Davies Zambotti, regista e fotografa, incentra la sua poetica sullo stato d’animo interiore, la distanza, il silenzio, l’ombra, la memoria e le dissonanze, voci che arrivano da lontano e rimangono impresse nei suoi scatti. Nella sua continua ricerca di un invisibile e impossibile “certezza” umana, rovista fra le fessure del quotidiano cercando di portare a galla ciò che vorrebbe rimanere nascosto, ciò che ci rende fragili. Dopo il Liceo Artistico ha studiato Pittura presso l’Accademia Albertina di Torino, Regia e Produzione Audio/Video a Milano e partecipato ad una Masterclass tenuta da Marco Bellocchio, con cui ha collaborato in “Sorelle mai”. Ha lavorato, inoltre, in numerosi set cinematografici, tra cui “I Galantuomini” di Edoardo Winspeare e “The International” di Tom Tykwer. Lavora fra Torino e Milano.
Davies Zambotti, Atlante, 2021 © Davies Zambotti
Come e quando è nata la tua personale storia della fotografia?
L’incontro con la fotografia risale all’infanzia, e si può definire una vera e propria comunione. La fotografia mi ha affascinata da sempre. Mi sono avvicinata ad essa nell’epoca predigitale, grazie a mio padre, quella della pellicola. Per poi consolidare la relazione con questa disciplina alle scuole medie, in cui la fotografia è diventata punto di incontro con l’istruzione e l’apprendimento. Infatti, nella scuola che frequentavo eravamo incentivati ad utilizzarla per esporre determinate sensazioni, eventi, tematiche, dalle ricerche iconografiche sulle chiese barocche ad altri tipi di paesaggio. Da lì, mi sono sentita ancor più legittimata ad approfondire quella che all’inizio era solo una curiosa passione.
I tuoi lavori si snodano tra la fotografia, il video e il cinema. In che modo questi tre differenti ma complementari linguaggi dialogano nella tua pratica?
Il cinema è arrivato subito dopo la facoltà di Belle Arti, dove ho frequentato il corso di pittura. Non più soddisfatta del rapporto spasmodico che avevo con la carta, la grafite, e le chine – le tecniche che allora prediligevo -, è stato un passo quasi naturale, non studiato, quello di rivolgermi alla fotografia per poter dire altre cose. Tuttavia, questo passaggio è durato pochissimo, dal momento che la fotografia si è trasformata subito in qualcosa di più movimentato, incontenibile, irrefrenabile, che mi ha fatto passare al cinema. Ho studiato regia per tre anni, nei quali ho potuto sdoganare e scoprire tutto quello che fino all’Accademia era rimasta solo una passione, e che invece poteva concretizzarsi in una vera professione, qualcosa da scandagliare dall’interno e non lasciare più. Il cinema, e nel mio caso anche la videoarte, sono complementari al mio processo creativo e alla mia ricerca. Sono la mia ricerca.
In alcune delle tue serie fotografiche – Atlante (2021), Metafore Rampicanti (2017), Scomodi dialoghi (2017) – utilizzi un raffinato effetto blur, che da semplice procedimento tecnico si fa linguaggio simbolico. Che significato ha? Ci puoi spiegare questa scelta?
Per me la fotografia, e in questo caso anche il video, si slegano da quella che è la loro forma classica. Ritornando alle mie origini, creo una commistione di più linguaggi, come è evidente quando si guarda alla mia intera produzione. Il blur, in questo caso, il non riuscire a mettere a fuoco, per me è una parte fondamentale della ricerca, del mio percorso di vita: il vedere le cose sotto un’altra prospettiva, sotto un’altra luce, arrivandoci pian piano, dopo aver percorso la nebbia. Questo, quindi, è un filtro metaforico che uso per attraversare i progetti, le dinamiche, le domande, per arrivare non tanto a una risposta, quanto a un approdo. È un modo per legare la domanda al percorso.
Davies Zambotti, Scomodi dialoghi, 2017 © Davies Zambotti
Smetto quando voglio (2015), come altri tuoi lavori, constano di una parte fotografica e una video. Quali sono i passi che segui per dare vita alla tua narrazione?
Di solito i miei progetti partono da una lunga gestazione, un lungo pensiero costante che mi porto dietro anche per anni e che, di solito, si slatentizza nella scrittura, che non pubblico e non divulgo. Si tratta di una scrittura personale. Comunque, si parte dalla parola, dalla scrittura – infatti in alcuni lavori c’è sia un rapporto con la sceneggiatura che con il linguaggio poetico, usato per introdurre il progetto – per far sì che l’immagine riesca a prendere vita. Da qui, di solito, si passa poi a un’immagine fotografica, e solo successivamente al video. Talvolta, anche se l’immagine fotografica nell’effettivo arriva dopo, mi serve come primo approccio per riuscire a ragionare sulla parte video, che non manca quasi mai per toccare tutti i lati che il progetto richiede. Nel video, inoltre, realizzo la parte musicale in autonomia, cercando di creare un suono che sia coerente e specifico a quella che è la ricerca, qualcosa che abbracci tutto il lavoro, per poi tornare alla scrittura. Si crea così un movimento circolare: si parte dalla scrittura, per poi proseguire con una produzione che comprende a 360° immagini fotografiche, video, bozzetti disegnati, per poi tornare alla parola.
Restiamo su Smetto quando voglio. La sua forza espressiva è amplificata da un’oscurità da cui sembra difficile sfuggire, ma soprattutto dal movimento ripetitivo delle mani, quasi fosse impossibile smettere, a dispetto del titolo. Hai voglia di parlarcene?
Smetto quando voglio è un lavoro del 2015, per me fondamentale per attraversare un discorso più intimo sulle diverse possibilità che hanno la verità e la menzogna, due aspetti che convivono dentro di noi. Di solito, infatti, i miei lavori hanno un rapporto uno a uno con sé stessi, quasi una seduta psicanalitica. Chi osserva il video, più che l’immagine fotografica, dovrebbe essere condotto e portato verso una serie di domande su sé stesso. Il lavoro, tuttavia, non vuole suggerire nessuna risposta, in quanto potrebbe essere troppo privata, personale, e rischierebbe quindi di sviare l’elaborazione personale del fruitore. Se ad ogni domanda posta ci fosse una risposta pronta, l’opera perderebbe la sua capacità evocativa.
Davies Zambotti, Smetto quando voglio, 2015 © Davies Zambotti
Molti dei tuoi scatti ritraggono l’ambiente, nelle sue mille sfaccettature, nel suo essere natura e cultura. Quanto è stretto il tuo rapporto con il territorio?
Il mio rapporto con il territorio si può ricondurre alla nascita della mia personale storia con la fotografia. Il luogo in cui sono cresciuta è, infatti, fondamentale per la mia esperienza visiva, tanto che cerco sempre di ritrovarlo, e scoprirlo, come dimostra Landa (2016), realizzato nella mia terra natale. Nella pianura a pochi chilometri da Milano ho passato l’infanzia e i primi anni dell’adolescenza, e qui il rapporto con il paesaggio è stato per me impattante e violento: dove non c’è pressoché nulla, o sembra che non ci sia nulla, è più facile trovare il tutto. In Landa, infatti, le terre si disperdono fino a quasi non toccare più l’orizzonte, creando un luogo in cui ti senti contemporaneamente sia perso che ritrovato all’interno del paesaggio stesso. Rappresentare la natura, soprattutto senza l’essere umano, è sempre stato il punto fondamentale della mia ricerca, e rappresentarlo quasi invisibile all’occhio umano, o comunque mutato rispetto a quello che è il normale paesaggio, è altrettanto fondamentale. Preferisco soffermarmi su un oltre che non abbiamo subito davanti ma che comunque ci appartiene, e che probabilmente è la parte più pregnante di quello che può rimanere dentro.
Davies Zambotti, Atlante, 2021 © Davies Zambotti
Nel progetto Secco (2016), al contrario, i protagonisti sono gli oggetti, in tutta la loro materialità. Ma questa concretezza rimanda a qualcos’altro, e infatti essi sembrano rivolgersi a noi, nella speranza di essere ascoltati e letti in profondità. Che lingua parlano questi oggetti, e cosa cercano di dire?
Gli oggetti per me rappresentano tutto ciò che in realtà siamo. Componendo la nostra archeologia personale e privata, dicono molto di più di quanto pensiamo, o sbadatamente consideriamo. In questo caso sono stati presi in causa per analizzare aspetti più intimi e profondi. C’è un piccolo testo poetico che affianca il lavoro, e la cui parte finale evidenzia il nostro rapporto con gli oggetti. Dice:
secco
come il suono prima della parola
come la differenza fra l’oggetto e la cosa
tra il possesso e la causa
tra la materia e la proiezione
Si passa da una concezione prettamente materiale, a una completamente immateriale, e come in tutti i miei lavori di ricerca si tende a creare un ponte per un viaggio all’interno della nostra parte più inconscia, che spesso tralasciamo nello stesso modo in cui tralasciamo gli oggetti. Anche in questo caso, però, non vorrei dare troppe spiegazioni, a parte quelle che si possono trovare sul sito o nel testo che ho scritto, perché la cosa importante è che si attraversi sempre questo ponte, questo viaggio, nel modo più autentico possibile. Mi auguro che questo lavoro possa far scaturire all’interno di chi lo osserva qualcosa che vada a slatentizzare ciò che è nascosto, ma fondamentale.
Come Smetto quando voglio, anche Secco è composto da una parte fotografica e una video. Riguardo alla serie fotografica, gli oggetti che mostri sono incellofanati, impacchettati come prove di una scena del crimine, posti su una superficie grigia e illuminati da una luce fredda. Che storia raccontano questi oggetti? Come mai hai scelto di impacchettarli?
Secco mi ha dato la possibilità di utilizzare molti linguaggi, nonostante quelli che arrivano a noi si riducano alla fotografia e al video. Tuttavia, all’interno del processo di realizzazione, c’è la fiaba, o altri modi di intendere questo viaggio. Il video è completamente opposto all’immaginario fotografico, risulta più giocoso, e questa sua giocosità estremizza la tensione che si viene a creare in quanto ci sono oggetti che prendono forma, si animano per interpellarci, richiedono la nostra attenzione. Fotograficamente, invece, siamo noi che diamo l’attenzione a degli oggetti. Sono forse morti? Non si sa, è una domanda che vi pongo e che lascio sospesa. Essi si trovano sotto una lente di ingrandimento, in una stanza molto fredda, dove noi possiamo andarli a vedere più da vicino per scoprire il loro messaggio, il loro significato (se c’è), possiamo specchiarci in essi come in un paesaggio, oppure possiamo considerarli come qualsiasi cosa di freddo e irrisolto posto su un tavolo da esperimenti.
Davies Zambotti, Secco, 2016 © Davies Zambotti
Sei anche sceneggiatrice. Nella tua pratica artistica, in che modo il tuo vissuto e sentito personale entra nella scena? Quanto è importante il processo di scrittura?
Il processo di scrittura è fondamentale in quanto i miei lavori nascono tutti da un lungo percorso sia di pensiero che di parola. Giungo al mondo reale attraverso la scrittura. Riuscire a sceneggiare qualcosa significa per me dargli una forma più definita, anche perché tendo molto a lasciare sfumati i miei lavori, in modo che anche altre arti possano entrare all’interno di uno scatto fotografico o filmico. Tuttavia, nel caso della sceneggiatura, essa mi dà modo di modellare più precisamente qualcosa e mi dà la possibilità di far arrivare di più un mio sentito. Tutto parte, infatti, da un atteggiamento privato, che automaticamente si riversa nell’universale; è un privato che io esplico ma che diventa un sentire di tutti, e questo fa sì che il lavoro possa prendere il largo da solo, sia quando è più sfumato, sia quando invece è accompagnato da una sceneggiatura o da piccole parti scritte.
Dopo l’esperienza della pandemia la dimensione dell’attesa, già molto presente nei tuoi lavori, sembra essersi esplicitata, volente o nolente, come condizione universale. Questo ha influito sul tuo lavoro degli ultimi due-tre anni?
La condizione degli ultimi tre anni, che abbiamo vissuto come una piccola prigionia, penso abbia influito su tutti, me compresa, ma non ha intaccato la mia parte creativa, anche perché io ho un rapporto molto lento e riflessivo con le cose. Il tempo è parte della mia creazione, e se non ci fosse la lentezza sarebbe per me come dipingere con dei colori in meno, con uno strumento in meno, con meno preparazione; il tempo è fondamentale e io ho gestazioni davvero lunghe, di un anno o più. Non ho mai avuto fretta. Come il paesaggio, come le stagioni, di cui mi nutro, e attraverso le quali mi esprimo nei miei lavori, non ho fretta, seguo un andamento più temporale che istintivo. Più tempo passa, più le cose prendono forma.
In questo periodo sì di grande precarietà, ma anche di volontà di ripresa, che direzione sta prendendo la tua ricerca?
La mia ricerca volge sempre alla discussione dell’essere umano, alla messa in gioco di noi stessi e al guardarsi dentro. Ritorna l’idea di questo rapporto uno a uno con sé stessi per riuscire a trovare poi una specie di coralità, a stare in essa. Molte volte siamo buttati nel mondo senza riuscire ad attraversare noi stessi. Quindi il mio lavoro verte sempre in questa direzione. Il sentimento che ora mi spinge è quello di realizzare un prodotto filmico più lungo, e magari lavori fotografici più analogici rispetto al digitale. Non per vezzo, ma per un ritorno a un distacco dalla visione immediata – e l’analogico offre questa possibilità -, dall’avere tutto e subito. Anche dalla parte filmica mi interessa qualcosa di più lungo, che abbia più tempo di realizzazione personale prima di arrivare a una conclusione finale, sia da spettatore che da creatore, che da ricercatore.
Concludiamo questa intervista parlando di presente e di futuro, soprattutto perché hai un progetto in fase di realizzazione che si chiama È solo il silenzio. Ce ne vuoi parlare?
È solo il silenzio è un progetto molto importante per me perché va oltre il paesaggio, oltre quello che è semplicemente il guardarsi dentro. In questo caso sono riuscita ad attraversare un tema per me fondamentale, quello della casa, intesa in tutti i suoi aspetti più ampi. Il progetto nasce dopo una gestazione pluriennale. Da tempo sentivo il bisogno di realizzare un lavoro che spingesse una mia parte più intima, autobiografica, a esporsi. In questo lavoro, quindi, cerco di andare oltre al paesaggio che la casa rappresenta e intimamente significa per noi, e da simbolo antropologico di rifugio, essa si fa simbolo più ancestrale di nido, di protezione. Nella realizzazione del lavoro ho iniziato con la costruzione dei modellini di case raffiguranti diverse idee di abitazione, i quali sono stati successivamente incendiati e distrutti – qualcuno completamente, altri solo in parte – per la realizzazione del video e della parte fotografica. Nello smembramento di queste casette tocco il tema dell’azzeramento della casa, restituito nell’opera filmica, dove è presente tutto il passaggio dalla costruzione alla cenere. L’opera sarà accompagnata da un’appendice fotografica, non asettica come poteva sembrare quella di Secco, ma quasi pittorica, in cui il concetto della casa in fiamme viene portato all’estremo. Le piccole case carbonizzate, salvate dall’incendio, rimarranno invece come parte scultorea.
Luna Protasoni
Potete seguire il lavoro di Davies sui seguenti canali:
http://www.davieszambotti.com/