Emanuela Zuccalà, giornalista, ha alle spalle una lunga carriera come inviata di Io Donna del Corriere della Sera. Ha ricevuto vari premi internazionali fra cui il Press Freedom Award di Reporters Sans Frontières nel 2012 e il Premio Marco Luchetta nel 2021.
Oggi si dedica a progetti multimediali indipendenti tra i quali UNCUT che denuncia la pratica delle mutilazioni genitali femminili. È stato proiettato in dodici Paesi, oltre che al Parlamento europeo e alle Nazioni Unite ed ha ricevuto diciannove premi giornalistici e cinematografici.
È autrice di nove libri, pubblicati in Italia e all’estero,
tra cui “Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre, testimone della Shoah” nel 2005, “Giardino atomico. Ritorno a Chernobyl” nel 2017) e “Le guerre delle donne” nel 2021.
Emanuela, sei una giornalista, una scrittrice, che racconta storie che hanno come protagonista donne attraverso media differenti. Perché questa scelta?
Ci sono arrivata un po’ per caso e, come spesso accade, scelte apparentemente casuali acquistano significato a distanza di tempo. Ho lavorato per tanti anni per Io Donna, il settimanale femminile del Corriere della Sera. All’epoca i femminili erano dei veri e propri newsmagazine con spazi riservati all’attualità, agli esteri, alle inchieste. Come inviata ho avuto dunque la possibilità di affrontare tante tematiche dal punto di vista femminile appassionandomi anche al racconto del mondo e dell’Italia. Come ho scritto nell’introduzione al mio ultimo libro “Le guerre delle donne” siamo ancora molto indietro rispetto alla parità di genere, non esiste nemmeno nei paesi scandinavi che hanno indicatori migliori rispetto ai nostri. Le donne hanno ancora molta strada da percorrere per affermare i loro diritti.
Quest’ultima è una tematica che affronti particolarmente nel tuo ultimo libro, “Le guerre delle donne”, pubblicato lo scorso anno da Infinito. Quali sono le guerre che hai voluto mostrare?
Questo libro è uscito quando ancora la guerra nel continente europeo non era presente, di conseguenza questa parola, guerra, ci risuonava in testa in maniera differente. Racconto guerre sia reali sia metaforiche. Il libro è composto di trenta capitoli. Ogni capitolo racchiude la storia di una donna o di un gruppo di donne sparse per il mondo. Cerco di mettere a fuoco una battaglia. Ad esempio in Brasile ho incontrato Maria da Pena, una donna rimasta invalida in seguito alle violenze subite dal marito. È riuscita a sottoporre il suo caso alla corte americana per i diritti umani e ha ottenuto un risultato importantissimo per le e le sue connazionali. Non solo il marito è stato condannato, ma è stato imposta al Brasile l’emanazione di una legge contro la violenza domestica. In altri capitoli affronto guerre vere. Non sono una giornalista di guerra, ma mi è capitato molto spesso di andare dove i conflitti hanno lasciato tracce profonde come nei campi profughi in Africa oppure in Giordania. Ho incontrato alcune giovani rifugiate siriane con i loro sogni, i loro ricordi terribili. Un altro capitolo racconta del nord est della Nigeria dove agisce il gruppo terroristico Boko Haram che ha come tratto caratteristico il rapimento in massa delle ragazze dalle scuole. Ho parlato con alcune di loro che erano state ridotte a schiave sessuali. Mi hanno raccontato il tentativo di tornare a vivere. In questo libro c’è molto dolore ma il suo scopo è di mostrare le battaglie di queste donne, quel trovare nuovi significati all’esistenza facendo diventare la sofferenza vissuta un motore di cambiamento per loro stesse e per tutte le donne della loro comunità.

Che legame c’è tra questo libro e il tuo documentario “La scuola nella foresta” che affronta il delicato argomento delle mutilazioni genitali femminili in Liberia? In molti Paesi africani sono punibili per legge. Qual è la situazione in Liberia?
La Liberia è uno dei pochi paesi rimasti in Africa dove è ancora legale la mutilazione genitale femminile. È una tradizione arcaica che attraverso il taglio dei genitali esterni vuole segnare il passaggio della donna dall’infanzia all’età adulta. Non si tratta solo di un’amputazione, è una negazione del piacere sessuale che provoca molte conseguenze sanitarie causando un danno permanente all’organo riproduttivo. Le donne liberiane che si battono contro questa pratica sono costrette a farlo in clandestinità perché la società vuole mantenerla.

Il legame tra il documentario e il libro è molto stretto perché all’interno di quest’ultimo c’è un capitolo che si intitola proprio “La scuola nella foresta”. La scrittura mi ha permesso di raccontare con più respiro e dettagli la storia di Lucy, che naturalmente è un nome di fantasia. Il documentario invece dà voce a tre donne liberiane. Due delle tre donne che ho intervistato mi hanno chiesto l’anonimato per paura delle conseguenze che avrebbero potuto subire. A una di queste due, appunto Lucy, ho voluto dedicare un capitolo del libro. È stata lei a chiedermi di raccontare la sua storia.
Spesso capita, anche in contesti diversi, che le donne inizialmente siano restie a parlare. In seguito capiscono che non voglio giudicarle. Ho sempre voluto ascoltare cosa avevano da dire senza preconcetti.

Essere una giornalista donna si è rivelato un vantaggio?
È stato un assoluto vantaggio. Chiedere alle donne di parlarmi della mutilazione genitale che hanno subito in contesti africani, ma anche europei come ad esempio in Francia tra le donne immigrate, è stato possibile proprio perché sono donna. In occasione di un lavoro sulla salute materna in Africa ho assistito a diversi parti. Alcune donne dopo parecchio tempo che frequentavo il loro reparto maternità, mi chiamavano al momento della nascita. Un uomo in quelle società così conservatrici non avrebbe potuto raccogliere questo tipo di storie.
Mi ricordo in Sierra Leone di una ragazza con un pancione enorme. La sua situazione destava allarme a causa del suo stato di denutrizione e a causa della mancanza dell’ecografo. Convinzione generale era che dovessero nascere due gemelli. Era stato programmato un cesareo. Ogni giorno mi recavo in reparto al seguito di un’operatrice sanitaria locale e ogni giorno questa ragazza mi dava appuntamento per il quello successivo. Fortunatamente tutto andò per il meglio con la nascita di un bimbo sano e robusto senza alcuna complicazione per la madre. Si fa presto a gioire in situazioni che non sarebbero gioiose.
“UNCUT” è un progetto a cui lavori da anni e che ha dato vita a una campagna di informazione su questa tematica.
Ho iniziato a lavorarci nel 2015 quando sono riuscita ad ottenere un grant internazionale che ha sostenuto la produzione. Si tratta di un progetto multimediale. Ho viaggiato attraverso vari paesi dell’Africa realizzando una serie di pubblicazioni giornalistiche, due cortometraggi, un web documentario, una mostra di Simona Ghizzoni esposta anche al Paramento Europeo. Con Simona ho iniziato il progetto, mentre la parte sulla Liberia mi ha visto collaborare con Valeria Scrilatti.


Lavori come freelance oppure su commissione? Quali i motivi della tua scelta?
A un certo punto ho preso una decisione che a seconda dei punti di vista può essere considerata folle o coraggiosa. Mi sono licenziata da un posto fisso perché volevo fare video, documentari. Sono un po’ uno spirito libero e anche questo può essere positivo o negativo. Desideravo essere libera di stabilire la mia agenda con tutti i rischi del caso. Non mi riferisco solo a quelli di lavorare come libera professionista ma anche a quello di lavorare con tematiche che interessano sempre meno ai giornali con alcune eccezioni.
Se non fossi quello che sei, se dovessi cambiare professione, come ti immagini?
Sarei una cantante di rhythm & blues, soul e forse anche jazz. È una passione che ho sempre coltivato. La musica è qualcosa riesce a calmarmi. Mi riconcilia con me stessa al ritorno da questi viaggi.
Valeria Valli
www.infinitoedizioni.it