Tutti e tutte possiamo guardare una fotografia, non importa con quale atteggiamento o stato d’animo, se per curiosità o per interesse, sedotti o meno: le fotografie si guardano. Si può anche affermare che una fotografia esiste se qualcuno la guarda, quanto poi esista, quanto poi continui ad esistere, è un interrogativo complicato. Così sedotti dall’immediato e affascinati dal futuro, non sembra esserci molto spazio per il ricordo, per la memoria. Tutti e tutte possiamo guardare una fotografia, possiamo decidere di guardarla, ma difficilmente ci lasciamo guardare da lei.
“La foto mi guardava.” Inizia in questo modo uno dei migliori libri a favore della fotografia, scritto da Katja Petrowskaja, pubblicato da Adelphi nella collana Fabula e tradotto da Ada Vigliani. Un libro unico, come uniche sono le fotografie scelte dall’autrice per capovolgere il paradigma molto utilizzato, quello della narrazione visiva affidata a un certo numero di immagini, il cui ordine mostra la storia, lo storytelling fotografico per l’appunto, dove però non sembra esserci più spazio per la parola. Il pregio di questo libro, pertanto, è quello di offrire una storia per ogni fotografia, è la solitudine del singolo scatto, ma soprattutto l’occasione per iniziare un percorso dove trovano spazio le emozioni, le sensazioni, il ragionamento, le ipotesi, gli interrogativi, l’interpretazione. È un libro della memoria e per la memoria, un libro che va letto lentamente, un libro che stimola l’immedesimazione, la fantasia, la curiosità, è un libro personale e un libro per tutti.
La fotografia guardandoci, ci chiede di fermarci, di lasciare il quotidiano ordinario, di rinunciare alle certezze, per abbracciare l’incerto straordinario; la fotografia nel guardarci ci aiuta a trovare l’altro dentro di noi, storie che non sappiamo vivere, ma che potremmo in qualche modo vivere, realtà lontane, nello spazio e nel tempo, ma che potrebbero essere vicine. Non c’è un percorso definito, programmato, scelto, le fotografie trovano Katja Petrowskaja in diversi modi: sono fotografie del proprio archivio personale come quella della “Chiave d’oro”; oppure fotografie di un archivio altro, di un tempo passato, finito in un mercatino delle occasioni, come “Storia adottata”; fotografie di mostre, di riviste, di libri fotografici, fotografie di un flip book, ma protagoniste sono le parole che si avvicinano all’immagine, descrivendola, in generale e nei particolari, fino ad arrivare alle diverse domande che l’autrice si pone quando la foto la guarda. Così, per esempio, è il caso della fotografia del capitolo “Quando la felce fiorisce”, copertina di uno dei vinili posseduto dalla famiglia dell’autrice, uno dei più belli della collezione: Dove permane la vita? Dove si annida la morte? La vita è rappresentata dal corpo nudo di una bella donna, la morte è nel titolo del quartetto numero 14 di Schubert “Der Tod und das Mädchen”. Il coinvolgimento emotivo è sempre presente, è parte necessaria del dialogo silenzioso con la fotografia, dove è possibile, con il suo autore o la sua autrice, addirittura in questo caso con la modella.
Merita di essere citato il capitolo intitolato “Eyes Wide Shut”, ancora una volta esempio di come le parole e le immagini siano in stretta e necessaria relazione, dedicato al famoso reportage di John Steinbeck Diario Russo con le fotografie di Robert Capa. Quelle fotografie sono spesso presenti alle frequenti retrospettive sul famoso fotoreporter, meno la ragione per le quali vennero scattate, l’autrice ne ha scelta una e la lettura che ne fornisce è di una bellezza poetica incredibile, oltre a proporre un’interpretazione comparata e diversa del lavoro di Capa: «non riesco a separarmi dal pensiero che quest’uomo danzante sia un pendant della più celebre foto di Capa, quella del Miliziano morente».
Questo libro non solo si propone di sottolineare l’importante relazione che c’è tra le immagini e le parole, ma soprattutto evita di stabilire un ordine di importanza. I capitoli sono una selezione di articoli pubblicati sul domenicale della Frankfurter Allgemeine Zeitung, dove la fotografia e il testo condividono lo stesso spazio, a dimostrazione di quanto sia ancora necessaria la carta e un certo tipo di impaginazione. Nel caso del libro sembrerebbe esserci una scelta, quella di dare un ordine, il più delle volte la fotografia viene prima del testo, per quanto è soddisfatta anche la curiosità di chi preferisce immaginare la fotografia attraverso le parole, come nel capitolo “Regina nella catena di montaggio”, per poi confrontarla con quella scattata. In un paio di capitoli, uno dei quali curiosamente si intitola: “Non c’è nessuna foto”, è possibile apprezzare con i dovuti limiti del formato, la probabile o comunque auspicabile impaginazione originale, cioè immagine e testo nello stesso spazio.
Il fascino della scrittura di Katja Petrowskaja, in questi articoli, è proprio nella capacità di coinvolgere i lettori, di farli sentire partecipi, di stimolarli e appassionarli. Leggere la fotografia con questo approccio è innovativo, almeno per la nostra cultura, così attenta a non favorire la contaminazione, pronta a stabilire rigide gerarchie. Al contrario, ne “La foto mi guardava” le fotografie e i testi ricordano i palindromi e, a tal proposito, viene da utilizzare una bella espressione per affermare questo felice incontro tra due modi di esprimersi molto differenti, uno lento, l’altro apparentemente veloce, ed è il titolo di un importante libro pubblicato, sempre da Adelphi, agli inizi degli anni 80 del ‘900, intitolato “la parola dipinta” di Giovanni Pozzi.
A conclusione, nell’epoca delle immagini generate da un testo, sarebbe molto interessante che Katja Petrowskaja provasse a generare una fotografia partendo da quello che scrive di una fotografia, la distanza tra l’originale e il risultato è, con molta probabilità, quello che manca a una macchina: l’umanità con il suo momento decisivo e poetico.
Federico Emmi
Katja Petrowskaja. La foto mi guardava. Traduzione Ada Vigliani
Fabula, 400
2024, pp. 259, 70 fotografie colori
isbn: 9788845938771
€ 24,00