Premessa alla prima serie dei Percorsi intitolata “La fotografia e il mistero”.
Sono dell’opinione che uno dei grandi fattori che determinano il fascino della fotografia sia il suo porsi di fronte al mondo sempre come se questo fosse un’entità estranea con la quale dover fare i conti attraverso lo sguardo. Il fotografo, d’altronde, altro non è che l’uomo divenuto consapevole di trovarsi dinanzi a un segreto: malgrado non sia in grado di comprenderlo, potrà almeno catturarne la sembianza esteriore per continuare a guardarlo.
Di fronte all’obiettivo fotografico tutto possiede, ed è, un mistero: ovvero tutto ciò che l’uomo riconosce come altro da sé, e quindi sconosciuto.
Da questa premessa si può comprendere come la fotografia si possa intendere solo in apparenza come la conquistatrice del terreno di quella che chiamiamo realtà.
Questo, dunque, l’intento del nostro primo “percorso” fotografico: quello di provare a scoprire, attraverso il lavoro di autori più o meno noti, fino a che punto il mondo si sia rivelato vera e propria materia oscura, e in che misura la fotografia sia stata in grado di sondarne le profondità e guardarlo da vicino.
Esiste, nell’infinità circoscritta delle cose che ci accadono, una continuità tale da farci pensare che il passato sia qualcosa di nostro, e che quindi ci appartenga. Ciò che definiamo con questo termine, passato, può essere inteso come un terreno vasto e incerto, soprattutto nel suo rifarsi presente nelle nostre continue visioni. Potremmo dire che ci si manifesta davvero quando abbiamo gli occhi chiusi, ovvero in tutte quelle frazioni di tempo in cui il nostro sguardo passa dalla veglia sul mondo esterno all’affaccio improvviso su quello che è stato, abitando di nuovo per un momento, ombra tra le ombre, l’ambiguo e segreto luogo della memoria.
La genesi del mistero, d’altronde, trova le sue radici proprio nell’abbassamento delle palpebre: myesis, la fase iniziatica degli antichi misteri eleusini, significa appunto “chiudere gli occhi”, azione necessaria per poter entrare nel nuovo spazio della visione autentica, rivelata.
Evgen Bavčar (1946) è un fotografo e filosofo sloveno, residente a Parigi, divenuto cieco all’età di dodici anni in seguito a due incidenti. Celebre internazionalmente per le sue immagini, Bavčar nel suo lavoro ci rende d’un tratto accessibile il mondo che abita sotto forma di proiezioni quasi spettrali. Grazie a lui entriamo, dunque, nell’universo in cui le cose esistono solo se si toccano: la visibilità è un valore che gli oggetti hanno abbandonato in favore del contatto fisico, esperienza sempre erotica proprio perché nata nell’oscurità, come dice lo stesso Bavčar. Il buio delle stanze si fa luminoso attraverso le torce che l’autore usa per illuminare ciò che sfiora, i corpi nudi delle modelle, i cancelli trovati chiusi di notte, le sue stesse mani che “guardano”, e cioè toccano, il significato della forma.
Siamo noi, in questo caso, a essere gli iniziati del luogo dell’ombra, siamo noi a dover ragionare e muoverci a occhi chiusi, a scoprire le nuove sembianze della presunta evidenza del mondo sensibile. «[…] in fondo la fotografia è anche un’arte plastica» ci ricorda Jean Claude Lemagny in un articolo pubblicato su Gente di Fotografia nel 2000, e questo aspetto è evidente nell’opera di Evgen Bavčar. La vista è il senso della distanza, e così la fotografia, che si articola attorno alla separazione fisica tra l’uomo e il mondo, viene qui guidata verso una più profonda presa di coscienza sulle fattezze della materia. Bavčar si deve rifare al suo ricordo del mondo e al nuovo modo che mette in atto per scoprirlo quotidianamente. Cito ancora Lemagny: «È allora che si rivela la potenza interiore di una pulsione visiva che non deve più niente a ciò che si vede, se non a ciò che si è visto». I lampi che tagliano le inquadrature, il modo netto che hanno di insinuarsi in ciò che noi vediamo nelle immagini hanno la perentorietà di chi giunge a una conclusione dopo un lungo ragionare, di chi decifra finalmente la mappa per arrivare a quello che cerca. Così le donne, le strade, i portoni emersi dall’oscurità sono il confine da toccare per conoscere ciò che prima viveva nell’ombra, sono la fine del tragitto della mano che vuole e deve sfiorare l’estraneo, farlo suo per trasformarlo in immagine. Per il cieco, quali siamo noi insieme a Bavčar nel percorso in cui è lui a istruire noi, possiamo dunque dire che l’immagine è la diretta emanazione di tutto ciò a cui arrivano le dita. E il tatto è una moltitudine di gesti, ma non ce ne eravamo mai accorti. Bavčar, infatti, ci mostra come le sue mani, tantissime, coesistano sull’intera superficie di un corpo o di un oggetto, dovendo costruire a pezzi, porzione dopo porzione, l’intero che toccano.

Il cieco non comprende il mondo attraverso la simultaneità della sensazione, per la quale il nostro occhio è stato invece addestrato: l’interezza è una cosa che si conquista a tratti, è l’utopia concreta della conoscenza. Nel 1995 uscì un catalogo sul lavoro di Evgen Bavčar, Nostalgia della luce1, edito da Federico Motta Editore con i testi di Esther Woerdehoff, Lanfranco Colombo ed Ernesto Rossi. Le immagini, senza titolo e scandite in una rigorosa sequenza senza intervalli, sono il nostro portale di ingresso verso il superamento delle impossibilità apparenti della visione negata. Sono quei cancelli chiusi, quei portoni inaccessibili che Bavčar fotografa nella sua e nostra notte, la gabbietta per gli uccelli, la ragnatela illuminata nel nulla che la circonda a diventare i punti cardinali che dobbiamo imparare a seguire per orientarci.


In questo modo impariamo a percepire il nero come un velo che copre semplicemente le cose, senza annullarle, e senza essere l’opposizione all’esistenza, ma una sua insita condizione, una copertura in cui possiamo entrare. In questo processo, la fotografia si fa strumento per la testimonianza del miracolo, dello svelamento finale del segreto del buio, e Evgen Bavčar portavoce della sua riuscita. Naturalmente, Bavčar non può vedere neppure le immagini che realizza. Sono i suoi assistenti e gli amici a descrivergliele in modo che lui possa sommare le informazioni e scegliere quali negativi tenere e stampare e quali no. La vera immagine, forse, è quella che si forma nella sua mente durante lo scatto e dopo le descrizioni dei suoi risultati. Forse, per il solo fatto di vederla con gli occhi, l’immagine perde un pezzo di quella verità mobile con cui si era impressa nell’immaginario del suo autore. Sono più che mai portata a credere, guardando le fotografie di Evgen Bavčar, che la vista possa più facilmente rappresentare un ostacolo e non la principale via di accesso alla chiarezza. Riprendo ancora una volta le parole di Jean Claude Lemagny pubblicate nell’articolo già citato: «Certamente i vedenti possono arricchire e rinnovare la loro immaginazione con tutto quello che essi vedono, ed è immenso. Ma sanno guardare male le immagini che stanno danzando sullo schermo della loro mente.» Il vedente, mi sentirei di concludere allora, è colui il quale pur avendo tutti i mezzi per muoversi nel campo del visibile – la vista e l’immaginazione – non arriva che a guardare di sfuggita e sommariamente la ricchezza che gli si presenta di fronte. Mentre Evgen Bavčar ci indica invece che il cieco può essere colui il quale pur dovendo sacrificare la vista, può arrivare a un’autentica visione liberata. Ciò che è puro nasce spesso da un sacrificio, e il mistero si rivela nel contrario delle logiche. Pare, questo, un severo monito all’uomo che si definisce fotografo e che pensa di vedere.
Nel catalogo Nostalgia della luce è presente un’unica immagine dedicata a un soggetto religioso, una statua di una Madonna con Bambino.

Nella fotografia, la statua è ricoperta dalle mani che ne percorrono la superficie scoprendo i rilievi delle vesti, il profilo dei colli, la proporzione delle due figure. Anche il sacro può essere toccato, conosciuto nei limiti della materia che lo rappresenta: in un’intervista realizzata nel 2011 a Torino a cura di Vincenzo Greco e Vanessa Vettorello (reperibile su YouTube22) non a caso venne chiesto a Evgen Bavčar il suo rapporto con la fede in Dio, che riassunse nella frase «Ho un rapporto intimo. E se dico che ho un rapporto intimo dico che c’è un rapporto, naturalmente. […] Io sono mistico, diciamo, osservo le cose con gli occhi chiusi» citando anche la lettura recente di Giovanni Della Croce. Non è per nulla un caso e va, anzi, evidenziato qualche dettaglio. L’opera più famosa del mistico spagnolo è, infatti, La notte oscura (redatta alla fine del XVI secolo), in cui descrive il percorso che l’anima deve intraprendere per unirsi a Dio. Essa infatti deve uscire da quella che Della Croce definisce la “notte buia” e deve liberarsi del fardello delle pulsioni corporee, così come delle fallaci facoltà dell’intelletto, della memoria e della volontà per potersi avvicinare a Dio. L’immagine della statua citata non può che risultare il contraltare evidente del medesimo viaggio che Evgen Bavčar compie attraversando la notte in cui è stato confinato per arrivare a un contatto con le fisionomie del santo. Nel buio, tutto ciò che appartiene al mondo del ricordo, dell’intenzione e della conoscenza si deve inventare da capo.
Evgen Bavčar è così condotto verso il mistero dell’oggetto sacro lungo lo stesso buio tragitto dell’anima ansiosa di intravedere il volto del Dio, alla fine del quale potrà approdare a una forma, un’immagine. Anche l’ombra, allora, avrà un punto di arrivo, un termine superato il quale si incontrerà il lampo di una torcia e le cose parleranno. Così come anche ogni distanza avrà la sua conclusione, e saranno le mani a raggiungerla.
Carola Allemandi

Note:
- Catalogo pubblicato in occasione della mostra Evgen Bavčar. Nostalgia della luce presso Palazzo Bagatti-Valsecchi, Milano, 1995 ↩︎
- Link intervista: https://www.youtube.com/watch?v=7QYtlSmoN3c ↩︎