«Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta, e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo».
«Fotografare una città significa fare scelte tipologiche, storiche, oppure affettive, ma più spesso vuol dire cercare luoghi e creare storie, relazioni, anche con luoghi lontani archiviati nella memoria, o addirittura luoghi immaginari» (G. Basilico).
Gabriele Basilico (1944-2013) è uno dei principali fotografi italiani che ha a lungo indagato le trasformazioni del paesaggio urbano degli ultimi cinquant’anni, spaziando oltre i confini della mera fotografia documentaria e dedicando un’ampia riflessione alla forma e identità delle città, tema questo al centro della duplice mostra “Gabriele Basilico. Le mie città”, ospitata a Palazzo Reale e alla Triennale di Milano, realizzata in collaborazione con l’Archivio Gabriele Basilico e prodotta da Comune di Milano, Palazzo Reale e Triennale Milano insieme ad Electa, omaggio al talento e alla visione artistica del fotografo nel decennale della sua scomparsa. La mostra è accompagnata da un doppio catalogo e da un podcast prodotto da Triennale Milano e realizzato da Gianni Biondillo per approfondirne la figura e l’opera.
In particolare, se nella sezione ospitata in Triennale vengono presentate le riflessioni di Basilico su Milano, città a cui è stato legato per tutta la vita, a Palazzo Reale – istituzione a cui ha mostrato un costante sostegno quale intellettuale e uomo di cultura prima che fotografo – fino all’11 febbraio 2023 sono invece esposte, a cura di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia, le sue indagini – in gran parte frutto di importanti committenze internazionali – estese alle altre città del mondo, nelle quali però ha sempre ricercato la “sua” Milano.

Instancabile viaggiatore, spinto da “quell’amore senza mediazioni per la città, al di là della sua immagine, del suo valore estetico o dei suoi problemi sociali”, attraverso un metodo di indagine fotografica “che ha come vocazione l’osservazione del mondo in trasformazione”, Basilico ha sempre prediletto le grandi aree urbane delle metropoli contemporanee, in Italia e all’estero, in Europa e nel mondo, con uno sguardo “capace di ascoltare il cuore di tutte le città”. Egli ritornava più volte negli stessi luoghi per catturarne con sensibilità e precisione l’essenza e la vera anima, quella che spesso sfugge agli occhi dei più, “con il desiderio di costruire un dialogo privilegiato con [essi], con la loro storia, con la loro natura, con i loro tratti somatici, ma confrontandoli con la memoria di tutti i luoghi conosciut[i] in precedenza” (G.B.), alla ricerca di quella familiarità presente in ogni scorcio urbano e di affinità, corrispondenze e analogie: “questo non significa che tutte le città debbano forzatamente assomigliarsi, ma significa che in tutte le città ci sono presenze, più o meno visibili, che si manifestano per chi le vuole vedere, presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo” (G.B.).
Le opere esposte a Palazzo Reale, frutto di commesse istituzionali, incarichi professionali o indagini personali dell’autore, offrono un’ampia panoramica di questo suo lavoro, che ne documenta l’ossessione e l’impegno nell’indagare le più importanti metropoli, con immagini scattate da Genova a Palermo, da Madrid a Mosca, da Shangai a San Francisco: “un’esperienza unica che guida lo spettatore attraverso un affascinante viaggio tra diverse terre e culture globali” (T. Sacchi) con cui ci si può immergere nella sua fotografia.

L’esposizione relativa alle città è preceduta dalle Sezioni del paesaggio italiano (1996), indagine realizzata con l’architetto Stefano Boeri per la VI Biennale di architettura di Venezia, volta a raccontare l’evoluzione e trasformazione del nostro territorio nel corso degli anni. Attraverso sei sezioni, da nord a sud, che “uniscono un’area urbana consolidata a una zona suburbana densamente popolata”, lo sguardo del fotografo cerca di ristabilire un ordine tra edificato e spazio urbano in luoghi apparentemente caotici e disordinati, soprattutto periferici: esercizio documentaristico che gli permetterà di sperimentare quel linguaggio che utilizzerà successivamente per fotografare le città del mondo, caratterizzato da “una doppia lettura: come un invito a guardarsi attorno, a riscoprire il paesaggio urbano che ci circonda, e come un suggerimento a sperimentare nuove modalità della visione sullo spazio abitato” (S. Boeri).

Con una pratica fotografica che prende “le misure dello spazio che mi sta davanti, [per] cercare di comprenderne la natura, svelarne i misteri o, più metafisicamente, risolverne gli enigmi” (G.B.), e spinto dalla curiosità di un attento osservatore per il quale “il tempo e l’attesa sono elementi centrali, protagonisti invisibili di ogni immagine” (G.B.), Basilico studia le città con lentezza e contemplazione, prima sulle mappe e poi con accurati sopralluoghi, ricercando quella luce e quei segni che raccontano un luogo e il suo contesto. Con la macchina fotografica egli trasforma queste tracce in rappresentazioni, restituendo un’interpretazione del reale che va oltre la superficie visibile delle cose, grazie a una “capacità di vedere la realtà con occhi speciali, mettendoci sentimento, empatia, progettualità, [con] una narrazione che ci coinvolge e stupisce” (D. Piraina).
L’abilità dell’autore nel catturare l’essenza delle metropoli e “l’insistenza lucida e ragionata del suo sguardo sulle architetture, nobili come mediocri”, emerge chiaramente dalle fotografie in mostra nella sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, luogo simbolo delle lacerazioni della seconda guerra mondiale, dove è possibile passeggiare liberamente attraverso un labirinto tortuoso e sorprendente composto da centinaia di immagini di oltre quaranta città del mondo, che si svelano man mano.


L’allestimento infatti, progettato da ZDA Zanetti Design Architettura in collaborazione con UniFor e Viabizzuno, è pensato come il tracciato urbano di una città con assi principali e svolte, cortili e piazze, perimetrate da quinte verticali o oblique sostenute da telai metallici, come fossero i muri delle strade, su cui poggiano fotografie ad altezza uomo illuminate da faretti sostenuti da cavi aerei similmente a quelli delle città raffigurate. Questo spazio artificiale effimero, essenziale e modulare, caratterizzato da materiali economici e industriali, si sovrappone e contrasta con la monumentalità, raffinatezza e storicità, seppur squarciata, dell’intorno. A differenza della mostra in Triennale dove spicca il bianco e nero, qui il colore regna sovrano, anche per le immagini prive di esso.


Attraverso fotografie diverse per formato, orientamento, uso del colore o bianco e nero, punti di vista (frontali o verticali, dal basso o dall’alto), Basilico descrive luoghi differenti ma in qualche modo simili, dove più che le differenze emergono le radici comuni, la singolare somiglianza fra architetture e strutture urbane di diversi Paesi: a vedute panoramiche di città che si moltiplicano a dismisura (Rio de Janeiro, Istanbul o Tel Aviv) o riprese a volo d’uccello (i grattacieli di San Francisco), si affiancano infatti raffigurazioni tradizionali di parti di città e quartieri, con inquadrature frontali di architetture simboliche (la City Hall di Buffalo), storiche (i luoghi simbolo della città imperiale di Roma) o moderne (la Shell Haus di Berlino), ma anche scatti relativi a dettagli di arredo urbano o a luoghi periferici o alternativi rispetto all’immaginario collettivo, come in alcune inquadrature di Barcellona o di Palermo, dove nel 1998 egli realizza un’ampia indagine sulla città per l’Associazione Eva Kant.

Tra le fotografie in mostra quelle più interessanti, in linea con la cornice in cui sono esposte, sono quelle che colgono i contrasti tra architettura storica e contemporanea, tra antico e moderno, tra distruzione e progresso, dove Basilico cerca di rappresentare le città come “qualcosa di vivo, come un organismo che respira, come un grande corpo in trasformazione” (G.B), con immagini di un tessuto storico residuale che resiste impavido all’avanzata dei grattacieli che lo circondano (come in alcuni scatti di Istambul, Parigi o Montecarlo), oppure con raffigurazioni della città contemporanea che fanno da sfondo a quella storica, quasi opprimendola (come a Tel Aviv, Shangai o Istambul), o ancora con fotografie di cantieri in costruzione che esibiscono la modernità del nuovo in contrasto con l’esistente (come a Bilbao, Lisbona o Londra).

Spiccano in particolare le immagini di Beirut del 1991, derivanti da un reportage effettuato insieme ad altri fotografi per testimoniare la desolante situazione dell’area centrale della città, devastata da quindici anni di guerra, che all’epoca stava lentamente iniziando a rinascere: qui Basilico cerca di catturare l’anima di un luogo fantasma quasi completamente disabitato. Egli vi tornerà nel 2003, 2008 e 2011 per fotografarne la ricostruzione, trovandola completamente trasformata: “la pratica del ritornare crea una singolare disposizione sentimentale: come l’attesa per un appuntamento desiderato, un risvegliarsi della memoria per luoghi, oggetti, persone, come se si riaccendesse il motore di una macchina ferma da tempo: per Beirut è stato anche di più” (G.B.).
Il contrasto tra passato e bisogno di rinnovamento emerge anche nelle immagini di Berlino, dove nel 2000 il fotografo realizza un’ampia documentazione della città grazie ad una borsa di lavoro della DAAD (Deutscher Akademischer Austausch Dienst): qui, infatti, la tragicità della storia della città, “segnata da cicliche distruzioni, e il coraggio e la determinazione nel ricostruirsi hanno fatto diventare necessità primarie gli interventi di sistemazione urbana e di progettazione architettonica. Berlino è diventata così un’opera aperta, un cantiere di sperimentazioni e di idee per l’avvenire, [dove], malgrado siano passati circa dieci anni dalla demolizione del muro, permane ancora una sensazione di vuoto pneumatico, di zona di confine che sollecita due sentimenti contrapposti: la malinconia diffusa nell’atmosfera, nei silenzi, nella fisicità possente degli edifici, e un senso di eccitazione con un’energia implosa per l’attesa del nuovo” (G.B.).

Diversamente da questi casi in cui le indagini sono state appositamente commissionate, in altri l’occasione di uno specifico evento è diventato stimolo per successivi approfondimenti personali dell’autore in autonomia. Questo è avvenuto ad esempio nel 2006 a Tel Aviv, a seguito dell’invito del regista Amos Gitai sulle tracce del film Free Zone, dove Basilico ha raffigurato la città dopo aver percorso Israele fino al confine tra la Giordania e la Siria fotografando anche dall’auto in movimento, esperienza per lui inusuale, o a Shangai, quale inviato dal Ministero degli Esteri italiano in occasione di Expo 2010 per immortalare il Padiglione Italia, dove ha poi ritratto la metropoli fotografando “dal piano stradale le zone tradizionali non ancora in via di trasformazione, [e] da un punto di vista sopraelevato i luoghi nei quali sono visibili i cambiamenti in atto [in una città] ancora in bilico tra passato e presente, tra oriente e Occidente, tra tradizione e slancio verso un futuro tecnologico” (G.B).

Questo linguaggio – con l’uso di riprese dall’alto per testimoniare lo sviluppo urbanistico e di scatti dal piano stradale per le architetture – era già stato utilizzato nel 2007, insieme all’amico Umberto Zanetti, per rappresentare la città di Mosca nel progetto Mosca Verticale (esposto anche a Parigi e Milano), seguendo il perimetro definito dalle “Sette Sorelle”, le torri volute da Stalin tra il 1947 e il 1957, quale espediente per affrontare la complessità urbanistica della metropoli.
Lo stesso avverrà nel 2011, su invito dal Centro Culturale Oi Futuro, per Rio de Janeiro, caratterizzata da uno sviluppo urbanistico ancor più complesso e difficilmente descrivibile, dove è necessario abbandonare “la nozione di centro e periferia, di città e campagna, sostituendola con quelle di città diffusa, infinita metropoli, nebulosa urbana ecc., [nella quale] le periferie non sono più un limite territoriale ma danno spazio a nuovi inurbamenti diffusi sistemati in modo disorganizzato sul territorio, la cui forma è instabile e in perenne movimento” (G. B.): qui le immagini – come nel caso di Porto, in compagnia degli architetti Alvaro Siza e Eduardo Souto De Moura – si rivolgono soprattutto a “quell’architettura spontanea che definisce l’anima dei luoghi e accoglie quotidianità personali e ritualità collettive” (M. D’Alfonso).

In ogni reportage fotografico infatti Basilico cerca di testimoniare, come in un “libro che bisogna leggere per intero, diversamente si rischia di non afferrarne il senso, non solo i monumenti e la città consolidata, ma soprattutto la periferia, le zone di nuova espansione” (G.B): ad Istanbul, per esempio, dove compie due viaggi nel 2005 e nel 2010 in occasione della IX Biennale Internazionale e di Istanbul Capitale Europea della cultura, egli affronta con il medesimo interesse sia architetture “colte” che “ordinarie”, facendogli così assumere senso e importanza: “perfino i quartieri nuovi, gremiti di palazzoni che sono come guardiani di nessun segreto, non possono sottrarsi a questo ultimo, elementare atto di rispetto verso il terreno, e, per quanto ciò possa sembrare strano […], noi indoviniamo […] che quei quartieri nuovi e anonimi sono, ancora e sempre, quartieri di Istanbul, e perciò non del tutto anonimi“(L. Doninelli).

Nella ricerca di Basilico non mancano infine indagini che coprono aree territoriali più vaste, come quella sulla Silicon Valley voluta nel 2007 dal San Francisco Museum of Modern Art, dove il fotografo, partendo da San Francisco, attraversa tutta la vallata “ritraendo aree di transizione e di trasformazione e rivolgendo la sua attenzione a luoghi solitamente trascurati”.

Prima ancora, tra 1984 e 1985, come unico italiano insieme ad altri fotografi internazionali, aveva partecipato alla Mission Photographique de la D.A.T.A.R. (Délégation à l’Amenégement du Territoire et à l’Action Régionale) su invito del governo francese, per documentare e interpretare le trasformazioni del paesaggio del litorale settentrionale del paese dal confine con il Belgio fino a Le Mont Saint Michel, ritraendo non solo i porti e le città ma anche il paesaggio naturale. Per la prima volta, di fronte alle coste della Normandia, egli vive quella che definirà “esperienza del paesaggio”: “ho conquistato uno sguardo lento, che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo diretto, […] in contemplazione davanti a queste meraviglie della natura, a questi paesaggi […] dove la fotografia rischia persino di essere qualcosa di superfluo, […] ma è l’unico mezzo possibile [per] raccontare agli altri quello che si è visto” (G.B.).
Ed è proprio grazie a questa sua fotografia che oggi possiamo cogliere lo sguardo di un grande uomo nell’interpretare e raccontare numerosi angoli del mondo, ognuno con la propria storia e peculiarità, da cui però scompaiono le barriere geografiche “nel tentativo o, piuttosto, con la speranza di ricostruire il modello di una città immaginaria” (G. B.).
Patrizia Dellavedova
Foto di copertina: Gabriele Basilico, Paris, 1997©Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.
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