Nostos. Intervista a Pamela Barba

Pamela Barba, pugliese, classe 1985, è una fotografa indipendente. Si interessa principalmente di fotografia sociale, documentaristica e didattica. È molto attiva anche sul fronte delle associazioni che si occupano di fotografia. È autrice di libri e reportage.  

Come e quando è iniziata la tua storia personale della fotografia? 

Credo che chi affronta la fotografia in un certo modo abbia sempre avuto questa passione innata. Si tratta di qualcosa che ti porti dentro anche nell’osservare il mondo. Ricordo che fin da piccola amavo sfogliare gli album di fotografia. Cercavo di capire che significato avesse il trascorrere del tempo. Dunque credo di avere sempre avuto la passione. Usavo molto le macchinette usa e getta. Crescendo, ho iniziato ad addentrarmi in questo mondo dedicandomi alle letture, soprattutto di grandi fotografi. In seguito acquistai la prima vera macchina fotografica a pellicola per poi passare negli anni successivi a quella digitale. Circa dodici anni fa quando sono arrivata in Lombardia ho inaugurato un percorso personale fatto anche di approfondimenti, conoscenze, amicizie, incontri. Ho partecipato come volontaria ad alcune associazioni fotografiche. Ho lavorato come assistente per un fotografo. Con il tempo inizi a renderti conto di quale sia l’ambito in cui ti senti più preparata e con la giusta carica per affrontare un dato argomento. Sicuramente all’inizio mi capitava di fare molta sperimentazione, anche a livello artistico. Non sono partita con il reportage. Ogni tanto ancora oggi mi piace sperimentare, ma l’ambito in cui mi sento più a mio agio con me stessa è dove sono a contatto con le persone. Può essere la ritrattistica o le storie sociali. La fotografia sociale è la mia missione a trecentosessanta gradi. Mi spiego. Questo tipo di fotografia non significa per me solo andare a documentare, ma anche lavorare con diverse comunità attraverso dei laboratori ad esempio. Non sono concentrata solo a stare sul campo, voglio mettere tutta la mia esperienza anche in una sfera più pratica che torni utile agli altri. 

© Fulvio Francone, Portrait

Dunque quanto è importante per te l’empatia con l’altro quando ti trovi a realizzare un ritratto o a raccogliere una storia scomoda? 

L’empatia è il punto cardine di quando affronti questo tipo di fotografia perché ti permette di andare oltre quello che tu vedi. Se devo raccogliere delle testimonianze o avere un dialogo, necessariamente devo ottenere fiducia e creare un certo tipo di rapporto tra fotografo e soggetto. L’empatia è fondamentale, non può mancare assolutamente, ma non basta, deve essere accompagnata dall’etica, dal rispetto verso l’altro. Per me questa è la professionalità. Inoltre l’empatia è da gestire, può rivelarsi facilmente anche un tranello, una trappola. Non ci si deve far trascinare troppo dalle emozioni altrimenti si rischia di perdere il filo del discorso, di smarrire il controllo della situazione. 

© Pamela Barba, Essere Vicini è Fantastico

Intendi la giusta distanza? 

Si. Dicono che siamo portatori della verità. La verità assoluta è impossibile da raccontare, ma se vuoi seguire una linea professionale e riferire quello che tu hai osservato deve essere per forza così. Serve appunto quella distanza che ti permette di avere un occhio sensibile, ma nello stesso tempo oggettivo. 

Tu sei pugliese di origine e hai vissuto per dodici anni in Lombardia. Ho scoperto ora che sei appena tornata in Puglia. Scorrendo i tuoi lavori si ha l’impressione che tu abbia quasi tracciato la rotta di un nostos, di un viaggio di ritorno, fatto di immagini e storie. Mi riferisco ad esempio ad “Oro Nero” in cui protagonista è la millenaria pratica della mitilicoltura a Taranto o, ancora, a “Soffia il Vento. Racconti di Resistenza e Contraddizioni”, uscito proprio recentemente per Les Flâneurs Edizioni, in cui narri di Taranto e l’ex ILVA insieme ad Alessandro Capurso. Com’è nato questo progetto, qual è il punto di vista? 

Quello che tu chiami ritorno alla mia terra ha fatto sì che mi indirizzassi su alcune tematiche tra cui questa che riguarda Taranto, in particolare il quartiere Tamburi, quello più martoriato dalla questione ex Ilva. Sono sempre stata molto curiosa dei fatti che riguardano la mia terra, molto interessata a vederli in prima linea per capire il nocciolo della questione a livello sociale. Mi importa cogliere il modo in cui le persone a livello di comunità reagiscono a queste problematiche.

©Pamela Barba, Soffia il Vento

È partito tutto dalla voglia di conoscere e di capire. Questa nello specifico è una questione che si trascina da tanti, troppi anni. Quello che possiamo trovare sui giornali e sul web è fonte di ispirazione e di informazione, però la sfida è andare di persona. È stato determinante l’incontro con Alessandro, non so se casuale o meno. Entrambi avevamo deciso di occuparci di questa tematica, lui dal punto di vista architettonico, io da quello del tessuto sociale. Abbiamo deciso di unire le due visioni dando vita a un contenuto che raccogliesse in sé gli aspetti emotivi e quelli urbanistici. Come si uniscono persone e territorio? Come sono legati tra di loro? Abbiamo provato a rispondere a queste domande. Il risultato mi soddisfa proprio perché c’è questa sinergia che si allarga anche ai contributi scritti di Alessio Lasta, giornalista di La 7 e Carmela Riccardi, architetto. Di nuovo con loro due abbiamo voluto ricreare questo collegamento tra persone e territorio. La parte scritta è fondamentale in un lavoro editoriale. Era giusto che ci fosse anche una visione terza, esterna, che ci accompagnasse in questo percorso. Questo lavoro lo definisco un’unione di visioni. 

© Pamela Barba, Soffia il Vento

Un altro tuo lavoro è “Vite. Storie di Migrazioni” in cui smonti gli stereotipi sulle migrazioni attraverso la testimonianza di chi ha vissuto questa esperienza sulla propria pelle. Qual è la genesi di questo progetto? Cosa raccontano Nick, Ibrahim, Aries e Sophie? 

Vite nasce da una sorta di esigenza, dal sentirmi vagabonda tra nord e sud Italia. Volevo capire cosa significasse allontanarsi tanto dal proprio paese per diverse motivazioni. Racconto quattro storie, quattro vite. È stato un lavoro faticoso perché non è facile muoversi tra burocrazia e regole che cambiano molto in fretta. Avevo bisogno di punti di riferimento che mi mettessero in contatto con i richiedenti asilo e trovare chi tra loro avesse voglia di raccontarsi. Mi sono concentrata sul territorio di Varese. È stata un’esperienza un po’ diversa perché si è trasformata in una sorta di sorellanza con questi ragazzi. Ho cercato di aiutarli. Ho raccolto la testimonianza di ragazzi provenienti da paesi diversi, dal Togo, dal Mali, dalla Nigeria e dalla Repubblica Democratica del Congo. Ognuno di loro porta il peso di una storia particolare. Chi era oppresso dalla politica del proprio paese, chi è fuggito a causa della guerra, chi invece da situazioni familiari difficili. Sophie ha pagato lo scotto di prese di posizione del marito rispetto alla politica del suo paese. Dopo aver subito una violenza ha rischiato di finire nel giro della prostituzione. Per fortuna è una donna intelligente e lucida ed è riuscita ad evitarlo. Nel momento in cui a Malpensa è stata fermata per via dei documenti falsi, ha subito raccontato la verità. Ora ha un lavoro, studia e si è ricongiunta con la sua famiglia. È una donna tosta. 

Con loro ho fatto un percorso a ritroso. Nell’intervista la mia domanda principale era incentrata su perché avessero deciso di partire, su quali sogni avessero. Nella parte fotografica li ho invece seguiti nella loro quotidianità. Ad esempio con il ragazzo del Togo ho vissuto l’esperienza della sua prima neve. Il ragazzo del Mali l’ho seguito sul posto di lavoro. C’è chi invece  ha preferito non mostrarsi in volto e l’ho documentato in maniera più delicata. Sophie mi ha mostrato la sua vita a Varese. 

© Pamela Barba, Ibrahim

Cosa accomuna queste quattro storie? 

Non so se sia la resilienza o un insieme di testardaggine, caparbietà, coraggio. 

Chi è costretto a cambiare paese, lingua, vita in una situazione di difficoltà è come se dovesse rinascere. 

Il tuo ritorno in Puglia porterà un nuovo sguardo, nuovi progetti? 

Chi fa questo mestiere è in continua evoluzione, anzi rivoluzione. Mi sto interessando a una storia nel Salento che forse potrebbe portarmi in Belgio. Inoltre sto preparando la nuova edizione di “Giazira d’Italia: un editore in bici” un viaggio attraverso librerie dislocate in varie regioni per raccontare libri, autori e la storia della Giazira scritture. 

© Pamela Barba, Giazira d’Italia

www.pamelabarba.it   

Valeria Valli