Roland Barthes e la Camera Chiara

Entrando in libreria e dirigendosi nel reparto “Fotografia” ci si imbatte, come è lecito, in numerose pubblicazioni che trattano di tecnica o che raccolgono le foto ed i progetti grafici di artisti più o meno famosi. Più difficile è trovare libri di filosofia della fotografia (quelli di storia sono solo poco più frequenti), pubblicazioni che aiutino il fotografo anche a crescere interiormente e non solo nell’occhio o nella capacità di produrre un corretto workflow digitale.

La Camera Chiara di Roland Barthes è di sicuro uno di quei libri che non devono mancare nelle nostre biblioteche, qualsiasi fotografo che si faccia domande sul “senso” della propria opera troverebbe un valido spunto ed una base nello scritto di Barthes. Va precisato, come l’autore stesso sottolinea più volte, che Roland Barthes era un semiologo (uno dei fondatori di questa disciplina) e niente affatto un fotografo. D’altro canto chi, come lui, si interroga sul significato dei segni non può esimersi dall’affrontare anche l’argomento della fotografia, “medium bizzarro” a sua detta, che sfugge al particolare ed il particolare insegue.

Interessantissimo il percorso personale all’interno delle fotografie presentate nel libro, la distinzione fra SpectatorOperator e Spectrum (il soggetto, il fotografo e l’immagine scattata), l’osservazione della singola fotografia che in genere è solo studium (nel senso proprio dell’osservazione ragionata del fotogramma) e ogni tanto riesce a presentare uno o più punctum (qualcosa appunto che punge, richiama l’attenzione e non si dimentica più). Inoltre spesso si guarda una foto, e solo dopo giorni ci viene in mente se qualche particolare ci ha “punto”, o addirittura ci rendiamo conto che quello che veramente ci aveva colpito era un particolare diverso.

Di fronte ad una fotografia, Barthes diceva di sentirsi saggio e folle, desiderava essere un selvaggio incolto in modo da poter avere un’impressione totalmente scevra da giudizi e pregiudizi; in poche parole riassume  le varie nature del soggetto fotografico, ad esempio riferendosi a sé stesso, quando viene fotografato è allo stesso tempo:

  • celui qu’il se croit (quello che egli crede di essere)
  • celui qu’il voudrait qu’on le croie (quello che egli vorrebbe che si credesse di lui)
  • celui que le photographe le croit (quello che il fotografo crede che lui sia)
  • celui dont il se sert pour exhiber son art  (quello di cui il fotografo si serve per esibire la propria arte)

Il libro è zeppo di concetti interessanti su cui riflettere, a me ha fatto venire voglia di sfogliare nuovamente i libri di fotografia e soffermarmi su ogni scatto con maggiore profondità, cercando anche di riconoscere ciò che proprio non mi colpisce e non mi piace.

Questo testo è tuttora considerato una pietra miliare della critica fotografica, forse l’uso di certi termini e concetti è da addetti ai lavori e non è qualcosa che si può leggere sotto un ombrellone tanto per capirci; allo stesso tempo però il testo rimane snello ed interessante, ci svela cose che in fondo noi appassionati di fotografia abbiamo sempre portato nel cuore, ci serviva solo qualcuno che le esponesse in maniera così brillante, forse proprio perché non era un fotografo…

Silvio Villa