Claudio Argentiero si occupa di fotografia da oltre trent’anni muovendosi tra lavori su committenza e ricerca personale. È da sempre interessato al territorio e ai suoi cambiamenti, realizzando immagini per mostre e libri, collaborando con enti pubblici e privati. È ideatore e curatore del Festival Fotografico Italiano, dal 2013 diventato Europeo. Ama la camera oscura ed il bianco e nero. Ha al suo attivo la pubblicazione di numerosi libri. Apprezzamenti significativi sono giunti per il libro “L’anima delle risaie”, un racconto lungo dieci anni alla scoperta di cascine, risaie e mondine tra Vercelli e Novara.
Come e quando è iniziata la tua storia personale della fotografia?
È una storia di famiglia. Mio fratello è un fotografo professionista nel campo della pubblicità. Anche mio padre possedeva una macchina fotografica. A diciotto anni, durante una vacanza, ci ho messo le mani. Da quelle immagini un po’ ingenue è iniziato il mio percorso. Mettendomi alla prova nei primi anni con la fotografia industriale e quella matrimonialista sono approdato a quella che io definisco fotografia culturale sentendola fin da subito profondamente intrecciata con il territorio.
Negli anni ho dato vita a diverse associazioni tra cui L’incontro, destinata in particolar modo ad amatori, Click Art, che includeva diversi professionisti fino a costituire nel 2006 l’AFI, Archivio Fotografico Italiano. AFI ha raccolto sia l’esigenza di creare collaborazioni internazionali sia quella di dare spazio a varie donazioni ricevute sostituendosi forse a un ente pubblico un po’ disinteressato.

L’AFI ha sede in Lombardia, a Castellanza. Quest’anno avete presentato un lavoro che ha come protagonista il Sempione e l’anno prossimo realizzerete una mostra sull’Alto Milanese che coinvolgerà ben ventuno comuni con oltre duecento foto in mostra. Qual è o quale dovrebbe essere il legame tra fotografia e territorio?
Due le parole chiave: scoperta e radici. Mi spiego. Solitamente di un luogo siamo abituati a vedere gli spazi più rappresentativi. Il tuo mondo a poca distanza invece rimane nascosto. Il mio ad esempio è intorno a Novara, è fatto di cascine in abbandono, di lavoro nelle risaie, un mondo estremamente mutevole con l’avvicendarsi delle stagioni. Trovo storie da raccontare girando a piedi, una volta, in inverno sono rimasto bloccato nella neve. Ma questa è un’altra storia. E un rapporto che vive anche di frustrazione perché questa tipologia di lavoro non viene capita dagli amministratori che hanno una visione della città centripeta e proiettata esclusivamente verso la modernizzazione. La documentazione, la salvaguardia di mondi che scompaiono, la memoria, tema su cui lavoro da anni, non sono considerate nella loro funzione sociale di messa in luce di fragilità. Il rapporto con gli architetti, gli urbanisti, i paesaggisti dovrebbe essere un dialogo in costante apertura.

Parliamo della funzione dell’archivio. AFI partecipa a eventi all’estero, in modo particolare in Francia. Siete stati a Marsiglia, Cassis e Arles naturalmente. È quindi un luogo aperto verso l’esterno. Rispetto al tempo è una raccolta del passato o è anche proiettato nel futuro?
L’archivio non è un luogo coperto di polvere, statico, non è un magazzino. È una realtà in continua costruzione ed estremamente contemporanea. Il nostro archivio ha una doppia natura, cartacea e digitale. Oggi contando lastre, diapositive, stampe e file ci avviciniamo a una cifra compresa tra quattrocento cinquecentomila fotografie. La linea temporale va dalla fine ottocento e arriva alla fotografia contemporanea. Senza un archivio moltissimi materiali finirebbero in discarica. La prima funzione dunque è quella di conservare. L’archivio però deve essere anche una realtà dinamica. Molte mostre proposte dal Festival Fotografico Europeo da noi organizzato da 12 anni rimangono di nostra proprietà. Si tratta di fotografia contemporanea e internazionale. Attualmente è in corso un lavoro minuzioso di catalogazione per attivare il sistema Sirbec, una metodologia particolarmente complessa che affiancherà il nostro sistema già esistente. Inoltre l’archivio permette di dare a progetti passati un nuovo sguardo, una nuova forza di racconto. Anni fa realizzavamo lavori per una rivista edita dalla Camera di Commercio girando ad esempio tutte le valli lombarde con grande passione. Oggi queste immagini sono un patrimonio perché sono un meraviglioso racconto in analogico. Aggiungerei anche che è presente una funzione educativa e di conoscenza nei confronti delle generazioni più giovani non solo legata al contenuto ma anche appunto alla tipologia del supporto.
Infine l’archivio potrebbe rappresentare una possibilità di lavoro che permette di accrescere conoscenza, capacità critica e di giocarsi in prima persona. Sei tu che costruisci una storia.
L’archivio è in movimento, esce da queste mura per partecipare ad eventi non solo internazionali.
Penso a Terre di Lombardia che ora rientra anche nel progetto Archivi Aperti, a Filosofarti, al Festival Europeo di Fotografia. C’è anche lo spazio offerto dall’aeroporto di Malpensa. Qui le mostre si rinnovano ogni tre mesi, la prossima sarà agli inizi di febbraio. È uno spazio interessante perché aperto verso l’estero.
Bisogna smuovere la memoria delle generazioni più avanti con gli anni mostrando loro nuovamente come era la loro vita e il loro territorio e trasferire a quelle più giovani un’idea di fotografia non conosciuta. Attiviamo infatti degli stage con le scuole e io inizio ad aprire i cassetti e tirare fuori fotografie.

Recentemente hai presentato il tuo ultimo libro “Busto Arsizio. Una visione discreta” definendolo un lavoro che apre agli spazi. Che cosa intendi?
Questo libro è profondamente legato al territorio. Le fotografie sono state realizzate da me nel 2020. Nebbia, neve, spazi vuoti, poche persone, periferie che anche io stesso non conoscevo in una città che sento molto mia. Ci sono luoghi che oggi non ci sono già più, perché decaduti o demoliti. E già memoria. Una scoperta di spazi urbani, dietro l’angolo, senza bisogno di viaggiare.
Quanti libri ha pubblicato l’AFI? Puoi anticiparci qualcosa sul prossimo in lavorazione?
Siamo arrivati a 52 libri di fotografia. Il prossimo anno a fronte di una donazione importante pubblicheremo un libro di un autore poco conosciuto in Italia, ha lavorato in America per moltissimi anni. Un ritrattista, ma, mi spiace, non posso svelarvi di più.
Valeria Valli


grazie per le immagini che ho scoperto di recente su FB