Dal 2003 fotografo per l’agenzia Reuters, Tony Gentile ha iniziato la propria attività nel 1989 a Palermo, la città dove è nato nel 1964. Ha lavorato per un quotidiano locale siciliano e con l’agenzia fotografica Sintesi di Roma, che gli ha permesso di pubblicare le sue fotografie sui migliori magazine esteri. Nel 1991 incomincia a collaborare con la Reuters e l’anno successivo, durante il “Chia award for photographic and television news”, ha ricevuto il premio per la famosa fotografia dei giudici Falcone e Borsellino.
Perché hai scelto di fare il fotoreporter?
Credo sia stata una scelta istintiva, quasi naturale. Ricordo perfettamente che all’età di 7/8 anni realizzavo la macchina fotografica con i mattoncini Lego. Poi attraverso un parente, il mitico zio Angelino, cominciai a frequentare l’ambiente professionale della cerimonia e lì iniziai a conoscere meglio gli strumenti. Ma la vera passione per il reportage arrivò durante gli anni del liceo, tra la fine degli anni 70 e i primi dell’80, quando, per via dell’impegno politico e civile che coinvolgeva molti di noi giovani siciliani, mi nutrivo di pane e giornale L’Ora e sulle pagine di quel giornale vedevo quotidianamente pubblicate le fotografie di Letizia Battaglia e Franco Zecchin. Quelle foto ci hanno trasmesso grande sensibilità per le tematiche dell’antimafia ma anche una speranza, l’idea che anche attraverso il foto-giornalismo si potesse combattere e resistere alla brutalità della mafia. Poi i due fotografi li incontravo spesso durante le manifestazioni, io dietro uno striscione e loro davanti a me a fotografare, e mi affascinavano tantissimo. Sì, credo che io abbia scelto di fare il fotoreporter proprio per loro.
Nella tua carriera, cosa senti che ti abbia formato maggiormente?
La strada. Ho studiato sempre da autodidatta, sia la tecnica fotografica che i libri dei grandi fotografi. Oggi è tutto più facile con internet ma anni fa non era così semplice trovare libri di fotografia, conoscere i grandi fotografi o anche quelli meno grandi ma i cui lavori erano straordinari. Io spesso, non potendo permettermi l’acquisto di costosissimi libri di fotografia, passavo delle ore nelle migliori librerie di Palermo a sfogliare i volumi e poi magari compravo qualche libro nelle bancarelle dell’usato. Ancora li conservo. C’era una bellissima collezione sui Grandi Fotografi, e con i risparmi ne ho comprati parecchi: Cartier Bresson, Ferdinando Scianna, Elmut Newton, Luciano D’alessandro, Donald McCullin e altri. Ma la strada sicuramente è stata la maestra, scattare, scattare, scattare. Credo sia la cosa più formativa. Confrontarsi per strada con la gente, con le storie da raccontare.
Quando segui un evento, pianifichi di seguire una storia o cerchi di coprire la notizia? Come convivono i due obiettivi nella pratica del lavoro?
Io ho sempre amato la fotografia di cronaca, di news si direbbe oggi, e ho avuto la fortuna di fare il lavoro che amavo. Ho cominciato a lavorare per un quotidiano e non c’era tanto tempo a disposizione. In quegli anni le notizie a Palermo si susseguivano e molto spesso erano notizie che avevano un rilievo nazionale ed internazionale e la mia produzione veniva pubblicata anche sulle maggiori riviste nazionali ed internazionali. Anche oggi che lavoro per Reuters, un’agenzia di stampa internazionale, il mio pane quotidiano è la notizia. Realizziamo anche delle storie di approfondimento ma certamente i nostri tempi sono sempre abbastanza corti, i progetti a lungo termine per noi sono quasi impossibili. In ogni caso però quando andiamo a coprire molte delle nostre storie di attualità cerchiamo di pianificare al meglio le cose. Sicuramente devo conoscere bene la storia, i fatti o i personaggi. Prendere i contatti, organizzare gli spostamenti, la logistica e poi fare le foto, editarle e trasmetterle. Tutte cose che scritte così sembrano molto semplici.
Il fotogiornalismo dev’essere descrizione pura della realtà? Può esistere giornalismo e foto-giornalismo obiettivo? L’occhio di chi scatta non è un filtro del racconto?
Questa è una antichissima questione, mai definitivamente risolta. Io parto dal presupposto che sicuramente l’occhio di chi scatta è un filtro ma dipende da cosa e come filtra. Credo profondamente nel giornalismo obiettivo e non di parte. Quello che racconta la verità e non un punto di vista sulla realtà. Un giornalismo che serva a fare comprendere le cose alla gente e non ad indirizzarli su una direzione o un’altra. Poi esiste anche un giornalismo di opinione, e va bene anche, ma non bisogna mischiare i piani. Se fai foto-giornalismo e lo fai passare per giornalismo puro obiettivo ma poi modifichi palesemente le tue foto con photoshop (ma anche in camera oscura) drammatizzando situazioni che nella realtà non erano drammatiche hai fatto giornalismo di opinione, assolutamente legittimo, ma che ha bisogno di essere dichiarato in quanto tale altrimenti rischia di essere fuorviante e l’informazione che si vuole dare alla gente non è corretta. Ma è una vecchia storia complicatissima da districare.
La tua foto di Falcone e Borsellino è un’icona. Invece di mostrarli in ruoli istituzionali o nella scena della strage, il tuo scatto mette in luce la loro complicità e amicizia. È questo il segreto della fotografia secondo te? Raccontare storie che sono dietro ai fatti? L’uomo dietro al ruolo?
Se avessi conosciuto il segreto della fotografia… Non so. Io credo che le fotografie spesso hanno destini inimmaginabili al momento dello scatto. Sono sempre frazioni di secondo troppo brevi per poter immaginare ragionamenti complicati dietro le fotografie. Leggendo interviste o biografie di grandi fotografi ho scoperto come molto spesso dietro una grande foto ci sono una serie di casualità che si sono concretizzate indipendentemente dalla volontà del fotografo. E probabilmente il bello della fotografia spesso è proprio quello, ovvero che le fotografie possono avere differenti vite. Nascere, morire, poi rinascere e magari rinascere ancora nell’arco di tanti anni.
Tra tanti fotografi, solo tu hai fatto quello scatto: cosa guida il tuo lavoro? Cosa ti colpisce?
Quella sera eravamo in tre fotografi. Io sinceramente ricordo solo quello che ho fatto io, come mi sono mosso, cosa ho scattato. Solitamente non guardo gli altri. Ma guardando poi, a distanza di tempo, le fotografie dei colleghi mi sono accorto che quella foto l’ho fatta solo io. Le altre hanno un’altra dinamica, composizione differente, a volte anche luce differente. La mia credo abbia un equilibrio più completo e per questo credo sia stata scelta più spesso delle altre per raccontare l’amicizia di Giovanni e Paolo. Il mio lavoro è guidato dall’istinto e dall’attimo. Quella sera sono stato colpito da quel gesto e certi gesti si percepiscono solo se stai attento, altrimenti li vedi in ritardo o nelle foto degli altri. Solo se stai attento e concentrato puoi pre-vedere alcune fotografie. Piazzarsi velocemente davanti ad un tavolo, inquadrare mettere a fuoco e scattare non sono cose estremamente facili o casuali. Le devi prevedere e realizzare e non stiamo parlando del 2017 con i mezzi tecnologici a disposizione oggi, parliamo degli anni 90, analogico, pellicole ecc. La difficoltà Bressoniana del cogliere l’attimo sta proprio in questo, l’attimo è troppo veloce e bisogna prevederlo, anticiparlo, se vuoi fare una buona foto e tutto questo non si ottiene per caso ma per istinto o per mestiere.
Cosa significa essere l’autore di una foto icona, celebre nel mondo? Ti ha cambiato?
Sentimenti contrastanti, un vortice di sentimenti contrastanti, troppo difficili da elencare tutti. Da una parte il privilegio di avere nel tuo archivio una fotografia che sta e sarà nei libri di storia. Dall’altro il peso di essere spesso identificato solo con un’immagine, come se il tuo lavoro di quasi 30 anni non fosse esistito. Per fortuna non è sempre così. Personalmente non credo mi abbia cambiato come persona.
Nonostante l’esperienza, la fama ed i successi, c’è una foto che sogni di scattare?
Sinceramente no. Ci sono belle foto di colleghi che mi sarebbe piaciuto scattare io ma sono molto fatalista, non credo che si debba correre appresso alle fotografie ma fare bene il proprio mestiere sulle storie che ti si presentano giorno dopo giorno. Io devo dire di essere stato anche un poco fortunato durante la mia carriera perché mi sono spesso trovato in situazioni particolarmente interessanti e magari ne ho approfittato per fare delle buone foto, o forse no.
I visi di Falcone e Borsellino sorridenti hanno scosso le coscienze, in un momento terribile per il nostro Paese. Tu questo lo hai capito subito?
Dicevo prima che le fotografie possono avere diverse vite e la mia foto ne ha avute almeno 4. La prima volta nasce la sera del 27 marzo quando la realizzo. Quella sera ho la percezione precisa di avere fatto una buona fotografia di Falcone e Borsellino e che sicuramente i giornali compreranno. I due giudici erano all’attenzione delle cronache giudiziarie di quegli anni e le loro foto erano molto richieste nel mercato dell’editoria pertanto sapevo perfettamente di avere fatto una buona foto, ma niente di più. 57 giorni dopo, il 23 maggio, la mafia uccide Falcone e quella fotografia cambia vita, adesso è l’immagine di un uomo sconfitto ma che passa il testimone al suo migliore amico, e questa è la seconda vita. Passano ancora 57 giorni e cosa nostra fa saltare in aria Borsellino e quella foto rinasce ancora, il suo significato cambia, i due amici restano uniti nella vita e anche nella morte, terza vita. La quarta vita arriva più tardi, nel 1993 quando la gente che scende in piazza per ribellarsi alla violenza della mafia la adotta come vessillo della legalità, come simbolo di un riscatto, come icona della speranza. Chiaramente sarei bugiardo se dicessi che tutto questo io lo avevo capito la sera del 27 marzo, non era possibile per nessuno.
So che ce ne è stato anche un uso illegittimo. Il diritto d’autore non è salvaguardato a sufficienza? Quali sono i problemi dietro la tutela delle immagini?
Le questioni sul diritto d’autore sono complesse e legate ad un’assenza di cultura fotografica in Italia, nonostante l’Italia abbia avuto e abbia ancora grandissimi fotografi. Ma in sintesi credo ci sia una grossa carenza legislativa in ambito di diritto d’autore e fotografia. Occorrerebbe mettere mano a delle modifiche di una legge molto vecchia e che non è più al passo con i tempi.
Credi che non ci sia un’etica condivisa, sia riguardo a cosa scattare, sia riguardo l’utilizzo delle foto? Quale soluzione potresti immaginare su questo? Pensi che sarebbe necessaria o che, riferito a cosa scattare, questo imporrebbe una autocensura che limiterebbe l’espressione dell’autore?
Personalmente amo la fotografia proprio perché è libera e pertanto immaginare di stabilire a priori cosa scattare non lo ritengo assolutamente corretto. Sull’etica il discorso è diverso. Sicuramente occorrerebbe maggiore senso etico e deontologico tra i fotografi. Ritengo invece assolutamente grave l’etica dell’editoria nell’utilizzo sempre più diffuso delle fotografie del “lettori”. Credo che in alcuni ambiti questo non debba essere permesso ma l’evoluzione tecnologica in ambito fotografico è stata così veloce che i buoi sono scappati e sarà veramente difficile farli rientrare in stalla.
Cosa si può e cosa non si può mostrare? Quali i limiti? Il dolore? I bambini?
Nessun limite, solo libertà di espressione e la libertà non ha limiti. Sono convinto che un certo tipo di fotografie, se contestualizzate nei media giusti, non debbano essere censurate e il fotografo non deve autocensurarsi, mai. Il fotografo ha un obbligo di fare in modo che la gente sappia, veda quello che non può vedere personalmente. Chi realizza le foto deve poter dire “io te l’ho detto, te l’ho mostrato. Adesso non puoi dire Io non lo sapevo”.
Storytellers VS fotoreporter. Qual è la tua opinione in merito?
Non amo la parola storytelling preferisco chiamarla narrazione. Il confronto/scontro tra le due cose mi sembra stupido. Si può fotografare e raccontare anche con una semplice fotografia e i fotografi, tutti indistintamente, raccontano storie, anche quando fotografano un matrimonio.
Secondo la tua esperienza sul campo, qual è il rapporto tra i fatti e il modo nel quale ci vengono raccontati? C’è più strumentalizzazione rispetto al passato oppure solo maggiore consapevolezza?
Secondo me oggi c’è tanta strumentalizzazione ma non più del passato. Nel passato si era maggiormente vittime della propaganda, oggi per fortuna c’è maggiore consapevolezza, maggiore possibilità di informazione, di distinguere e quindi di formarsi un pensiero libero. Non è facile ma è possibile.
A te cosa piace raccontare? Cosa c’è bisogno che si racconti?
Mi è sempre piaciuto raccontare le storie dei deboli, degli ultimi, dei semplici. Negli ultimi tempi però sto rivedendo alcune mie convinzioni in campo narrativo e non so esattamente dove mi porteranno, ho delle idee ma non ancora del tutto definitive. Una cosa è certa, per me. Non bisogna raccontare quello che la gente vuole sapere ma quello che tu vuoi far sapere, piegarsi alla logica del mercato è tristissimo ma purtroppo necessario molto spesso per la sopravvivenza dei fotografi. Occorrerebbero più spazi editoriali, culturali, espositivi dove si possa esprimerci con maggiore libertà.
Distacco e coinvolgimento: qual è il tuo rapporto con le storie che racconti? Fino a che punto un fotografo può ritrovarsi immerso in una storia particolarmente forte?
Io ho sempre raccontato storie abbastanza veloci che mi hanno difeso dal rischio di restarne particolarmente coinvolto. In linea di principia credo che il buon giornalista debba restare sempre molto distaccato da fatti e persone di cui parla. Il rischio di farsi coinvolgere troppo potrebbe trasformare il racconto da obiettivo in militante e questo farebbe perdere la credibilità che è prerogativa fondamentale di un buon giornalista.
Qual è secondo te il bagaglio tecnico e esperienziale da cui un fotoreporter non può prescindere?
La tecnica nel fotogiornalismo non è fondamentale, una buona foto sfocata è comunque una buona foto. L’esperienza invece può fare la differenza. Parlo soprattutto di un’esperienza umana, nel rapporto con i soggetti e nella conoscenza delle storie che si vuole raccontare.
Federico Emmi