“Un’eredità in movimento: 20 anni dopo il G8 di Genova”; invito alla mostra

«Un altro mondo è possibile!» era lo slogan che univa i partecipanti alle proteste No global, durante il G8 del 2001. Una straordinaria occasione di unione tra movimenti di diversa estrazione in nome della lotta alle conseguenze sociali ed ambientali del capitalismo.

Non fu purtroppo solo l’unirsi di tanti diversi movimenti a caratterizzare quelle giornate, ma anche la repressione violenta delle proteste da parte della polizia, l’uccisione di Carlo Giuliani, le torture a Bolzaneto, la violenza alla scuola Diaz.

Qual è la percezione attuale di quanto accaduto?

I ventenni di oggi cosa sanno di questi accadimenti; qual è per loro la portata dei “fatti di Genova”?

L’Internazionale ha dedicato un intero numero extra al G8 di Genova, ha creato un Podcast (“Limoni”) che ne ripercorre la storia e ha collaborato al progetto “Un’eredità in movimento: 20 anni dal G8 di Genova”, prodotto insieme ad Amnesty International Italia, (il portfolio è inserito anche nel numero extra sopra citato del settimanale), con fotografie del collettivo di fotografi TerraProject e testi di Wu Ming 2.

La mostra ha aperto il 21 Luglio (anniversario della morte di Carlo Giuliani) ed è visitabile sino al primo Agosto al Palazzo Ducale di Genova, ad ingresso gratuito (peccato, aggiungiamo, il poco tempo a disposizione).

Non si tratta di fotografie tratte dai reportage di venti anni fa, ma, come lascia intendere il titolo, il focus punta a ciò che rimane, a chi rimane. 

Un mix tra oggetti rinvenuti a Genova in occasione delle proteste, insieme ad alcuni ritratti odierni dei partecipanti, è ciò su cui hanno puntato le loro fotocamere i fotografi del collettivo.

La scarpa sinistra di Gea T., persa il pomeriggio del sabato durante il corteo, scappando dalle cariche della polizia. Insieme a un gruppo di persone, Gea riuscì a trovare un riparo e tornò in serata a Firenze, senza una scarpa, ma con la paura di essere riconosciuta, individuata e portata in questura. Una sensazione di sentirsi colpevoli e perseguibili senza alcuna colpa effettiva.
La prima macchina fotografica di Edoardo D., nel 2001 studente di fotografia e adesso affermato fotografo. Andò a Genova con un gruppo di amici per fotografare le manifestazioni e per puro caso non si trovò dentro la Scuola Diaz, durante l’irruzione di polizia e carabinieri. Le foto scattate in quei giorni furono il suo primo vero reportage, pubblicato su Diario della Settimana.
Una maschera antigas donata a Laura L. da uno sconosciuto, durante gli scontri vicino a Corso Torino, il 20 luglio. Quel gesto di altruismo le diede coraggio, l’aiutò a respirare e le permise di continuare a scattare fotografie.
Quel giorno, decise di fare della fotografia la sua professione.

La scelta ci è sembrata oltremodo opportuna, da un lato perchè la sensazione è che si tenda a ricacciare nel passato tutto quanto accaduto in quei giorni, quasi mancasse un collegamento con l’oggi, la memoria storica non sembra essere il punto forte della società attuale; dall’altro per dare un volto a coloro che ci hanno provato, che avevano qualcosa da dire e che ancora oggi hanno un progetto portato avanti in nome di quegli ideali. Non è facile per loro raccontare, soprattutto per coloro che hanno subito la violenza nella scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto o tra le strade di Genova. Nel suo libro di recente uscita (21 Luglio) “È così che ci appartiene il mondo. Genova 2001, caserma di Bolzaneto” (Ed. Feltrinelli), Valerio Callieri non nasconde il suo senso di disagio non soltanto nel ricordo di quanto accaduto, ma riflesso anche in un senso di colpa nel raccontarsi.

E’ cosi che ci appartiene il mondo – Valerio Callieri- Ed Feltrinelli, 2021

Per questo è utile puntare gli occhi nello sguardo di queste persone e lasciare che le domande fluiscano, alla ricerca di quelle risposte che ancora mancano o di quelle che, piuttosto, si ignorano.

Luisa Raimondi

Un estratto dal testo di Wu Ming 2:


Circa un anno fa, quando abbiamo concepito questo lavoro sull’eredità di Genova 2001, non avrei mai immaginato che parte di quell’eredità, per qualcuno, sarebbero state ancora le mura di una prigione. Qualcuno che, insieme ad altri, è stato condannato a pene gravissime per il reato di devastazione e saccheggio, cioè per danni alle cose, mentre gli uomini in divisa che infierirono su persone inermi se la sono cavata con molto, molto meno. A fine maggio, Luca Finotti è rientrato in carcere dopo che gli è stato revocato il permesso di scontare la condanna in comunità.
Quel che immaginavo, invece, sono gli effetti a lungo termine che la violenza di Stato, vista o subita, ha prodotto in tutti i nostri soggetti: c’è chi ancora si sente a disagio quando s’imbatte in un poliziotto, chi ha superato la rabbia, ma senza riuscire a cancellarla, e chi non ha potuto, anche suo malgrado, trasmettere ai figli un senso di fiducia nelle forze dell’ordine
.”…