Abbiamo il piacere di avere come nostra ospite Valeria Lobbia, fotografa ritrattista professionista che nel 2020 ha vinto l’oro al WPI Italy per la categoria Children Portrait. Nel 2022 si è posizionata tra i quattro finalisti del prestigioso premio internazionale “The Societies of Photographers” nella categoria “ritratto creativo“.
Quando è iniziata la tua personale storia della fotografia?
Amo la fotografia, è una passione che mi accompagna da sempre. Mi ricordo gli album dell’infanzia, la cura che ha avuto mia madre nel collezionare – ante litteram – istanti preziosi della nostra quotidianità di famiglia. Con il tempo ho sviluppato un interesse per tutto quello che riguarda le arti visive e il mio percorso accademico nell’ambito dell’architettura mi ha permesso di approfondire molti aspetti del visuale e di avere un primo approccio alla fotografia.
All’epoca si fotografava in analogico e ricordo, con affetto e nostalgia, gli esperimenti di sviluppo della pellicola in vasca da bagno, nell’appartamento di Mestre che occupavo insieme ai miei compagni di facoltà da studente. Già da allora, negli anni 2000/2005, sentivo una fortissima attrazione per il mondo magico della fotografia, ma non ero assolutamente consapevole che essa sarebbe diventata il centro del mio interesse artistico e lavorativo. E’ stato l’avvento del digitale a darmi modo di sperimentare in maniera massiva la tecnica fotografica, perché mi ha concesso di sbagliare più e più volte a costi contenuti e allo stesso tempo di sperimentare ogni ambito della fotografia: dalla paesaggistica alla macro fotografia, dall’astrofotografia alla ritrattistica.
Dal 2008/2009 la mia ricerca è stata del tutto personale e, da autodidatta, ho cominciato a studiare la tecnica fotografica e a concedermi degli spazi vitali di sperimentazione. Nel 2011 ho poi deciso di abbandonare la mia carriera di architetto per dedicarmi a tempo pieno alla fotografia professionale e da allora la crescita ha avuto modo di autofinanziarsi grazie al lavoro stesso; ho cominciato a selezionare sempre con maggior cura il mio reale ambito di interesse e ad affinare tecnica e cuore in quella direzione.
Crescere a ridosso dell’Altopiano di Asiago e ai boschi cari a Mario Rigoni Stern, ha avuto qualche influenza positiva, di ispirazione, sulla tua creatività quando crei le tue ambientazioni?
Sono molto legata al mio territorio, noi “montanari” abbiamo un legame particolare con la nostra terra ed è per questo che, nonostante le limitazioni che derivano dalla scarsa raggiungibilità del nostro territorio e dalla dimensione più che provinciale in cui viviamo, difficilmente l’asiaghese si trasferisce in città. Se accade, è una scelta che si compie per necessità e con grande nostalgia.
La qualità della vita in Altopiano è meravigliosa, tutto è raggiungibile in poco tempo, i figli possono crescere in una dimensione serena dai ritmi rilassati e si ha sempre modo di rigenerarsi a contatto con la natura. L’elemento naturale gioca un ruolo fondamentale nella mia visione artistica e, senza ombra di dubbio, le mie montagne e i boschi di Mario Rigoni Stern sono parte integrante del mio background visivo e culturale. Ritrovo elementi della natura soprattutto nei colori dei miei ritratti e, a volte, riproduco la sensazione fiabesca che si percepisce nei boschi all’interno del mio studio, andando a reperire frasche e pigne. E’ una dimensione onirica e fiabesca che nasce dal mio contesto e che emerge nei miei lavori.
La decisione di trovare un secondo studio a Milano ha invece carattere pragmatico: avevo bisogno di un punto di appoggio facilmente raggiungibile da ogni parte d’Italia, sia per i corsi che per i clienti privati. Ma come dice Mario Rigoni Stern: “Essere di casa tra le cose e nel mondo che vivi. Questo è «patria». E infatti anche a Milano, tra le mie luci, con i miei set e i miei colori riesco a portarmi dietro le mie radici e finisco per sentirmi comunque a casa.
I fiamminghi, maestri indiscussi del dettaglio, studiavano le angolazioni della luce, quando è stato il momento in cui ti sei ispirata a loro?
Quando ho capito che in realtà i primi “fotografi” sono stati loro! Il 1600 è stato un periodo storico molto importante nelle Fiandre, di fioritura economica senza eguali grazie al commercio navale. La classe media, fatta di ricchi mercanti, si stava sviluppando e affermava la propria autorità attraverso il ritratto d’autore. Quest’ultimo infatti è sempre stato storicamente uno status simbol a cui solo nobiltà e clero potevano ambire, anche se sembra banale pensarlo in quest’epoca in cui il selfie è a portata di click. I pittori fiamminghi sono stati in grado di cogliere questa volontà “popolare” concentrando la loro attenzione sul soggetto; il calvinismo e il puritanesimo come culture dominanti ne hanno dettato le scelte di stile, imponendo sfondi scuri e abiti molto rigorosi.
Cos’altro restava come mezzo espressivo e di stile se non la cura maniacale e la ricerca della luce perfetta? Questo è il concetto fondamentale che avvicina i fiamminghi ai fotografi di ritratto: la luce. Non il contorno, non l’outfit, ma solo il rapporto tra pittore/fotografo, luce e soggetto. Studiare la storia dell’arte mi ha permesso di formare il mio immaginario visuale e anche di comprendere i motivi storici che stanno dietro ai vocaboli che oggi i fotografi usano correntemente. Se c’è uno schema luce che si chiama Rembrandt un motivo ci sarà!
Il cosiddetto schema di illuminazione Rembrandt è un punto di partenza o un punto di arrivo nella tua fotografia di ritratto?
Sicuramente è uno schema molto affascinante, ma decisamente un punto di partenza. Amo sperimentare con la luce e ogni shooting diventa un momento di verifica e apprendimento di nuove conoscenze nel campo dell’illuminazione fotografica. E’ importante gettare solide basi e studiare gli schemi di luce tradizionali, ma trovo ancora più affascinante addentrarsi nella materia per scoprire nuovi modi di illuminare. Conoscendo come lavora la luce ci si può davvero sbizzarrire nel creare situazioni nuove, sorprendenti e accattivanti a partire da pochi principi chiave. La soddisfazione più grande è poi imparare a comprendere davvero bene le gerarchie di illuminazione, magari aggiungendo più luci al set con precise funzioni per ottenere dei risultati specifici. Personalmente provo un piacere indefinibile nel padroneggiare la luce, nel creare dal nulla un’atmosfera!
Una formazione tecnica, come può essere quella di una Facoltà di Architettura, può allontanare dalla creatività, non è il tuo caso, ma quanto di quegli studi oggi ti aiutano nella composizione dei tuoi scatti?
Questa è una domanda che mi sono sentita porre molte volte nella mia carriera da fotografa, soprattutto all’inizio quando ho deciso di abbandonare la professione di architetto per dedicarmi totalmente alla fotografia.
La mia formazione di base è sempre stata per ferma volontà, sia dei miei genitori che mia, ad “ampio spettro”: ad Asiago esisteva solo il liceo scientifico e, nonostante le materie scientifiche non mi abbiano mai fatto impazzire, l’ho frequentato con soddisfazione e ancora oggi traggo giovamento dagli insegnamenti che allora magari mi sembravano assurdi o poco adatti alla mia mente creativa. Scegliere la facoltà di architettura mi è sembrato un buon compromesso tra la formazione che avevo maturato al liceo e le doti espressive che sentivo sempre vibrare dentro di me. Ancora oggi faccio tesoro degli studi maniacali di composizione di forme, di equilibrio e di pesi nell’immagine che derivano principalmente da quel percorso. Il mio viaggio nella storia dell’architettura è stato molto stimolante e mi ha permesso di confrontarmi e maturare in parallelo la mia smisurata passione per l’arte.
Maternity e Motherhood sono due delle categorie fotografiche da te sperimentate, c’è dietro la volontà di affrontare con le immagini il tema antropologico della genitorialità femminile?
Dietro alla mia volontà di raccontare la gravidanza e la maternità di una donna c’è proprio l’esperienza diretta che ho avuto come donna io stessa e la ferma volontà di regalare alle mie clienti delle immagini iconiche, che sappiano trasmettere con eleganza questo momento così importante della loro vita. Mi piace pensare alla fotografia come una cara amica, probabilmente la mia migliore amica, perché mi ha accompagnato nelle fasi più importanti della mia vita: quelle in cui ho dovuto crescere, diventare adulta, prendere decisioni scomode, fare due figlie, crescerle e curare la famiglia (sì, c’è anche quella!).
In tutte le fasi più importanti della mia vita la fotografia è stata al mio fianco, mi ha dato forza, è cresciuta con me e io con lei. Infatti, in questo preciso momento della mia vita sento di essere cresciuta: le mie figlie stanno diventando piano a piano delle donne, i problemi da affrontare sono diversi rispetto a quelli di anni fa e la fotografia che propongo è cambiata.
Ora i temi che affronto durante le consulenze e le sessioni di ritratto femminile riguardano spesso l’autostima, l’empowerment femminile, il bisogno che sente una donna di regalarsi un momento di pausa e centrare il focus su sé stessa dopo aver dedicato una cospicua parte della sua vita alla famiglia o al lavoro. Oggi, a più di 40 anni, ho pensato a un servizio dedicato alle donne come me, che hanno i miei stessi sogni, i miei dubbi, le mie paure e i miei obiettivi.
Per riuscire nella fotografia di ritratto occorre avere o comunque applicare una buona dose di empatia, quanto questo può stancare psicologicamente chi sta dietro la macchina fotografica?
L’empatia e la capacità di comprendere le ragioni più profonde che spingono una donna a volersi regalare un’esperienza di ritratto determinano a mio parere il 90% dei risultati che si possono ottenere, dal punto di vista tecnico, artistico e di customer care. Bisogna considerare un grande sforzo in fase iniziale per eseguire un ritratto; infatti, nel mio flusso di lavoro prevedo sempre una consulenza pre-sessione per conoscere la mia cliente e capire quali sono le sue priorità, le sue paure e i suoi desideri. Col tempo la consulenza pre shooting si è arricchita di nuovi servizi, ad esempio la consulenza di armocromia che aiuta a definire quali sono i colori capaci di esaltare al meglio l’incarnato della pelle di ogni persona.Tutto ciò va ad arricchire l’esperienza della cliente, rinforza la sua fiducia e contribuisce a demolire le naturali barriere che si hanno sempre quando ci si confronta con persone che non conosciamo. Inoltre, mi aiuta a collezionare delle informazioni utili a proseguire il viaggio verso la costruzione di uno shooting cucito su misura della singola persona.
Parlando di post-produzione, quanto è importante e necessaria nel tuo lavoro, inoltre, pensi che abbia superato la tecnica fotografica?
Nel mio caso postproduzione sì, ma con parsimonia. La postproduzione è uno strumento a disposizione del fotografo, sta a lui decidere bene come usarla. Photoshop, infatti, non risolve problemi legati a errori commessi in fase di scatto, la foto deve nascere perfetta già in camera perché nessun programma di ritocco può ovviare a una cattiva gestione della luce, a un posing sbagliato, o a un make up non curato. Lighting, posing, scelte di outfit e makeup infatti devono essere impeccabili e lavorare in sinergia per far uscire al meglio il soggetto. La postproduzione in fotografia non può superare per importanza la tecnica fotografica, perché altrimenti c’è il rischio di non poter più parlare di fotografia in senso stretto. Esistono dei meravigliosi artisti visuali che fanno lavori strepitosi partendo dalla fotografia e stravolgendola con l’uso di software di ritocco, ma in quel caso si tratta più di arte visuale che di fotografia.
Una volta che abbiamo lo scatto perfetto possiamo andare a migliorarlo con la postproduzione, a volte necessaria per portare il ritratto ad un livello superiore quando ci sono gli strumenti per farlo. L’importante è non andare a modificare troppo l’immagine o a farlo in maniera non appropriata.
Le scelte che guidano la mia postproduzione sono tutte legate a ragionamenti di tipo conservativo e di valorizzazione. Per un ritrattista è importante che la pelle conservi inalterata la sua texture, vado quindi a lavorare sulle discromie e, a seconda del tipo di progetto, posso decidere di accentuare l’effetto pittorico già creato in camera, se noto delle linee non perfettamente sinuose posso leggermente intervenire sulla forma, ma non mi sposto molto da questi interventi.
Molti studenti sono incuriositi dalla mia postproduzione, ma in realtà è molto meno di ciò che si pensa, il ritratto nasce praticamente già così in macchina. I software che utilizzo sono i classici Lightroom per lo sviluppo del file e Photoshop per la fase del ritocco, ma non nego che sono affascinata da Capture One (prima o poi approfondirò il suo utilizzo!).
Quanto è importante conoscere la storia dell’arte per chi intende fare il fotografo oggi?
Dipende, io sono sempre dell’avviso che la fotografia è affascinante soprattutto perché lascia la libertà ad ognuno di interpretarla come desidera, ed è il motivo per cui ho scelto di insegnare, ben consapevole del fatto che dietro al click deve esistere un background culturale, artistico di un certo tipo se si vuole raggiungere determinati risultati. La storia dell’arte per me è importantissima, vengo da una famiglia che mi ha educata al bello fin da piccola, facendomi respirare arte sia in casa che al museo. Il ricordo delle gite con mia mamma a Palazzo Grassi a Venezia mi accompagna ancora oggi e ci ripenso sempre con grande gratitudine e nostalgia. Le sono grata per avermi immersa nel mondo dell’arte e per aver stimolato la mia sensibilità in varie fasi della mia vita, sicuramente c’era anche una propensione naturale alla base, ma averla saputa cogliere e coltivare nel mio percorso lavorativo è stato fondamentale. Anche per quanto riguarda l’ispirazione, è importante saperla cogliere dai maestri di storia dell’arte, per non incorrere nel rischio di creare copie di copie in un mondo in cui siamo bersagliati dalle immagini.
Che cosa è la bellezza in fotografia per Valeria Lobbia?
La bellezza salverà il mondo.
Sono un’inguaribile romantica, nel vero senso della parola, e mi riferisco proprio al movimento artistico che si sviluppa e parte dal ‘700 in contrapposizione alla razionalità dell’illuminismo. Durante il Romanticismo al centro dell’opera si pone l’emotività, la fantasia, l’immaginazione e l’individualità dell’artista. Già Platone nell’antica Grecia sosteneva che “Kalos Kai Agathos” ossia che bello è buono: per dirla con altre parole, dove c’è bellezza lì c’è anche la bontà più pura, o meglio Dio.
Proviamo a calare questa affermazione nei giorni nostri: non è forse vero che la bellezza della natura sa consolare dagli affanni della vita quotidiana? E che si trova piacere andando a vedere una mostra d’arte?
Nel mio percorso personale di donna e di fotografa ho deciso di dedicare la mia vita alla ricerca della bellezza nelle persone, bellezza che si cattura in uno sguardo o in un moto interiore. Lo faccio perché sono convinta che, una volta trovata, questa bellezza potrà produrre solo cose buone, che produrranno a loro volta altra bellezza, in un infinito circolo virtuoso verso un mondo migliore.
Questa ricerca della bellezza e dell’armonia viene condivisa con il mio soggetto, non avviene in astratto dentro qualche angolo imperscrutabile della mia mente. Infatti, l’esperienza di ritratto comincia molto prima dello shooting vero e proprio e si sviluppa attraverso un appuntamento di consulenza in cui la mia idea di bellezza si incrocia con quella del soggetto. Questo mi permette di innescare quel processo creativo necessario per sviluppare l’idea.
Se la fotografia potesse essere divisa in tre momenti: mirare, premere il pulsante di scatto, vedere il risultato, quale di questi tre momenti ti entusiasma di più?
Amo la parte progettuale e visionaria del processo fotografico, per questo motivo ho deciso di dedicare molto tempo e cura per sviluppare progetti unici sulla persona. Questa programmazione maniacale dello shooting, che deriva probabilmente dal mio percorso accademico, è però funzionale a tutto il processo, sia a me come fotografa sia alle mie clienti. In altre parole, progettare tutto in anticipo e nel miglior modo possibile mi lascia la tranquillità, in fase di shooting, di dedicare tutte le mie attenzioni alla cliente, facendole vivere un’esperienza davvero esaltante e potenziante.
Di solito viene rispettata la scaletta e faccio sempre quello che avevo progettato? No assolutamente, c’è un ampio spazio per l’improvvisazione quando arrivano le idee giuste al momento giusto a contatto con le persone giuste. Ma ciò che mi fa davvero vibrare il cuore è immaginare gli scenari attraverso i quali quella determinata persona possa essere valorizzata, in base a ciò che mi ha raccontato in consulenza, in base alla mia empatia e al percorso mentale che ho costruito per e insieme a lei.
Federico Emmi