Intervista a Stefano Unterthiner

Stefano Unterthiner, nato nel 1970 in Valle d’Aosta, si appassiona di fotografia sin dall’età di 17 anni; laureatosi in Scienze Naturali e successivamente ottenuto un Ph. D. in zoologia in Scozia, intraprende la carriera di fotografo naturalista.

Vincitore di numerosi premi in questo campo (compreso il World Press Photo per la categoria “Natura”, o, più volte, il riconoscimento di “Wildlife Photographer of the Year”), dal 2009 lavora su incarico del National Geographic.

Lo incontro in occasione della inaugurazione della mostra che celebra i 10 anni di collaborazione con il magazine, “On assignement”, in corso dal 14 Dicembre 2019 al 2 Giugno 2020 presso il Forte di Bard, Valle d’Aosta e ad una successiva visita guidata personalmente dal fotografo.

In apertura della sezione “About” del suo sito Stefano dichiara: «uso la fotografia per portare le persone più vicino alla natura», raccontandoci delle storie. I modi possibili per farlo sono tanti, ma Unterthiner sceglie sempre quello in cui la bellezza non è mai delegata soltanto a quella, indiscutibile, della natura fotografata, ma anche a quella dell’immagine, che ottiene con un’accurata scelta compositiva e che non può lasciare senza fiato non solo l’appassionato di natura, ma anche quello di fotografia.

Non è cosa da tutti. È infatti questa sua capacità che allontana definitivamente da noi l’impressione della cattura, del surrogato della caccia, come a volte accade per la fotografia naturalistica; ci avvicina piuttosto a quella del dipinto del sublime, in un circolo virtuoso, tuttavia, che ci riporta nuovamente all’incanto della natura. Perché è lì che il fotografo vuole condurci.

Attualmente Stefano è impegnato insieme alla famiglia in un nuovo progetto relativo alla crisi climatica in atto, “Una famiglia nell’Artico”.

Il titolo del tuo libro e della mostra in corso al Forte di Bard significa “su committenza”, trattandosi dei tuoi dieci anni in collaborazione con il National Geographic. Vuoi raccontarci come si svolge questa collaborazione? È la rivista ad indicarti il progetto da affrontare, o l’iniziativa parte da te? Quanto interviene il photo editor del magazine nella scelta finale del servizio da pubblicare: è una collaborazione o il parere finale spetta al photo editor? La consapevolezza di un photo editor nel tuo processo lavorativo ha cambiato il tuo approccio alla fotografia? Ti ha tolto libertà di espressione o, al contrario, ti ha aiutato a raccontare ancora meglio?

Inizialmente sono io a proporre un progetto, perché ritengo sia importante lavorare su delle storie che mi appassionano; insieme al mio photo editor preparo dunque un “proposal” che invio in redazione per l’approvazione, cui segue tutto il lavoro di campo. A seconda del tipo di progetto e della durata generalmente sono previsti dei confronti intermedi su quanto scattato fino a quel momento; quando è terminato il progetto, propongo il “my edit”, cioè la mia selezione personale: una traccia per il photo editor che necessita di conoscere il punto di vista di chi ha vissuto la storia e che ne terrà conto per arrivare alla sua scelta; si giunge infine all’editing finale grazie ai pareri del direttore della fotografia e del Chief Editor.

Il processo per il fotografo è piuttosto doloroso, perché a volte foto cui tiene tantissimo vengono scartate o, al contrario, altre che ritiene più banali finiscono stampate a doppia pagina. In realtà nel corso degli anni ho imparato a comprendere anche la visione più complessiva e certamente meno emotiva del magazine, perché noi fotografi siamo molto influenzati dall’aver vissuto il momento dello scatto. Dal confronto tra la mia professionalità e quella degli editor, tra il mio sentire e le loro richieste come committenti ne esco sempre molto arricchito.

Esistono delle caratteristiche, degli standard richiesti, sotto il profilo tecnico per una fotografia naturalistica destinata alla pubblicazione? Lo chiedo perché nelle tue foto io apprezzo molto la libertà espressiva che fuoriesce dalle tue competenze tecniche e di linguaggio: i tagli compositivi a volte azzardati, l’utilizzo del mosso, dello sfocato. Sotto il profilo fotografico sono accorgimenti di incredibile potenza per restituire un’immagine di notevole bellezza; lo sono altrettanto sotto il profilo scientifico, o questo aspetto non è così stringente in questo genere di fotografia?

Per quanto il mio lavoro sia appartenente ad un genere fotografico, la libertà espressiva è certamente possibile. Posso realizzare foto artistiche, personali e creative, o altre più rigorose sotto il profilo scientifico, ma quello che per me è importante è raccontare una storia e quindi cerco di realizzare un progetto dove tutto quadra. Quello che a me piace fare, quando posso farlo perché ho un incarico, la motivazione ed anche la disponibilità economica, è mischiare tutti questi ingredienti: l’approccio artistico, scientifico e giornalistico. Dosarli in modo bilanciato mi permette di ottenere quella storia potente che riesce a fare emozionare, a informare e denunciare nello stesso tempo.

L’elemento che fa la fotografia per me è l’inquadratura; la composizione è lo specchio del fotografo, del suo modo di vedere le cose.

Quando sono molto fecondo, concentrato sul mio lavoro, io provo sempre a creare delle immagini che non annoino prima di tutto me stesso e che siano stimolanti per me; uno dei limiti della fotografia naturalistica è proprio la classicità e staticità del racconto, io cerco invece delle inquadrature che siano meno noiose, senza tuttavia dimenticare che il mio scopo è fare divulgazione e documentazione, non arte pura e fine a sé stessa.

@Stefano Unterthiner - cortesia dell'autore
@Stefano Unterthiner – cortesia dell’autore

 

 

@Stefano Unterthiner - cortesia dell'autore
@Stefano Unterthiner – cortesia dell’autore

 

@Stefano Unterthiner - cortesia dell'autore
@Stefano Unterthiner – cortesia dell’autore

La verità in fotografia, dici, non è facile, per questo per te è essenziale essere onesti. La tua post-produzione infatti non snatura mai gli scatti originali; immagino che sia tipico della fotografia naturalistica produrre immagini a colori. Non hai mai provato la tentazione di fare del bianco e nero? Escludi che possa essere funzionale al tuo raccontare?

Non lo escludo ma in effetti in questo momento non è funzionale, come ti anticipavo nella precedente risposta, al mio scopo ed anche alle richieste della mia committenza. Sono molto legato a quello che faccio ora, inserire un diverso approccio come, ad esempio, la fotografia in bianco e nero dovrebbe trovare una giustificazione profonda, un cambio di direzione che al momento non sento di voler intraprendere.

La stampa. Per te è un modo per riappropriarsi della fotografia prodotta, come un oggetto tangibile, da tenere tra le mani. Nella tua “Little Wild Gallery”, ai piedi del Forte di Bard e aperta nel 2010, si possono acquistare i tuoi libri, stampe in grande formato, ma anche più piccole e quindi più accessibili sotto il profilo economico: credo che questo sia parte del tuo grande desiderio di divulgare le tue storie, attraverso un oggetto comunque sempre prezioso, come una stampa fine-art. Qual è il riscontro del tuo pubblico? Credi ci sia più interesse da parte dell’appassionato di fotografia o da parte dell’appassionato di natura? Sono forse “tempi duri” per entrambi? 

La Gallery è stata decisamente una scommessa, sono piuttosto rare in Italia, soprattutto quelle naturalistiche, ma è stata una bella sorpresa.

Più che l’appassionato di fotografia, è stato piacevole scoprire l’interesse delle persone che per la prima volta si affacciavano alla fotografia naturalistica ed anche all’acquisto di una stampa fine art.

Questo trovo sia un modo bellissimo e alternativo per condividere le mie immagini e per continuare a fare il mio lavoro.

Il cliente peggiore è forse proprio il fotoamatore, spesso più interessato all’acquisto di workshop e viaggi fotografici, per essere colui che realizza le immagini, piuttosto che godere della stampa di una fotografia realizzata da un altro.

Io sono invece molto contento che le stampe della Gallery vengano apprezzate dagli amanti della natura, perché è in fondo questo il mio scopo ultimo: divulgare l’amore per la natura; riscontrarlo nelle persone è dunque estremamente soddisfacente.

Per i tuoi libri ti appoggi ad una casa editrice piccola, la Ylaois che ha una filosofia molto particolare: dalla cura di dettagli, all’utilizzo di carta FSC e inchiostri realizzati con materie prime rinnovabili; dalle edizioni limitate con stampe fine art, alla devoluzione di parte di ricavato a progetti di conservazione. Produzione evidentemente di nicchia. Questa scelta è solo volontariamente di direzione, o in effetti le grosse case editrici non erano interessate a pubblicare i tuoi libri in questa chiave?

Io ho lavorato con la più grossa casa editrice francese, ho fatto un libro con Contrasto, ma gli editori a volte accettano compromessi a scapito del lavoro del fotografo, mentre io desideravo fare esattamente l’opposto: vorrei che il mio lavoro, realizzato sul campo in uno, due anni, sia confezionato al meglio e secondo la mia visione e non definito da scelte commerciali e meramente economiche; dalla scelta della copertina al formato, dal tipo di carta alla qualità di stampa e il numero di pagine. Siamo spesso andati in direzioni opposte: con l’ultimo libro “On assignement” abbiamo addirittura ingrandito il formato anziché diminuirlo, con “Il sentiero perduto” abbiamo aumentato lo spessore della carta, realizziamo edizioni limitate. Naturalmente anche la nostra casa editrice deve far quadrare i conti, ma il prodotto desidero che sia fatto al meglio.

Ai fini divulgativi come ti rapporti con i social network?

Sono il mio tallone d’Achille. So che un suicidio tecnologico ora non è possibile, ma a volte davvero vorrei fare a meno dello smartphone; i social network non mi appartengono come modo per condividere, li trovo piuttosto superficiali. Prediligo mezzi di comunicazione come quotidiani, libri, televisione. A volte uso i social network in maniera un po’ impulsiva come quando devo denunciare notizie che mi indignano; in questi casi senza nessuna ambiguità esprimo il mio parere istintivamente tramite i social (come la legge sui lupi in Valle d’Aosta o l’uccisione dell’orso polare la notte di Capodanno alle Svalbard).

Al termine della visita alla tua mostra al Forte di Bard, ho avuto modo di vedere il video montato da tua moglie Stephanie. In molte occasioni ti ho visto proprio a ridosso dell’animale, in mezzo agli animali, a contatto con loro. La mia riflessione prende spunto da un libro di John Berger che ho letto, “Perché guardiamo gli animali?”, un saggio che indaga e si interroga sulla modalità di coesistenza tra uomo e animale nel corso della storia. Ti riporto un estratto dal capitolo che si intitola come il libro e che a sua volta cita la prefazione di un libro fotografico sugli animali: «Ogni fotografia durava in tempo reale meno di tre centesimi di secondo: queste immagini sono molto al di sopra della capacità dell’occhio umano. Ciò che si vede in queste pagine è qualcosa che non si era mai visto, perché è totalmente invisibile»; Berger aggiunge: «L’ideologia sottesa è chiara: a essere osservati sono sempre gli animali. Il fatto che essi possano osservare noi ha perso importanza. Gli animali sono oggetto del nostro sapere in costante ampliamento. Ciò che scopriamo di loro è un indice del nostro potere, e dunque un indice di ciò che ci separa da loro. Più li conosciamo, più sono distanti.» Io ho trovato per questo assolutamente particolare che tu ti lasci osservare dagli animali mentre li fotografi e questo ribalta, per certi versi, l’idea, forse stereotipata, che il fotografo naturalista debba nascondersi e allontana ancor di più il senso di “cattura” come una sorta di caccia fotografica, trasformando la tua presenza tra loro da un elemento di disturbo ad un elemento di profonda connessione con l’animale, in un mondo, quello attuale, che li vive come marginali. Ti riconosci in questa mia riflessione? Cosa ne pensi?

Penso che sia azzeccatissima la citazione «più si conoscono e più si allontano».

In realtà io comincio ad avvicinarmi agli animali tramite lettura di articoli, ma quando sono sul campo, sì, cerco l’accettazione da parte dell’animale. Mi lascio osservare, poiché nel corso del progetto mi vedono tornare e ritornare per fotografarli, fino al punto in cui, sono certo riconoscano proprio me. Per cui c’è una sorta di inclusione nel gruppo. Nel mio caso, proprio perché cerco l’opposto, non sento allontanarsi gli animali, perché non sono li conosco, ma soprattutto cerco di diventare conosciuto a loro.

Certi momenti di contatto con gli animali, quasi borderline, non li ho mai cercati, provocati, ma sono arrivati, come momenti speciali, come piccoli premi per me.

Naturalmente occorre fare molta attenzione, in alcuni casi, come con i primati, si rischia di trasmettere delle patologie, ad esempio; quindi è corretto non passare alle persone il messaggio che si possa entrare in contatto con l’animale in modo indiscriminato.

Nel suo libro “Sulla fotografia” Susan Sontag, parlando delle immagini che ritraggono la sofferenza, afferma che l’eccesso di fotografie di questo tipo rischia di «anestetizzare», salvo poi ritrattare la sua stessa tesi in suo successivo libro “Davanti al dolore degli altri”. Nel tuo nuovo libro, “On assignement” ed. Ylaios, tu citi un fotografo di guerra: «Le mie immagini non cambieranno il mondo, ma almeno non potevamo dire che non sapevamo» e in questa frase mi pare di leggere un tuo comprensibile scoraggiamento rispetto a quanto dichiari nell’About del tuo sito, ma nelle tue fotografie tu continui meravigliosamente a mostrare la bellezza della natura. Credi sia dunque questa la chiave giusta per smuovere le coscienze? Sarà diversa la tua produzione presso le Svalbard?

Ad essere sincero, ci credo sempre meno; in realtà non sono mai stato tra quelli che sbandieravano la fotografia come elemento indispensabile per innescare un cambiamento, non penso che la fotografia possa in effetti cambiare le cose; può far riflettere, anche le masse talvolta, ma spesso poi dimenticano quello che hanno visto. Alcuni possono invece ricordare, possono andare oltre, ma sono solo piccoli miracoli se un fotografo insieme ad altre persone, come scienziati o giornalisti, riesce davvero a migliorare le cose.

La situazione è abbastanza scoraggiante, non so se dipende dall’età, da quello che ho vissuto e visto, però faccio fatica ancora a credere che ci sia una fotografia che debba esser fatta e che sia più forte di un’altra. Trovo che certa fotografia, quella più celebrativa, che ho fatto, che farò, sia forse più per me che per gli altri, mentre quella di denuncia, quella più giornalistica è a sostegno di quelle persone che poi in prima linea si devono battere quotidianamente per aiutare gli animali e la natura.

Credo continuerò ad approcciarmi alla fotografia in entrambi i modi anche se forse quello che mi appassiona di più è quello di tipo giornalistico, che racconta e documenta quello che sta accadendo.

Sì oggi siamo sommersi da immagini, il bombardamento mediatico ha, in effetti, diminuito la sensibilità; non esiste una ricetta, una parola definitiva; in questi anni la fotografia ha certamente dato qualcosa, ma se valutiamo lo stato delle cose, la conservazione della natura, non ha cambiato molto, anzi la fotografia è diventata più popolare ma in realtà ha solo promosso se stessa, non i contenuti che voleva raccontare. La fotografia è diventata consumo. Attraverso la fotografia si crea consumo, attraverso i viaggi ad esempio.

Nonostante il National Geographic alle mie spalle non è sempre facile riuscire a fare passare anche i contenuti.

La malattia più diffusa dell’essere umano è forse l’ignoranza, ma occorre andare avanti: per questo mi trovo molto nella frase che hai citato del mio ultimo libro. Io voglio essere impegnato a raccontare storie, piuttosto che a fare belle fotografie. Ci sono fotografi che dicono «la mia fotografia fa sognare», a me piacerebbe dire che la mia fotografia fa anche svegliare. Ci vogliono entrambe le cose.

Parlaci infine del tuo progetto “Una famiglia nell’Artico” e dei tuoi progetti per il futuro.

È un progetto ancora totalmente aperto, che può prendere direzioni varie che al momento ho solo intravisto. Funziona e funzionerà se riusciremo a lavorare con una squadra e a trovare i partner che ci permettano di fare quello che abbiamo in mente, cioè da una parte contribuire alla comunicazione del cambiamento climatico, dall’altra continuare a fare quello che mi appartiene, quindi raccontare l’Artico, la natura in questo posto meraviglioso che sognavo di visitare.

Sto sperimentando anche altri generi come il ritratto, per dar voce a persone che non sono in prima linea, ma stanno facendo esperienza di cambiamenti rilevanti qui e possono raccontarci la loro opinione.

Con i fondi mi piacerebbe anche realizzare un video, un po’ come quello del “dietro le quinte” realizzato in occasione della pubblicazione di “On assignement” [il video è visionabile nelle sale della mostra omonima al Forte di Bard] per documentare il progetto.

In questo momento occorre passare dalle parole ai fatti, a volte ho pensato addirittura anche di allontanarmi dalla fotografia. Desidero dare un esempio, anche per i miei figli.

Questo momento è un momento di dubbi, di crisi anche per quello che posso fare con il mio lavoro e più hai idee “fuori dalle righe” più diventa difficile trovare i fondi. A me però piacciono molto le sfide e questo progetto serve molto a me e mia moglie Stephanie proprio per capire quale sarà il nostro futuro ed il nostro passo successivo, per darci anche un’identità al di là della fotografia. La Natura certo sarà sempre la nostra guida.

 

Luisa Raimondi