Il Giappone fotografico: Motoyuki Daifu

La vita quotidiana, filtrata dalla vita non quotidiana, filtrata nuovamente dalla vita quotidiana.

Chi si fosse recato di recente al cinema per assistere alla proiezione di Affari di famiglia, film giapponese vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2018, saprà che non è raro per una famiglia giapponese vivere in spazi angusti, sommersi da cibo, oggetti, vestiti, arredamento arrangiato e condizioni di vita tutt’altro che comode. La pulizia non manca, ma la bulimia consumistica che ben conosciamo non ha risparmiato questo paese, con le chiare conseguenze di una vita spesso ingombra di inutilità.

Un’altra famosa caratteristica del popolo nipponico è quella di tener le cose private veramente al di fuori dello sguardo altrui; anche nella consapevolezza di condividere i medesimi problemi e modalità di vita, il giapponese difficilmente apre la propria intimità ad un conoscente, ad un vicino, spesso neanche ad un amico.

Motoyuki Daifu sovverte quest’ultima regola e ci fa entrare con lui nella propria vita privata, senza particolari introduzioni, dritto nei momenti più intimi che nemmeno noi italiani renderemmo pubblici se ce ne fosse concessa la possibilità.

Motoyuki si è fatto conoscere per la prima volta con la serie Family, che ritrae le condizioni di vita della sua famiglia, un’opera angusta, ingombrante e aggressivamente intima. Il titolo originale dell’opera è La famiglia è un pube, per cui lo ricopro con graziose mutandine. Sbirciare in questo mondo nascosto sembrava quasi un’invasione. Era accettabile vedere questi segreti? Cosa ne pensava la sua famiglia?

Lovesody ha documentato una storia d’amore di sei mesi tra Motoyuki e una giovane madre single che ha frequentato mentre lei era incinta del suo secondo figlio. Anche in questo caso, le immagini sono crude fino al punto di sconforto. Il confronto più vicino è il lavoro personale di Juergen Teller (a cui l’autore si ispira), anche se Teller si rende più vulnerabile al suo pubblico e superiore ai suoi soggetti. Motoyuki, al contrario, è uno dei partecipanti alle fotografie, ma apparentemente invisibile allo stesso tempo.

La serie di Still Life pone gli oggetti, e soprattutto la confusione che ne deriva, in primo piano, di nuovo sembra di essere entrati in casa dell’autore, sbirciando qua e là tra scrivanie e piani di cucina pieni di cibo.

Questo mistero – insieme ai colori e alle composizioni delle fotografie stesse che colpiscono in sé – è ciò che rende queste immagini così potenti e durature. Nonostante il disordine, sono in un certo senso Pop: emotivamente coinvolgenti ma inaccessibili.

Vengono alla mente le parole di Susan Sontag: “Guardando la realtà altrui con curiosità, con distacco, con professionalità, l’onnipresente fotografo opera come se quella prospettiva fosse universale”. Il punto di vista di Motoyuki non è invece per nulla universale; è decisamente suo. Eppure, nonostante la sua presenza, il fotografo rimane sfuggente all’interno della sua opera.

Silvio Villa