Massimo Podio si occupa di fotografia sociale. Lo fa percorrendo un suo, lodevole, fil rouge: “C’è vita oltre”. Non distoglie il nostro sguardo dal dolore e dalla difficoltà, infatti, ma ci invita anche a scoprire il bello nelle vite difficili di alcune persone. Il suo intento è di accompagnarci a conoscere senza reticenza queste vite, mostrandoci tanta ordinarietà, non così lontana dalla nostra.
Il titolo del lavoro che vi presentiamo, “Diversamente disabile”, esprime in pieno il suo intento; tre anni di lavoro per descriverci la vita di Carla, donna affetta da schiena bifida.
Scegliamo di proporvi un’intervista sui generis: vogliamo riportarvi la voce di Massimo, l’autore del lavoro, ma anche quella di Carla, la donna ritratta in queste immagini. Lo facciamo con un punto focale: la fotografia e la loro esperienza con essa. Quasi specularmente rivolgiamo le stesse domande all’autore e alla protagonista, affinché il confronto delle loro risposte possa farsi occasione nuova per comprendere ed indagare il linguaggio complesso della fotografia.
Cominciamo dal chiedere ad entrambi la propria personale relazione con la Fotografia.
Massimo, vuoi farci una breve descrizione del tuo percorso fotografico fino ad oggi?
Mi sono avvicinato alla fotografia nell’era analogica, interessato principalmente alla ricerca cromatica ed al ritratto ambientato. È di quel periodo la mia prima personale di fotografia “Maschemorfosi: dal manichino all’uomo attraverso la maschera”, cui sono tutt’ora molto legato perché ero giovane e quella ricerca sviluppatasi tra le vetrine in notturna dei negozi di Roma e il Carnevale di Venezia mi ha molto maturato. Essenziale il supporto di mio padre in primis e degli amici dell’Associazione Fotografica Tempo Reale di Roma in cui ho mosso i primi passi.
Poi una lunghissima parentesi in cui per motivi personali ho abbandonato la fotografia, fino a che mia moglie Beatrice, per spingermi a ricominciare a scattare, mi ha regalato un nuovo corredo fotografico ed un mio amico fotografo, Andrea Falcon, mi ha avvicinato al Reportage. Fondamentali, per imparare a parlare questo linguaggio, gli insegnamenti del WSP di Roma.
Carla, cos’è per te la fotografia, come interviene nella tua vita?
È una raccolta di attimi di vita, immagini, flash per non dimenticare. Fino a prima di quest’esperienza mi sono fatta fare poche foto, preferivo essere io a immortalare situazioni per me importanti anche se ciò è stato sempre molto ostacolato dalla mia condizione di disabilità: un corredo fotografico mal si sposa con gli spostamenti su sedia a rotelle.

Mai dare per scontato che per fare una fotografia serva una macchina fotografica; avere tra le mani questo strumento, piuttosto che una penna. Avere questo occhio di vetro puntato addosso, filtro tra noi e il fotografo.
Massimo, la fotografia è per te un mezzo per esprimerti, ma quanto la macchina fotografica ti ha aiutato ad entrare in contatto con la realtà che volevi raccontare, o, piuttosto, ti ha reso più difficile l’interazione?
Sono un uomo molto curioso e quando mi interesso a un tema lo voglio conoscere e vivere in prima persona, senza filtri: in questo senso la mia reflex è la scusa per essere nelle situazioni; osservarle, conoscerle, raccontarle. All’inizio di un lavoro con una persona che non ti conosce e che non è abituata a posare, la macchina fotografica è il terzo incomodo, è ingombrante, divide prima ancora di essere uniti da qualcosa; poi viene accettata come una parte di te, in un certo senso viene dimenticata.
Dal 2012 affronto situazioni di disagio sociale, degrado, infine la disabilità alla ricerca della voglia di vivere la vita al 100%, nonostante tutto: diversi reportage che confluiscono in un unico progetto-contenitore “C’è vita oltre”, attraverso il quale cerco di raccontare tutto il bello di vite per diversi motivi difficili e proprio per questo meritevoli di essere conosciute.
L’idea di seguire questa ricerca è nata in un periodo per me molto difficile e mi ha aiutato moltissimo a vedere il bicchiere mezzo pieno, ad apprezzare ciò che avevo ma non vedevo e ciò che davo per scontato ma scontato non è. Oggi che fortunatamente non ho più bisogno di cercare tutto ciò, mi è rimasto il piacere di continuare a farlo per me e per chi mi vuole accompagnare in questo percorso.
Carla, la macchina fotografica puntata su di te: quanto è stato difficile abituarsi?
Tanto. Imbarazzo all’inizio e la paura che una persona che non conoscevo potesse cogliere le mie emozioni e più ancora il mio vissuto.

Come hanno vissuto fotografo e protagonista della storia la loro relazione mediata dalla fotocamera?
Massimo, com’è nata l’idea del tuo lavoro con Carla e come si è svolto: per quanto tempo l’hai seguita, quanto frequentemente la fotografavi; avevi piena libertà di seguirla nella sua vita quotidiana o c’erano zone off-limits?
Qualche tempo fa mi è stato chiesto di raccontare qualcosa sulla spina bifida, un qualcosa che conoscevo appena. Ho cominciato a documentarmi per affrontare al meglio la cosa e più entravo dentro l’argomento e più mi convincevo che alla spina bifida sono interessate le persone direttamente coinvolte, i loro congiunti, gli Operatori Sanitari. Per tutti gli altri è un mondo sconosciuto fatto di luoghi comuni sulla disabilità: ecco perché ho scelto di raccontare la vita di una donna con spina bifida, piuttosto che qualcosa sulla spina bifida. Conoscere Carla mi ha aperto un mondo, un viaggio lungo tre anni e non ancora concluso, con periodi più produttivi alternati ad altri di riflessione su quanto fatto e quanto ancora da fare.
Carla si è sempre dimostrata molto aperta e collaborativa anche se la realizzazione di alcune immagini le è costata molte lacrime: cassetti della memoria chiusi da sempre improvvisamente dischiusi, ma la sua motivazione nel dire la sua sulla vita di una persona disabile le ha fatto superare ogni ostacolo.
Zone off-limits? No, compatibilmente con l’interesse a raccontare le cose e con il rispetto della persona, non ci sono state zone off-limits: ho solamente dovuto modulare il linguaggio fotografico perché nella vita di Carla e di qualunque persona ci sono temi che possono essere raccontati ed altri che devono essere sussurrati.
Carla, hai lasciato piena libertà a Massimo?
Penso di si, considerando tra l’altro che la maggior parte delle foto le abbiamo pensate insieme. Più che nella fase di realizzazione è stato nella selezione delle foto che non ci siamo sempre trovati d’accordo perché qualcuna a mio avviso non mi rappresentava.

La creazione del racconto, come avviene?
Massimo, il tuo lavoro contiene foto di solo puro reportage o anche qualche fotografia staged, studiata a tavolino? Te lo chiedo perché oggi si narra anche attraverso fotografie pianificate, il racconto diventa perciò più uno “storytelling”, forma ibrida, nella narrazione, rispetto al reportage.
È vero, ho fatto fatica ad accettare l’idea di passare dal reportage, come avevo concepito il lavoro, allo storytelling, ma raccontare la vita di una persona è cogliere momenti di oggi senza dimenticare da dove viene, il percorso fatto negli anni.
L’ho capito quando mi sono imbattuto nella fotografia di Carla con i suoi compagni di classe: era la Roma degli anni ’70 ma lontanissima nel tempo e nello spazio. Carla era a margine della sua classe, dietro una pianta che almeno parzialmente celava lei e la sua carrozzina alla vista, una cosa oggi impensabile, inammissibile, assolutamente da raccontare per non dare per scontato che tutto sia dovuto, che molto è stato fatto anche se moltissimo è ancora da fare e non ultimo per dare valore al percorso di persone come Carla che da una vita combattono per abbattere le barriere sociali prima ancora che quelle architettoniche.
Ho fatto ricorso in diverse occasioni a documenti e vecchie foto di famiglia, ho ricostruito situazioni sulla base dei racconti che mano a mano Carla mi snocciolava proprio perché la Carla di oggi è il risultato di tante esperienze belle o dolorose che vanno ricostruite e raccontate per dare struttura alla storia
Carla, hai collaborato nella scelta delle fotografie finali?
Si, ho lasciato a Massimo grande libertà ma è stato lui stesso in più occasioni a coinvolgermi nella scelta per rispetto nei miei confronti e per avere più elementi di valutazione.

Il senso, per entrambi, del “Diversamente disabile”. Un focus condiviso.
Massimo, il titolo del lavoro “Diversamente disabile” insieme alla visione delle fotografie che hai deciso di comprendere nel lavoro mi suggeriscono l’idea che tu abbia voluto mostrare come anche una persona con una disabilità importante possa condurre una vita assolutamente ordinaria. Mi sbaglio?
Non ti sbagli per nulla! Anzi, in virtù dei luoghi comuni sulla disabilità che ho provato a smontare con questo lavoro, qui siamo di fronte più che a una vita “assolutamente ordinaria” a una vita “straordinariamente ordinaria”.
Il giorno che sono andato a conoscere Carla per iniziare il progetto avevo quasi il timore che potesse leggere nei miei occhi il mio disagio. Dopo cinque minuti avevo già dimenticato che io ero seduto su una poltrona e lei su una sedia a rotelle e di li a poco, quando mi ha soprannominato “bipede”, ho realizzato che la realtà dipende dal punto di vista da cui la osserviamo: è in quel momento che ha preso forma nella mia mente il lavoro che mi accingevo ad iniziare
Carla, nella serie di fotografie, accanto a quelle dove è evidente la narrazione della tua disabilità (le cicatrici, la radiografia, la carrozzina, ecc) spiccano quelle che riguardano tuoi “vezzi” tipicamente femminili: il tatuaggio, il parrucchiere, l’abbigliamento intimo. Mi fanno pensare che la cura di te e l’amore per te stessa siano fondamentali o comunque che siano fondamentali in questo progetto. Mi sbaglio?
No, non ti sbagli! Anche perché nella mia vita è sempre stata più rilevante la mia femminilità rispetto alla mia disabilità. Infatti fin dall’inizio la scelta (comune) è stata quella di raccontarmi semplicemente come “donna”.

Cosa si aspetta l’autore di un lavoro, dal suo progetto? Che aspettative ha, invece, chi decide di prenderne parte come protagonista ritratta?
Massimo, in questo progetto ed in generale nel tuo modo di fotografare, credi che la fotografia debba dare risposte o piuttosto far nascere domande?
Ritengo utile smontare i luoghi comuni, facendo nascere dubbi e per l’appunto domande. Domande che spesso non hanno risposte univoche: la stessa serie di fotografie genererà riflessioni diverse in funzione delle diverse sensibilità e cultura di chi le guarderà, lasciando spazio, spero, all’immaginazione e alla curiosità per approfondire determinati temi.
Carla, personalmente da questo lavoro cosa ti aspetti?
All’inizio ho accettato per dare un mio contributo alla conoscenza della vita di una persona disabile. Ora, pur mantenendo questo mio obiettivo iniziale, è diventato un lavoro molto introspettivo. Ti faccio un esempio: raccontando a Massimo alcuni momenti della mia vita, è riemerso il ricordo di un disegno in cui mia figlia mi rappresentava come una farfalla.

Quanto l’intento del fotografo si riflette nelle sue fotografie? Quanto la persona ritratta si riconosce a sua volta?
Massimo, il tuo intento finale, la tua aspettativa, relativamente a questo lavoro come ha influenzato il tuo editing (selezione delle foto)?
Le fotografie sono le parole, l’editing è il linguaggio che si usa per comunicare.
Ho cercato di realizzare un giusto mix di immagini descrittive ed evocative rispettivamente per accompagnare l’osservatore nel quotidiano, passato o presente che sia, di Carla e per lasciare spazio alla fantasia, all’immaginazione, alla curiosità di scoprire un pezzetto nuovo della storia nella foto seguente.
La selezione di fotografie riflette le tue aspettative? Ti riconosci nel lavoro? Avresti escluso, o, al contrario, inserito altri aspetti della tua vita?
In questo frangente ho dato più importanza, più valore a questo ricordo che in altre occasioni pregresse…al punto che ho deciso di tatuarla, ed è proprio quella che si vede in alcune foto.

Uno sguardo al futuro.
Massimo, quali sono i tuoi progetti futuri?
Sono sempre molto coinvolto nel progetto “C’é vita oltre…”: in questo periodo sto cercando di dare un filo conduttore a questo lungo racconto sulla vita che spazia dai campi Rom all’immigrazione, dal carcere alla disabilità.
In parallelo, sto cominciando a conoscere e a raccontare un’altra storia: qui la disabilità c’è ma non si vede e ciò da un lato non rende certo più facile la vita delle persone impattate, dall’altro rende il messaggio ancora più significativo
Fotograficamente parlando, l’esperienza di Massimo ti ha invogliata a fare parte di altri possibili progetti? Ad esempio di ritratto?
Si, certo. Mi piacerebbe essere coinvolta in progetti simili, ma prima ancora di proseguire questo, cogliendo significati e momenti diversi da quelli che abbiamo raccontato fino ad ora.
Chiudiamo l’intervista con la stessa identica domanda ad entrambi. La fotografia come contenitore. La fotografia come “objet trouvè”. La fotografia che ci sopravvive. La fotografia che innesca nuovi viaggi nel tempo.

Nelle fotografie prodotte da Massimo, ritroviamo anche alcune fotografie di Carla precedenti (la foto di classe a scuola, la foto della prima comunione, la foto delle vacanze), come in una matrioska: fotografie che entrano a fare parte di una nuova immagine fotografica. Anche le fotografie di questo lavoro troveranno vita autonoma; provate ad immaginare che possano essere rifotografate tra dieci o vent’anni: chi vi piacerebbe lo facesse e a chi vi piacerebbe parlassero? Possono avere un destino diverso da quello che avete loro impresso? Lo chiedo a entrambi, perché da un lato il fotografo ne ha la paternità, ma anche chi è ritratto le caratterizza.
Massimo: “Diversamente disabile” racconta di Carla che da una vita combatte per abbattere barriere sociali, culturali ed architettoniche partendo dagli anni ‘70 del secolo scorso agli anni ’20 di questo. Me lo immagino riproposto negli anni ’50 o ’60 per mostrare quanto lontani siano gli anni della mancata inclusione delle persone disabili. Un po’ come capita oggi vedendo immagini dei primi 900 che mostrano ragazze di allora scoprire una caviglia nuda o far scivolare una spallina di un reggiseno sfidando ogni tabù.
Carla: Da una parte vorrei che continuasse ad avere lo stesso significato di oggi, dall’altra vorrei che le foto facessero parte di un progetto personale sulla mia vita, non come esempio sociale ma come mio riscatto personale verso la vita: mi spiego meglio… spesso le persone mi vedono come appaio (sorridente, positiva, “forte”…), ma dietro molti sorrisi e dietro alla mia positività c’è anche molto lavoro quotidiano (pensa alle foto della fisioterapia, della lastra alla schiena, ecc) per garantirmi la mia autonomia e passaggi della mia vita che non auguro a nessuno (una per tutte la foto della Barbie…) ma che fanno parte di ciò che io sono oggi e che sono la matrioska della mia vita.
Potete guardare altri lavori di Massimo sul suo sito: Massimo Podio
Con le foto di Massimo è stato realizzato un video per la campagna del World Spina Bifida & Hydrocephalus Day
Luisa Raimondi