Discorsi Fotografici vi propone il punto di vista di Biba Giacchetti, fondatrice di Sudest57, agenzia che si occupa di grandi fotografi autoriali, mettendoli in contatto con il mondo della comunicazione aziendale e promuovendone la conoscenza tramite grandi eventi culturali.
Una donna entusiasta del suo lavoro, generosissima nel suo raccontarsi.
Eccovi l’esito della nostra chiacchierata.
Una breve biografia professionale: quale percorso di studi/esperienze lavorative l’ha portata alla posizione attuale. Perché la fotografia?
Dopo la maturità in Francia e la laurea in legge a Roma, ho subito trovato impiego a Milano nell’ambito della comunicazione, nel pieno della vivacità degli anni ’80 dovuta alla nascita delle televisioni private. Compiuti i 40 anni ho deciso di fare coincidere una mia passione, la fotografia, con il mio ambito professionale; quindi attraverso una rete di collaborazioni che mi ero creata nel corso della mia carriera, sono riuscita da subito ad entrare in contatto con colui che definisco il mio “maestro”, Elliott Erwitt, poiché all’epoca lavoravo per la Magnum che in quel periodo in Italia si occupava solo di editoriale.
Io che venivo dal mondo della comunicazione ho pensato di coniugare la visione dei grandi fotografi, i grandi autori con le esigenze delle aziende, sia a livello corporate che di prodotto, svincolandole parzialmente dai fotografi commerciali e dando origine a progetti interessanti.
Elliott è stato il primo; aveva già avuto delle esperienze con il mondo delle campagne pubblicitarie e con lui ho lavorato tantissimo.
Nel 2002 insieme a Giuseppe Ceroni, all’epoca il mio assistente, abbiamo fondato la Sudest57. Il focus di questa agenzia è stato di avere fin dall’inizio dei fotografi che fossero degli autori, con un loro linguaggio e punto di vista sul mondo, aiutandoli a lavorare sia sotto l’aspetto commerciale, sia sotto l’aspetto della promozione più strettamente culturale. I fotografi su cui abbiamo basato la nostra società sono appunto Elliott Erwitt e Steve McCurry, che è arrivato proprio nei primi momenti della nostra agenzia e che in Italia non era ancora così noto, a differenza di Erwitt. Anche altri grandi autori, sempre delle voci particolari come Duane Michals, Mary Ellen Mark, James Nachtwey quindi fotografi molto poco commerciali. Poi si sono aggiunti fotografi più giovani, italiani ed è nato questo team che voleva comunque sempre mantenere indipendenza, nella sua piccola dimensione.
Perché la fotografia? Io ero una grande viaggiatrice, il mio diario di viaggio era sempre per immagini fotografiche, leggevo libri, la seguivo come appassionata, ma sono ormai 23 anni che ci lavoro felicemente.
Il mondo corporate. Le aziende vi contattano per proporvi un lavoro o piuttosto siete voi a proporre loro un fotografo con un progetto? È sempre facile conciliare visione artistica di un fotografo con esigenze comunicative dell’azienda? Sta anche in questo il ruolo della sua agenzia? Che tipo di produzioni vi chiedono le aziende?
La reazione iniziale dei miei clienti, con le quali avevo creato delle relazioni di fiducia durante la mia precedente carriera, era all’inizio un po’ stupita; invece di portare i classici portfolio, io portavo dei libri fotografici.
Con i primi lavori fatti abbiamo mostrato anche ad altre aziende il risultato e ne sono rimaste entusiaste. La verità che questi fotografi autoriali inserivano nelle loro fotografie, la inserivano anche nella comunicazione commerciale per queste aziende.
Le aziende amano la fotografia, oggi è più facile di venti anni fa. Certo molto è cambiato, la fotografia commerciale spesso la producono al loro interno, ma siamo riusciti a collaborare con aziende, anche nel campo della moda, che lavorano con fotografi che sono diversi da quelli commerciali. Penso a Lorenzo Vitturi che ha fatto dei progetti per Max Mara, ci chiamano per fare delle installazioni site specific.
Noi continuiamo a lavorare; certo siamo una nicchia che, tuttavia, abbiamo presidiato perché ho avuto l’intuizione di crearla 20 anni fa.
Con Steve McCurry abbiamo fatto il calendario Lavazza, il calendario Pirelli (il primo con le donne vestite e con delle attività di impegno sociale), una campagna per Valentino che ha preso numerosi premi, per Vacheron Costantin, ancora per Lavazza con un libro che documenta tutti i territori di coltivazione del caffè (un progetto ancora in corso).
Con Erwitt abbiamo lavorato anche per Todds oppure si pensi, ad esempio, alla mostra “Family” di Elliott Erwitt, al Mudec: in essa sono inserite delle fotografie che sono state fatte per delle campagne pubblicitarie, ma di fatto fanno parte della sua collezione autoriale, come quella del bambino sulla bicicletta con la baguette oppure il calendario Lavazza dedicato alle famiglie. Una, ancora, che addirittura non era previsto la scattassimo, quella della ragazza incinta che sta servendo un caffè: lei ci stava preparando un caffè in un momento di pausa tra uno scatto e l’altro e mentre montavamo il set; è entrata nel calendario Lavazza.
Lei dunque segue i fotografi coinvolti anche in fase di ripresa, per questi progetti?
Sì; noi abbiamo lavorato con loro da ogni punto di vista, sin dalla concezione del progetto.
Venendo dal settore della pubblicità ed essendo un direttore clienti, per me era più facile concepire un progetto che potesse essere utile e interessante per l’azienda ma nelle corde del fotografo.
Per sviluppare il progetto abbiamo avuto la fortuna di incontrare sulla nostra strada degli interlocutori fantastici, che sono diventati i nostri grandi clienti con i quali lavoriamo da venti anni.
Avete anche richiesta di lavoro anche da committenti privati? Nel caso, cosa chiedono ai fotografi?
Sì Elliott, Steve hanno fotografato tante famiglie italiane che volevano avere il loro mondo fotografato da loro, con la visione del fotografo. Questo succede spesso.
Sono cose molto private, che rimangono patrimonio personale delle famiglie, non le pubblichiamo.
Poi ci sono anche aziende (es. Max Mara) che commissionano delle opere per uso interno, non per comunicazione pubblicitaria. Il Museo di Max Mara ha invitato Lorenzo Vitturi chiedendogli qualcosa di dedicato a loro, che resti come patrimonio aziendale.
Anche il Museo Lavazza lo vuole fare, è un comparto che sta crescendo.
Sudest57 e Biba Giacchetti si occupano non solo del comparto corporate e di comunicazione, ma anche di tutta una serie di eventi di natura culturale; mi riferisco alle numerosissime mostre che avete curato nel corso degli anni, in tutta Italia. Il suo nome è indiscutibilmente legato ai già citati Elliott Erwitt e Steve McCurry ed in parte ci ha già spiegato come è entrata in relazione con loro. Vuole raccontarci come siete riusciti ad eccellere anche nell’ambito culturale e come è iniziata anche questa avventura?
Direi che è iniziata con Letizia Moratti, ai tempi Sindaco di Milano, cui ho mostrato le fotografie di McCurry. Lei si è subito innamorata della sua fotografia ed ha voluto fortemente organizzarne una mostra, chiedendomi collaborazione. Questa è stata per noi occasione per fare questa nuova esperienza, cercando un tipo di esposizione che fosse più intrattenitiva, più emozionale, ispirata da una mostra che avevo visto a Parigi al Palais de Tokyo. Con Peter Bottazzi, designer, abbiamo allestito una mostra che ha avuto un successo strepitoso al Palazzo della Regione, ai tempi ancora inutilizzato per questo genere di eventi.
Il riscontro economico che ne è derivato per il museo, per Civita che ha organizzato la mostra, li ha portati a chiederci sempre nuovi eventi e siamo riusciti ad organizzare più di quaranta mostre nei luoghi più disparati in giro per l’Italia, con diverse tipologie di installazioni.
Anche con Erwitt abbiamo lavorato molto sotto il profilo meramente culturale; nel suo caso con degli allestimenti più tradizionali, consoni alla sua fotografia e personalità.
Come nasce dunque una mostra? Quali attività gestisce la curatrice di una mostra?
Parto proprio dalla concezione della mostra. Propongo una mia prima selezione che sottopongo al fotografo ed al museo e quando concordiamo tutti sulla scelta finale, diamo vita agli allestimenti, a partire da un briefing che definiamo noi e sottoponiamo ad architetti e interior designer.
In genere ho un rapporto di grande fiducia con chi si affida a noi. Elliott Erwitt si è emozionato quando ha visto per la prima volta stampata e appesa alla parete la sua foto del Ku Kux Klan
Abbiamo lavorato con team d’eccezione: con il già citato Peter Bottazzi o Fabio Novembre, per fare un altro nome. Collaboratori con cui abbiamo un’ottima sintonia personale e professionale, scenografi che valorizzano la fotografia, senza soverchiarla.
Uno dei fattori che trovo di grande importanza è il Light Design: è essenziale per creare la giusta ed equilibrata suggestione, a volte dà tutto un altro sapore ad un luogo all’apparenza inospitale ed è fondamentale per coinvolgere il visitatore.
A proposito di quest’ultimo, il visitatore, per me è davvero la priorità. Nelle prime mostre che curavo mi fermavo nelle sale per osservarli, conoscerne la tipologia, notare le reazioni (una cosa che faceva anche Erwitt, come racconta nel suo libro “Scatti personali”, di cui ho curato la prefazione). Una delle mie più grandi soddisfazioni è stata apprendere che molti tornavano a rivedere la mostra!
Ciò che per me è fondamentale, in cui credo fortemente è il lasciare il visitatore completamente libero di muoversi all’interno della mostra. Non ci sono percorsi obbligati, che lo forzino ad attendere in fila il proprio turno per vedere una fotografia, secondo sequenze predefinite, ma libertà di movimento. Cosa più facile per le mostre di Steve McCurry, meno per quelle di Erwitt, ma comunque possibile. Desidero che il visitatore crei il suo personale percorso, la sua personale mostra.
Tornando alla gestione di una mostra, altro momento essenziale è il montaggio delle foto alle pareti, momento importante per definire le altezze, le prospettive e verificare se le scelte e gli abbinamenti fatti sono effettivamente efficaci come pensato. Io sono sempre presente, divento un po’ una coordinatrice ed una factotum.
Erwitt e McCurry, fotografi con una produzione strepitosa, sia in termini qualitativi che quantitativi. Nel corso degli ultimi anni è stata spesso utilizzata una chiave di lettura nel raccogliere le fotografie in una mostra; mi riferisco ad esempio alla mostra “Kolor”, a Genova o la recente “Family” a Milano, entrambe di E. Erwitt, dove il fil rouge era per la prima la fotografia a colori dell’autore, l’altra immagini attorno al tema della famiglia. Ancora, la mostra “Leggere” di McCurry a Modena, legate al tema della lettura, o “Mountain men” al Forte di Bard, le sue fotografie che indagano l’interazione tra uomo e montagna, o “Animals”, ecc. . Si tratta di una esigenza o di un’idea che parte dal fotografo, dal curatore o dalla eventuale committenza? Può essere anche un modo per mostrare in modo diverso l’autore, soprattutto se poliedrico piuttosto che proporlo tramite una retrospettiva?
Per entrambi erano già state fatte molte retrospettive, perciò era il momento per approfondire su certi focus.
Conoscendo bene le fotografie che l’autore ha in archivio, a seconda delle attività del museo, delle sue preferenze e caratterizzazioni, sono in grado di capire il taglio da dare ad una mostra.
Le mostre per poter funzionare devono essere come delle sinfonie, altrimenti sono noiose e non c’è niente di peggio che fare annoiare, in qualsiasi ambito; devi trovare un’alternanza di sentimenti diversi. Non basta che un fotografo abbia tante immagini di quell’argomento, ma devono essere fotografie che toccano corde diverse e tutte su uno stesso livello. Tutto questo me lo ha insegnato Elliott Erwitt, che devo dire, sono stata fortunata, mi ha scelta. Mi ha insegnato ad esempio che un conto è quello che metti a parete, un conto quello che metti in un libro.
Ricollegandoci a questo e tornando alla questione di come nascono queste mostre “a tema”, la mostra di Steve McCurry sul leggere deriva dal fatto che lui aveva già fatto un libro in merito, sul quale io ho lavorato. Ho pensato potesse reggere una mostra ed ho incluso foto che non erano nel libro e viceversa; una fotografia non ha lo stesso impatto e dialogo con la persona che la guarda se inserita in una mostra piuttosto che in un libro.
La fruizione ha a che fare anche con gli spazi che la ospitano, sono tanti i linguaggi che si devono mettere insieme.
Quindi il focus su un tema può essere un’iniziativa mia o anche del fotografo.
Per esempio “Family” nasce da un brainstorming con il Mudec; loro volevano Elliott, ma volevano qualcosa che nessuno al mondo avesse ancora fatto. È stata una bella sfida, perché Elliott aveva già 91 anni e per fargli montare una mostra da zero – lui controlla tutto quello che esce – siamo stati con il mio socio a New York; insieme abbiamo selezionato, dalla mia prima scelta, lui ne ha aggiunte altre. Una attività meravigliosa, posso dire che Elliott è stata davvero la mia più bella avventura. Con Mary Ellen Mark purtroppo, nonostante abbia lavorato con lei per una campagna con una casa farmaceutica, sono dispiaciuta di non essere mai riuscita ad organizzare una mostra; i musei, peraltro, si basano anche sul numero di biglietti venduti e non è sempre facile, temevano non ci sarebbe stato un afflusso sufficiente. Questa è anche la ragione per cui ho fatto anche così tante mostre di Steve McCurry, perché si vendono, la gente le frequenta. Per questo sono molto grata a Letizia Moratti, perché lei ha voluto la mostra di Steve McCurry quando ancora non era così conosciuto.
Ci sono autori che sicuramente richiamano sempre pubblico, sono “pop”, parlano a tutti: Steve McCurry, Frida Kahlo, Picasso, Dalì; ci ne sono altri che invece sotto questo profilo funzionano meno. Sono comunque molto contenta delle due nuove mostre che ho curato con il Mudec, di Zanele Muholi e Tina Modotti. Zanele Muholi, un personaggio fantastico, sono certa avrà molto successo: pur non essendo conosciuta alle masse, diventerà molto popolare.
A proposito di Tina Modotti, e della mostra che avrebbe dovuto aprire ai primi di maggio al Mudec, Milano. Considerato che non abbiamo ancora la certezza di poterla visitare, vuole darci qualche anticipazione? Ad esempio, che criterio è stato utilizzato nella selezione delle sue fotografie (la vita di Tina è molto ricca)? Ci saranno anche documenti storici? Come è stato lavorare alla nascita di una mostra di un’artista non più vivente, quindi senza la collaborazione dell’autore nella selezione?
Al Mudec, finalmente nel 2020 si è deciso di dedicare l’anno alle voci femminili nell’ambito dell’arte, sempre poco valorizzate.
Ho proposto Tina, certamente molto interessante per la sua storia personale e poi perché ha fotografato solo per 7 anni della sua vita ma ha vissuto un periodo di influenze artistiche, politiche, sociali, intercontinentali fortissime. Ha conosciuto pittori, poeti, scrittori, personalità e ha vissuto davvero molte vite pur nei suoi pochi 46 anni di vita. Abbiamo avuto contatti con tutti i musei americani e messicani che hanno sue fotografie, disperse davvero ai quattro angoli del mondo e poi abbiamo incontrato il Comitato Tina Modotti fondato da Riccardo Toffoletti, insegnante e appassionato di fotografia, di Udine, che ha conosciuto Vittorio Vidali, ultimo compagno di Tina. Toffoletti pervicacemente ha continuato a raccogliere tutto il materiale relativo alla Modotti, non solo fotografie, ma lettere, documenti, ecc.
Il Comitato è composto da un gruppo di persone straordinarie (professori universitari, l’erede di Toffoletti, la moglie, ecc.); insieme abbiamo guardato le stampe, la loro qualità e poi abbiamo deciso con il Mudec che sarebbero diventati nostri partner. Loro avevano già fatto la mostra più ampia negli anni ‘70, noi abbiamo fatto una selezione, gli spazi sono più piccoli e noi non volevamo fare una mostra politica o sociologica, ma una mostra fotografica di Tina, che certo non può essere raccontata senza conoscerne la storia.
Quello su cui il Comitato è stato giustamente intransigente è di raccontare i fatti, non cose inventate, perché si è scritto anche troppo su Tina. Le fotografie scelte sono state stampate negli anni ‘70 dai negativi, ai sali d’argento, per questa ragione non sono molto grandi, ma il rapporto con l’oggetto è davvero emozionante.
Il mondo del collezionismo fotografico in Italia. Sul sito della sua agenzia sono in vendita dei preziosi cofanetti con le stampe di alcuni dei fotografi che rappresentate. Vendete e promuovete anche nuovi talenti? Il collezionista italiano è più attratto dall’ acquistare una fotografia che è ormai diventata “icona” (una su tutte, “La ragazza afghana”) o nell’acquistare un’opera si fa promotore e scommette su fotografi emergenti?
l collezionista di fotografia è un collezionista giovane, non in termini anagrafici, ma nel senso che non è nato da molto il collezionismo di fotografia. Occorre essere molto concreti con i collezionisti italiani, proporre delle fotografie non volubili e che provengano da autori con una storia consolidata.
In merito alle mostre, qual è l’atteggiamento e la collaborazione del settore pubblico?
Non sono molto presenti, al momento. Secondo me ci arriveranno.
Molto spesso i musei in Italia sono gestiti da enti privati; Civita, Electa, Sole24ore per fare qualche nome. Ci sono ad esempio case editrici che fanno anche mostre, per poi pubblicare cataloghi.
È difficile interfacciarsi con il pubblico. A noi capita con le Regioni, se si tratta di raccogliere documentazione. Ad esempio con McCurry abbiamo fatto un lavoro meraviglioso con l’Umbria, che gli ha commissionato una serie di posti da fotografare in regione. Ne è uscito un libro, andato esaurito, e una mostra che ha avuto uno straordinario successo di pubblico. Noi abbiamo preteso che la mostra fosse a pagamento, per valorizzare il lavoro del fotografo e tutti i proventi sono stati devoluti alla restaurazione di un’opera d’arte di Raffaello custodito in Umbria.
Ci sono ancora collezionisti come Guido Bertero?
Sì, ci sono, spesso attorno a dei temi. È un settore in crescita, per fortuna. Come crescono i visitatori delle mostre di fotografie, che spesso avvicinano il collezionista, proprio perché ha occasione di vedere una stampa direttamente appesa al muro e valorizzata.
Considerate le tante attività di Sudest57, quale di queste è più difficile in Italia, quale la più sfidante e stimolante?
Sono difficili tutte in Italia! Perché mancano i fondi, ci sono tante voci, gruppi dei quali non facciamo parte. Noi però cerchiamo di fare delle proposte diverse, cosa che è una sfida e nello stesso tempo uno stimolo. Non abbiamo mai avuto paura.
Un’ultima domanda. Nel suo percorso, dopo avere visto migliaia di fotografie, propende più per un’idea della fotografia come documento, testimonianza o, piuttosto, come arte?
La vedo un po’ come Erwitt o la Modotti.
La fotografia per me merita di essere tale in quanto fotografia, non deve imitare altre arti.
Noi abbiamo avuto tutto un tempo di affermazione della fotografa in quanto fotografia documentale e oggi, da quindici anni a questa parte la fotografia viene usata per mettere in scena altre cose, come medium. Io in realtà sono per la fotografia in quanto tale e vale se è una buona fotografia.
Ringraziamo ancora Biba Giacchetti per la passione del suo racconto.
L’agenzia Sudest57, fondata da Biba Giacchetti e Giuseppe Ceroni.
Sito del Mudec, Milano.
Luisa Raimondi