«L’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine» (J. Franzen)
«E’ nelle rovine della geologia che ho trovato i ruderi della storia futura dell’occidente contemporaneo» (J. Baudrillard)
Il 21 febbraio 2024, nel cuore del quartiere Isola di Milano a Micamera, la più grande libreria italiana specializzata di fotografia, è stato presentato dall’autore – insieme a Matteo Balduzzi – il libro West di Francesco Jodice, pubblicato da Electa, che raccoglie l’intero corpus dell’omonimo progetto artistico che “racconta l’ascesa e la caduta del modello americano e della sua immagine, indagando le origini dell’attuale crisi del modello liberale”.
Questo progetto, sostenuto dall’Italian Council e realizzato da Mufoco (Museo di Fotografia Contemporanea) con la collaborazione di Galerie Le Château d’Eau e di Arc en rêve centre d’architecture, è stato esposto con una selezione di immagini, grazie ad un’inedita collaborazione e un altrettanto inedito dialogo tra patrimonio archeologico e fotografia contemporanea, al MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) in una mostra curata da Matteo Balduzzi.


Francesco Jodice, di formazione architetto, è un artista e fotografo di fama internazionale di origini partenopee che spazia tra architettura, fotografia e video-arte, sperimentando anche altri mezzi espressivi. Figlio di Mimmo Jodice, uno dei maestri della fotografia contemporanea italiana con cui condivide una grande progettualità artistica (seppur espressa in maniera differente), negli anni ha concentrato la propria ricerca sull’indagine dei “mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo, con particolare attenzione ai fenomeni di antropologia urbana e alla produzione di nuovi processi di partecipazione”, esplorando l’interazione e il comportamento dell’essere umano, solo o all’interno di una comunità, in diversi ambiti urbani e geografici, coniugando nella sua fotografia la dimensione urbanistica e ambientale con quella sociale.
Non è la prima volta che l’autore si concentra su temi di geopolitica – partendo dall’analisi della crisi del sistema occidentale – attraverso film, installazioni e progetti fotografici (tra cui i più recenti Atlante, American Recordings e Rivoluzioni): in WEST egli racconta la nascita e la caduta dell’epopea del liberismo durante il “secolo americano” compreso tra l’inizio della Gold Rush (1848), segnato dalla fortuita scoperta della prima pepita d’oro lungo il South Fork American River da parte del carpentiere inglese J. W. Marshall e dell’imprenditore svizzero J. Sutter – primo passo di una frenetica ricerca della ricchezza e della trasformazione di territori vergini e selvaggi in antropizzati – e il fallimento della Lehman Brothers (2008) con il relativo collasso del sistema finanziario, avvenuto 160 anni dopo con la “medesima, sconcertante rapidità” (F. Zanot), che ne ha segnato la fine.
West è un’esplorazione di ciò che sta nel mezzo, alla luce di questi due episodi, proponendo “una storia alternativa del potere e della cultura occidentale”, quale “tributo a una storia visionaria e forse irripetibile, quella della più potente macchina di immaginari mai esistita”.

Attraversando l’Ovest americano nel corso di tre lunghi viaggi (2014, 2017, 2022), dalla costa pacifica ai deserti alle strutture geologiche, Jodice, come altri autori che guardano all’America per raccontarne le complessità e contraddizioni, va alla ricerca delle tracce di questa vicenda cercando di rileggere e comprendere “una parte della nostra storia attraverso un repertorio visivo di miti e di ruderi, di utopie, miraggi e fallimenti: archeologia di un presente che è già passato”.
Fulcro di questa esplorazione visiva è il “crocevia tra la peculiare geologia di quest’area e i ruderi archeologici di una stagione animata da un’irrefrenabile bramosia di ricchezze immediate”, che mette in discussione il concetto stesso di archeologia dal punto di vista spaziale e temporale, in linea con il dibattito attuale della disciplina (tanto da essere stata ospitata in un museo archeologico): nel West, infatti, il passato non è quello delle antiche civiltà indigene, ma è rappresentato dalle rovine delle prime città minerarie della California durante la corsa all’oro, subito abbandonate all’esaurirsi dei filoni auriferi; dai simboli dei villaggi fantasma (banche, saloon e bordelli) a metà tra set cinematografici e meta turistica; dai set dismessi di celebri film; dalle carcasse di vecchi armamenti o dai ruderi di complessi industriali e produttivi abbandonati, tutte tracce del decadimento e della disfatta di un’utopia ormai fallita, in un paesaggio per lo più privo di presenze umane. Ricorrente è la componente geologica, primordiale ed ancestrale: ciò che è destinato ad essere rovina, anche se deriva da grandi imperi, ha una durata limitata in rapporto alla storia delle terra.
Contemporaneamente, però, il progetto “alimenta un dialogo tra le espressioni visive del passato e quelle della contemporaneità”, in quanto cerca di raccontare, attraverso le immagini, una cultura visiva e un immaginario che nel Novecento gli USA hanno diffuso in tutto il mondo, affiancando alla propria egemonia economica e militare (e all’uso della forza bruta) la produzione di un apparato iconografico – dove fotografia e cinema la fanno da padroni – capace di plasmare e influenzare un intero sistema di valori su scala globale, quali “armi di distrazione di massa” (P. Virilio): in questo immaginario il West ha assunto un ruolo chiave quale simbolo di un sogno che (quasi) tutti avrebbero potuto inseguire.
E’ per questo che le fotografie di Jodice, pur mettendoci di fronte ai fatti così come sono avvenuti, senza mediazione, sono volutamente attraenti, come i soggetti che ritraggono, con il medesimo “senso dell’iperbole e dell’amplificazione del cinema di Hollywood, regno per eccellenza del fuori-scala”, volte a “generare un’irresistibile forma di dipendenza”. Esse, inoltre, costituiscono un reale al di là della realtà, “una rappresentazione della realtà di una rappresentazione”: immagini di altre immagini che riproducono ciò che è già stato visto “e quindi sedimentato, metabolizzato e trasformato in particelle di memoria (prima individuale e poi collettiva” (F. Zanot), sulla base di meccanismi tipici della comunicazione di massa e del modello capitalista.
In base a queste premesse, il libro che racconta il progetto non è solo il catalogo di una mostra o un libro fotografico, ma è esso stesso progetto, profondamente studiato dall’autore, non solo nella scelta dei luoghi o delle citazioni accostate alle immagini, ma in ogni minimo dettaglio (dal font alla carta, dall’impaginazione alla costruzione del ritmo), a partire dall’ironica copertina gialla raffigurante degli spettatori che in calzoncini e maglietta assistono a un’esplosione nucleare guardando ad est (a dispetto del titolo): quasi una sintesi di quei modelli contraddittori e superficiali che l’America ha sempre propinato, cercando di raccontare altro rispetto alla realtà.

Attraverso settanta opere fotografiche a colori di grande formato (10×12 o panoramico 6×12) realizzate in undici stati (California, Arizona, Nevada, New Mexico, Texas, Colorado, Utah, Wyoming, Montana, Idaho e South Dakota, incluse le aree contigue messicane), corredate da citazioni, mappe e immagini d’archivio e introdotte da un testo di Francesco Zanot, l’autore crea una narrazione visiva accompagnata da un testo-guida e disseminata da indizi che invitano all’approfondimento, come se dichiarasse al lettore che sta guardando qualcosa che conosce e ha già visto.
Ognuno dei capitoli del libro, dedicati a uno specifico tema, apre con un breve testo e chiude con “minerali e detriti culturali”, ovvero collezioni di immagini raccolte prima dei viaggi, provini, confronti tra prima e dopo, didascalie ecc. relative alla storia economica, geologica, politica e culturale del secolo americano, quali basi teoriche e poetiche del progetto. Al termine della narrazione visiva tre conversazioni (con Matteo Balduzzi, curatore della mostra, e con gli americanisti Francesco Costa e Mario Calabresi) diventano momento di discussione, confrontandosi sia con il contenuto teorico che con quello iconografico del progetto.
E anche noi partiamo dalle parole dell’autore e di Matteo Balduzzi in occasione della presentazione del libro per comprenderne meglio il senso e scoprire come è stato realizzato.
M.B. Questo tuo racconto è apparentemente semplice dal punto di vista visuale ma molto complesso nella parte di studi che lo hanno preceduto: il punto infatti non è come è stata realizzata una certa immagine, ma perché il luogo raffigurato si trova all’interno del progetto.
F.J. Prima di iniziare un progetto cerco sempre di stabilire i paradigmi del linguaggio che lo guiderà, lavorando sul senso e la morfologia della narrazione e del racconto: per me infatti ogni lavoro richiede in qualche modo una riflessione sul lessico e sulla proprietà di linguaggio.
Il senso di West è racchiuso nell’immagine che chiude le “conversazioni”: numerosi libri sovrapposti che rappresentano un layer infinito di stratificazioni culturali. Quello che ho voluto fotografare è infatti un “paesaggio culturale” più che reale: benché le immagini che si trovano nel libro esistano già, io ho voluto per l’ennesima volta ripeterle, in un’opera di riproduzione e (forse) di esaurimento.
Questo lavoro, durato 8 anni, ha comportato la produzione di un vasto archivio fotografico, nonostante io sia abbastanza parco nel generare fotografie (sono spesso dubbioso sulla necessità di mettere al mondo altre immagini): per favorire la narrazione c’è stato un severo e complesso lavoro di scelta e discussione sulla necessità di impiegare determinate immagini rispetto ad altre e su dove inserirle, utilizzandone alcune forse meno potenti di altre ma più rappresentative.
I brevi testi che accompagnano i capitoli, non appositamente scritti per il libro ma qui riadattati, hanno funzionato fin dall’inizio come paletti e aree di compartimentazione per capire cosa “stava dentro”. In un piccolo saggio sulla scrittura Jonathan Franzen diceva infatti che “ogni scritto racconta una cosa e ci sono solo due modi di scrivere: questo va con quello e questo viene dopo di quello”. Io ho traslato questa lezione di scrittura alla fotografia.
M.B. Grazie alla sua veridicità la fotografia ha svolto un ruolo fondamentale nell’accompagnare l’esplorazione, la conoscenza e la conquista del West.
F.J. Il West nel nostro immaginario è indissolubilmente legato a due media: la fotografia, dotata di una intrinseca veridicità alla quale oggi non crede più nessuno, e il cinema. Credo che la relazione tra fotografia ed esplorazione del West sia descritta perfettamente da Martha A. Sandweiss quando dice “Photography and the West came of age together”: il west e la fotografia sono cresciuti insieme e non capiamo più chi racconta l’altro.
Il West è stato documentato dalla fotografia ma reinventato dal cinema, che si è preoccupato di porre le basi per una meravigliosa mitologia spesso bugiarda e fuorviante. Il protagonista assoluto della sua narrazione è John Ford, che, prima dei film per i quali è diventato famoso, lavorava per il governo americano girando brevi documentari muti western, oggi andati perduti, che venivano proiettati nei saloon e nelle scuole dell’America più lontana, per dimostrare che la storia americana fosse giusta, che le terre erroneamente occupate dai nativi dovessero essere americane per volontà del Signore.
Non esiste un’altra storia così ben falsificata e rappresentata come quella americana, dove si sta sempre dalla parte dei giusti, come se ci si arrogasse una sorta di plusvalenza. Gli Stati Uniti sono il popolo che si è inventato la propria storia e ci ha creduto, ma gli USA siamo anche noi, che ne siamo una derivazione, la periferia estrema, il figlio illegittimo e indesiderato ma speranzoso della civiltà occidentale. Questo tema è molto attuale oggi, se pensiamo alla striscia di Gaza.
M.B. Il tuo lavoro fotografico è in qualche modo cinematografico: le immagini sono spettacolari ma esagerate, viste e riviste, anche nel modo in cui utilizzi la luce, come se grazie a essa si generasse una sorta di incrinatura, provocando un cortocircuito tra la realtà e ciò che della realtà immaginiamo per quanto già rappresentato. Quello che vediamo nelle tue immagini lo abbiamo già in qualche modo introiettato.
F.J. Molte delle fotografie di questo progetto sono coerenti al mio modo di rappresentare, dove lo spettatore è messo di fronte ad una scena bidimensionale, frontale, senza luci né ombre, senza prospettive né tagli, anche quando un oggetto è in prospettiva, come nell’immagine del camper, dove il paesaggio aerografato – preso da un film di Brian de Palma – lo disassa e lo rimette di nuovo frontale, spiaccicandolo davanti alla scena, senza profondità.

Le immagini del progetto sono per lo più scene elementari, quasi come il disegno di un bambino, dove gli elementi contenuti sono numerabili sulle dita di una mano, dove tutto è chiaro e semplice, ma non racconta nulla: nonostante io sia un reporter questo lavoro è una sorta di anti-reportage, dove lo spettatore deve chiedersi cosa sta accadendo, cos’è la narrazione che manca, in uno stato di incertezza, con immagini fisiche che rappresentano immagini mentali che eccedono la cartolina. Ciò che è profondo è la storia che manca alla narrazione.
Con queste immagini vorrei che lo spettatore, guardando una mia fotografia, si chieda se le cose, in un preciso momento, in un dato luogo, siano realmente andate in un certo modo. E la luce è proprio uno dei dispositivi che tratto in modo da rendere la scena improbabile, per quanto veritiera: nel mio caso essa non conduce alla verità ma a un mucchio di dubbi.
M.B. Una chiave fondamentale per leggere il progetto WEST dal punto di vista visivo è proprio la dialettica tra vero e falso, tra realtà e rappresentazione.
F.J. La vera differenza di questo lavoro rispetto ad altri è che le fotografie del progetto non sono fotografie di cose reali, ma di “rappresentazioni”, non perché discendono da una messa in scena, ma perché raffigurano cose o paesaggi che, pur esistendo realmente, appartengono al bagaglio culturale di ciascuno di noi: “detriti” che la filmografia, musicografia e l’insieme dei saperi derivanti dalla “pop culture” hanno insinuato in ognuno di noi.
Nell’immagine di Horseshoe Bend che si trova nel libro – dove al centro di un paesaggio c’è una sua fotografia – si comprende bene il senso di tutto ciò, cioè quello della sostituibilità dell’immagine e della rappresentazione rispetto alla realtà (e, per trasposizione, rispetto a un brano di storia, peraltro falsata).
Nessuna fotografia del progetto WEST è “staged”, eppure credo si abbia spesso l’impressione di trovarsi di fronte a una messa in scena, come nell’immagine scattata a Tombstone, in Arizona, relativa ad una rappresentazione teatrale che avviene quotidianamente, dove, insieme a Sara, ho cercato per due giorni, con grande difficoltà, di immortalare il momento in cui nessuno dei due attori toccava terra: volevo così rappresentare la fine di un’epoca, dove tutto è sospeso davanti a un fondale cinematografico.

L’unica vera messa in scena nel libro è l’immagine che riprende quella di un testo di architettura e urbanistica di Robert Venturi: “Learning from Las Vegas”, dove l’architetto negli anni ’60 fotografò Denise Scott Brown a Las Vegas utilizzandola come il “Modulor” di Le Corbusier in rapporto alle architetture sullo sfondo. Ho voluto riprendere una simile scena, nello stesso posto, seppur alterato, ragionando sull’idea di sostituzione e rappresentazione in un luogo emblematico, dove ogni anno si ricostruiscono e falsificano altri luoghi per attirare gente meravigliabile.
Tra le foto iconiche che ho voluto riprodurre c’è anche quella della Monument Valley, ripresa dalla prospettiva del John Ford’s Point, forse uno dei punti più intensi della finzione americana: il luogo dove il regista, dopo aver girato, restava a dormire insieme ai nativi americani, di cui era amico, nonostante quello che raccontava nei suoi film, con i tre “butte” svettanti sullo sfondo e un cowboy Navajo sul ciglio di un burrone: qui verità e finzione si mescolano al punto da non essere più distinguibili. Ciò che vediamo, infatti, è accaduto davvero, ma è anche il frutto di una messinscena che ogni giorno per soldi si ripete per i turisti da parte di un nativo, che dice di essere il bisnipote del Navajo che interpretava l’indiano cattivo dei film di Ford.

M.B. Questo lavoro, nonostante parli di geopolitica e di tettoniche sociali, è letteralmente la storia di un “reperto”, tanto da essere stato richiesto dal Museo archeologico di Napoli.
F.J. Insieme agli spettacolari paesaggi del West e alla loro maestosa antichità geologica i miei scatti documentano i ruderi di alcuni edifici che ne rappresentano la storia, in qualche modo paragonabili a quelli di Pompei ed Ercolano, che hanno avuto una simile “rise and fall”, con immagini delle colonizzazioni più recenti, spettro delle contraddizioni del contemporaneo.
Tra queste nell’Hidawo il primo reattore atomico civile della storia è ad “Atomic city” (che si chiama letteralmente così), costruita e voluta dal governo americano e poco dopo abbandonata, mentre nella Goblin Valley, all’interno del deserto con meno vita degli Stati Uniti, c’è una base NASA dove sono state ricreate le condizioni di Marte: in questo modo la geologia continua ad essere, nella sua morte, una risorsa.
I deserti americani sono il vero luogo del sogno americano e contemporaneamente il simbolo della sua fragilità e fallimento, mitologia e pragmatica a un tempo, spazi senza confini dove le persone hanno immaginato sogni senza limiti e li hanno realizzati: quando sono falliti li hanno abbandonati ai deserti, che se li sono ripresi trasformandoli in scenografie aliene, concrete e insieme hollywoodiane, che oggi ci appaiono vere e false contemporaneamente: questa è la “Land of opportunity”!
Un’immagine rappresenta bene questo concetto: una carcassa di aeroplano schiantato in verticale, circondato da polvere bianca e immerso in un’irreale luce lattiginosa. Sembra una scenografia, e infatti lo è, ma l’aereo è reale, perché è un vero aereo militare defunto, depositato in un grande museo in Arizona (il più grande cimitero di aerei militari del pianeta), acquistato per un film dalla “Universal” e lì abbandonato per motivi economici. Nelle giornate nitide questo deserto di calce è visibile da una superstrada del Nevada e spesso qualcuno chiama allarmato che è precipitato un aereo: in questo modo un oggetto che è stato vero, dopo essere diventato cinema, è tornato vero nell’immaginario collettivo, divenendo nuovamente parte di una rappresentazione: c’è una sorta di cortocircuito dove non si distingue più il confine tra verità e menzogna.

Al termine del libro, dopo i ringraziamenti, c’è un’immagine che non avrebbe dovuto appartenere al volume e che è l’unica vera opera di finzione di tutto il progetto: Surfurbia, che per lo storico inglese R. P. Banham rappresenta la “struggente fine dell’epopea del west”, dove i surfisti californiani sono paragonati ai pionieri che partivano con il proprio cavallo alla ricerca di fortuna, spesso senza tornare.
Il west è noto come “Far west”: è l’unico luogo al mondo che ha un aggettivo nel nome per simboleggiare una zona lontanissima e irraggiungibile. Quando i pionieri arrivarono nella “Promise Land”, in California, il “far” era scomparso, perché il viaggio, che era divenuto meta in sé, era terminato. Allo stesso modo per Banham i surfisti non se la godono, perché sono sempre alla ricerca del tramonto (il mito del sunset), ma in modo disperante e disumano l’onda li riporta a terra, ricordando loro che il viaggio è finito.
Con l’ultima fotografia ho voluto pertanto trasformare il momento ludico del surf in una sorta di grande liturgia sacra, montando le immagini di numerosi surfisti in una sorta di teatro greco rivolto verso il tramonto del sole.
Dal pubblico: e dopo?
F.J. Un nuovo lavoro che sto preparando non guarda ai luoghi ma all’attuale incapacità di leggere la trama del reale. Viviamo in un momento storico complesso in cui abbiamo abdicato alla necessità di confrontarci con la grammatica della lettura della cosmogonia e di quello che ci sta intorno, soprattutto in un momento in cui le immagini si autoproducono.
Anni fa a Milano i manifesti di una mostra di Alfredo Jaar erano neri con la scritta “It is difficult”, senza nessun indizio: oggi sarebbe impossibile fare una cosa del genere. Vorrei allora produrre delle “macchine della visione”: immagini che facciano massa critica e cortocircuito contro la semplificazione della soglia della visione e della visibilità.
E insieme a Jodice anche noi ci auguriamo di tornare a “vedere” oltre la superficie delle cose, al di là di una cultura di massa che forse non ci appartiene.
Patrizia Dellavedova