cui “Miglior Fotografia” a César Charlone e ad un Golden Globe, “City of God” ha superato la prova del tempo: un gran risultato per il cinema sudamericano.
La sceneggiatura è tratta dal romanzo, in parte autobiografico, di Paulo Lins e racconta di una delle favelas di Rio de Janeiro, la Cidade de Deus, in periodo storico a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
La fotografia è superba: i colori caldi, il sole, la polvere, si respira Brasile in ogni inquadratura. La vitalità, la sopravvivenza, la velocità, il ritmo sono le caratteristiche che accompagnano ogni ripresa. La meraviglia dei paesaggi e il dramma che suggeriscono incorniciano un risultato che rimane coinvolgente per tutta la durata della pellicola. La ricostruzione storica è puntuale sia nell’atmosfera che nei costumi.
Il cast è composto da attori non professionisti, o almeno tutti lo erano al momento delle riprese.
Il successo ottenuto ha generato altri prodotti: una serie TV – “City of Men” – e, da vedere per soddisfare la curiosità, ma soprattutto per ampliare lo sguardo su quella realtà, il documentario di Luciano Vidigal e Cavi Borges “City of God – 10 years later” disponibile attualmente su Netflix. Alcuni protagonisti, come suggerisce il titolo, si raccontano un decennio dopo questa esperienza, ci dicono di come sia o meno cambiata la loro vita, quali emozioni hanno provato, come ci si sente ad essere qualcun altro, come hanno fatto a tornare sé stessi dopo aver vissuto, oltre alle riprese, la magia di Cannes, la candidatura agli Oscar o, più in generale, un sogno e un universo tanto lontano dal loro conosciuto.
Dopo aver visto il film, guardare questo lavoro, apre le porte ad una nuova percezione. I protagonisti disegnano un modo di vedere la vita e il mondo che riporta a terra, toglie il superfluo e aggiunge valore. Insegnano. Già dalle sue prime battute sappiamo che, finite le riprese e le celebrazioni, tutti gli attori sono tornati alla favela.
Torniamo all’originale, “City of God”, in questa opera cinematografica il realismo è assordante, è raro trovare altrove altrettanta concretezza. La realtà viene mostrata per quella che è, senza orpelli. Cruda, violenta, poetica.
Per quanto si adottino delle tecniche di ripresa tipiche del documentario, e in qualche maniera lo è – molte scene sono girate a spalla – il risultato non è mai documentaristico, il montaggio riesce a raccontare la vita della favela e le storie che ci vivono dentro, a descrivere personaggi e sentimenti rimanendo sempre obbiettivo.
Meirelles e Lund affrontano scelte coraggiose: mostrano il sangue, estetizzano la violenza quasi anestetizzandoci, mostrano i bambini come assassini. Nonostante questo non si esprime nessun giudizio morale e il risultato rimane credibile. In alcune scene la violenza, seppur suggerita, non viene mostrata apertamente; c’è una sorta di pudore che non tradisce la realtà.
Violenza a parte, gli altri numerosi argomenti suggeriti non vengono approfonditi.
La voce narrante è quella di Buscapè che segna il ritmo di un montaggio incalzante e frenetico quanto una samba. Buscapè diventa la macchina da presa e la voce dei suoi pensieri, il cicerone che ci porta nella storia della favela attraverso i salti temporali di cui è colmo il lungometraggio.
Infatti, oltre a tutte le scelte narrative di cui abbiamo parlato finora, la più talentuosa si esprime con eccellente abilità negli innumerevoli cerchi narrativi di cui è composto il film.
La narrazione introduce tutti i personaggi nello scacchiere della favela mostrandone la storia e gli intrecci: quando durante il racconto ci si imbatte in un nuovo personaggio ecco che ci ritroviamo indietro nel tempo, il cerchio narrativo si chiude e arriviamo nuovamente alla stessa scena. Ognuno di questi piccoli cerchi è racchiuso nel più grande: a dare inizio e a chiudere tutta la struttura narrativa è la stessa scena.
La frase più rappresentativa, che in qualche modo cerca di racchiudere il fondamento di tutta l’opera, è pronunciata nei primissimi minuti del film dalla voce narrante del protagonista: «Nella città di Dio, se scappi sei fatto, e se resti sei fatto lo stesso.».
In queste parole si racchiude tutto il significato del vivere, crescere, morire, rimanere o andar via da una favela o da qualunque altro luogo della terra o dell’anima che rappresenta un mondo privo di opportunità, di speranze, di riscatti.
La contrapposizione tra i due personaggi principali: Buscapè che si affranca con la fotografia pur rimanendo nella favela e Zé Pequeno che consacra la sua esistenza al potere fa tornare in mente l’opera di Sant’Agostino: “De civitate Dei”.
In via estremamente esemplificativa Agostino, circa sedici secoli fa, contrapponeva in questo scritto la città di Dio alla città degli uomini affermando che agli uomini è data l’alternativa di vivere secondo la carne o secondo lo spirito. Ne consegue la Civitas Terrena che rappresenta la civiltà fondata da Caino e presuppone il vivere secondo il potere, la gloria, la carnalità, secondo il diavolo e, in opposizione, la Civitas Dei ovvero la città celeste fondata da Abele, la città dello spirito.
«L’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio. […] I cittadini della città terrena son dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale.»
(La città di Dio, XIV, 28)
L’esistenza umana si pone fra queste due città che convivono senza separarsi, l’agire umano è sospeso tra le due e si orienterà verso l’una o l’altra.
L’uomo, interrogandosi, potrà comprendere a quale città appartiene.
Nella favela raccontata da Meirelles gli interrogativi non mancano.
Matteo Rinaldi