Il debole e il tenero stanno in alto

I simboli dell’infanzia sono legati a immagini leggere, evanescenti, quasi senza peso. Sono prevalentemente gli oggetti fragili le metafore che racchiudono il segno della fanciullezza: un palloncino colorato, un aquilone, bolle di sapone. Se volessimo individuare in poche figure simboliche l’immagine dell’infanzia, dovremmo pensare a tutto ciò che sta in alto, perché la levità è l’attributo che meglio rappresenta l’infanzia. Anche le ali vanno bene, perché si sa che gli angeli sono sempre bambini.

Nel recente film Notizie dal mondo (P. Greengrass, 2020), interpretato da Tom Hanks ed Helena Zengel, si ripropone un tema molto caro al cinema, ovvero la relazione asimmetrica che si crea tra un uomo, che non è padre o parente, e il bambino che si trova all’improvviso a dover dipendere completamente dall’adulto. In Paper moon (P. Bogdanovich, 1973), sono Ryan e Tatum O’Neal a interpretare una coppia di improbabili truffatori nell’America della Grande Depressione degli anni Trenta, ma è soprattutto nel film Il monello (The kid, 1921), che possiamo ritrovare l’essenza della relazione che si crea tra il mondo dell’infanzia e chi invece ha un rapporto più disincantato con la vita. Charlie Chaplin ne Il monello reinventa completamente il melò, ovvero il melodramma, trasferendo il rapporto affettivo e simbiotico, che solitamente viene assegnato alla madre, alla figura maschile. In questo modo Chaplin ridefinisce il genere, piuttosto che la forma, andando nella direzione di creare un nuovo modo di raccontare i sentimenti e le emozioni. Il protagonista de Il monello non è il padre del bambino che trova, per caso, in una macchina rubata e abbandonata, ma un povero vagabondo che vive di espedienti e di sotterfugi, sempre in allerta per il pericolo di essere catturato e imprigionato. Infatti il canovaccio della narrazione dei film Chaplin è di solito personificato da un personaggio che la critica ha sintetizzato con il termine il ‘vagabondo’, un uomo che fugge continuamente di fronte all’autorità della legge, rappresentata quasi sempre da un poliziotto agguerritissimo oppure da soldati pronti a mettere il povero vagabondo in galera. Non a caso Hannah Arendt ha visto nel protagonista dei film di Chaplin proprio la figura dell’ebreo che, ovunque vada, trova luoghi e persone inospitali e profondamente ostili. «Chaplin – scrive Hannah Arendt -, istruito dalle decisive esperienze della sua infanzia, aveva rappresentato la secolare paura ebraica davanti al poliziotto in cui s’incarna un ambiente ostile, e la secolare saggezza ebraica per cui l’umana astuzia di Davide può avere in certi casi la meglio sulla forza bestiale di Golia». Ma il vero colpo di genio di Chaplin sta proprio nel creare un ibrido tra il comico, affidato alle gag ormai ampiamente collaudate nei cortometraggi realizzati a partire dal 1914, e il sentimentalismo del melò tradizionale basato sui temi della separazione e dell’abbandono. Il grande successo del film, vero e proprio primo lungometraggio di Chaplin, risiede proprio nella rimodulazione del melodramma moderno che vede un padre, che non è un padre, ma che si trova a fare da madre ad un bambino.

P. Greengrass, Notizie dal mondo (2020)

Il tema della presenza salvifica dell’adulto che veste i panni di un padre ‘surrogato’ è rintracciabile nell’esperienza biografica dell’attore e regista inglese. L’infanzia di Chaplin e di suo fratello fu segnata dall’assenza e dall’abbandono del padre, nonché dalla malattia mentale della madre, che costrinse i due bambini a trascorrere lunghi periodi negli orfanotrofi. Eppure la ferita di Chaplin si muta in talento e in dono creativo, perché ciò che è stato motivo di tristezza e di desolazione del passato si trasforma e dà forma all’opera artistica di Charlie Chaplin: il padre ritorna sotto le mentite spoglie del vagabondo, mentre la finzione cinematografica compie la catarsi dell’abbandono subito nella sua infanzia. Il melodramma si arricchisce con la forza di sentimenti più veri e si ibrida con la commedia e con il comico: il mondo ostile non può più ferire il bambino, perché ci sarà sempre un padre che arriverà a togliere entrambi dai guai, sia pur con i mille trucchi e stratagemmi di un vagabondo; e alla fine il tragico si trasforma in gag, la paura in coraggio. Ma se il bambino incontra nuovamente il padre, perduto e ritrovato, anche il padre ridefinisce se stesso grazie al rapporto con il fanciullo, che ha il preciso compito di riposizionare il ruolo dell’adulto. In Notizie dal mondo è proprio la bambina, che deve essere riaccompagnata agli zii dopo esser stata rapita dagli indiani da piccola, a far sì che il protagonista affronti finalmente i suoi problemi e il suo dolore. Il tema  dell’adulto che deve occuparsi e proteggere il bambino si ribalta nell’evidenza che, a volte, è il punto di vista infantile che riesce a cogliere la vera essenza del mondo e in definitiva a saper vedere la verità. In questa direzione possiamo ricordare le numerose figure di bambini saggi che abitano la narrativa dello scrittore americano Jerome David Salinger; prevalentemente fanciulle che sembrano avere il preciso compito di illuminare il mondo degli adulti, togliendo la patina di ipocrisia a cui spesso ricorrono i ‘grandi’ per giustificare i propri comportamenti sbagliati. In The catcher in the rye (1951) è la “vecchia Phoebe” a portare il protagonista Holden Caulfield a più miti consigli, mentre in Per Esmé: con amore e squallore (tratto da I nove racconti, 1953) è la tredicenne Esmé che si rivolge al narratore, che è a tutti gli effetti l’autore visti i numerosi riferimenti autobiografici, a cui confida la morte di entrambi i genitori nonché il dolore del fratellino Charles, di quattro anni, che sente fortemente la mancanza del padre. L’incontro con Esmé sarà determinante per la vita del protagonista che, scampato alla guerra, penserà che la sua salvezza sia dipesa da una lettera e da un talismano regalatogli dalla ragazza. Ma è soprattutto Sybil de Un giorno ideale per i pescibanana, sempre tratto da I nove racconti, a personificare la catarsi della vita sbagliata degli adulti.

ll racconto di J. D. Salinger si apre con una lunga telefonata tra una donna e la propria madre, in un albergo affollato d’estate. La discussione al telefono è un campionario di luoghi comuni, amenità e chiacchiere inutili anche se, quasi subito, capiamo che le cose più importanti sono proprie le cose che non si dicono. Si coglie la stranezza del fidanzato della donna: quel Seymour (see more) tornato dal fronte non si sa bene con quali e quanti traumi e dolori. Un uomo che se ne sta al sole, in silenzio con l’accappatoio indossato, perché non vuole che gli altri vedano un tatuaggio che non si è mai fatto. E così mentre il dialogo delle donne viene scandito dalla ricerca di sigarette, dalla paura delle scottature e da imbottiture di vestiti blu, diventa improvvisamente chiaro il senso di solitudine che attanaglia Seymour, perché non c’è assolutamente nessuna possibilità che quelle persone possano comprendere la desolazione di chi ha visto la guerra e la morte. C’è un distacco assoluto tra la futilità delle parole del dialogo telefonico e quel soldato il cui «esercito non avrebbe mai dovuto dimetterlo dall’ospedale» perché potrebbe «perdere completamente il controllo». Uno iato tra esistenze che non possono essere più ricucite perché ancora peggio del non essere accolti, c’è l’inferno di non essere ascoltati. Il senso di isolamento del protagonista è anche solitudine della voce, del comunicare: un’afasia dell’anima che sembra trovare una sorta di tregua nella seconda scena, quando il protagonista intreccia un dialogo con una bambina di nome Sybil. È questo uno scambio apparentemente innocuo giocato sulle fantasie care ai bambini, eppure emerge con forza un senso di sottile inquietudine. Nel bagnetto che Seymour fa con Sybil, durante il quale racconta la storia dei pescibanana che muoiono dopo essere entrati nelle grotte bananifere (e per aver mangiato settantotto banane), appare con tutta evidenza l’impossibilità di recuperare un’innocenza perduta, una purezza interiore definitivamente smarrita durante il conflitto mondiale. La piccola Sybil restituisce a Seymour quel vuoto, incolmabile e tragico, che rende palese l’impossibilità della comunicazione, ovvero lo scambio impossibile tra due piani di realtà ormai non più conciliabili: quello vacuo e fatto di niente delle chiacchiere della moglie e quello ancora tutto da costruire del futuro dei bambini.

C. Chaplin, The Kid (1921)

Eppure se nella narrativa di Salinger gli adulti e i bambini non dialogano veramente, perché il primato spetta ai piccoli saggi, una sintesi felice viene colta perfettamente da Chaplin che, nella parte finale de Il monello, immagina una città di angeli, in cui il bene e il male si contrappongono in modo semplice e manicheo, come gli angeli e i demoni, rivendicando l’unica vera costante del melò, che non è il lieto fine, ma la vittoria dei sentimenti sopra ogni altra cosa. Nel ricongiungimento della madre con il figlio nel finale de Il monello, c’è il senso di ogni melodramma, poiché ogni vicenda, anche se fortemente sentimentale, deve chiudere il cerchio della narrazione nella sintesi che senza emozioni non c’è storia, senza sentimenti non c’è mai cinema, né vita. Leggiamo nel Tao Te ching di Lao Tzu che «l’uomo, quando è vivo, è molle e tenero; quando è morto, è rigido e duro. Gli animali e le piante, quando sono vivi, sono teneri e fragili; quando sono morti diventano vizzi e secchi. Perciò si dice: il rigido e il duro appartengono alla morte; il molle e il tenero appartengono alla vita. Ecco perché i soldati, quando sono troppo duri, non possono vincere la battaglia; l’albero, quando è troppo duro si spezza. Il forte e il grande stanno in basso; il debole e il tenero stanno in alto». Ed è forse questa la vera lezione che viene dall’infanzia, ricordarci che dobbiamo sforzarci di rimanere teneri, perché il debole e il tenero levitano sempre verso l’alto, come gli angeli con le ali di carta di Charlie Chaplin.

Rossano Baronciani

Immagini tratte da Google Images