Filippo Cristallo torna a raccontare il Messico, un paese che sembra aver scelto lui tanto quanto lui ha scelto di esplorarlo. Con Mexicans, il suo secondo libro fotografico dopo Día de Muertos, Cristallo ci porta ancora più in profondità, seguendo le tracce di una terra che vive sospesa tra contrasti: bellezza e brutalità, passato e presente, tradizione e cambiamento. “In Messico, la storia e la cultura sono onnipresenti, intessute nel tessuto stesso della vita quotidiana” racconta Cristallo. “Non ho dovuto fare uno sforzo particolare per integrare questi elementi nei miei scatti: erano semplicemente lì, parte integrante di ogni scena.” Questa capacità di cogliere l’essenza di un luogo senza sovrapporsi a esso, lasciando che siano i dettagli e le sfumature a parlare, è uno dei tratti distintivi del suo lavoro. In questa intervista, Filippo Cristallo riflette sul suo percorso e sul legame speciale che ha sviluppato con questo paese, un rapporto fatto di incontri, storie e immagini che non smettono di interrogare chi le guarda. Il Messico che racconta non è mai ridotto a un’immagine da cartolina: è un mosaico di volti, strade e momenti che, insieme, danno forma a una narrazione complessa e autentica.

Puoi raccontarci la tua personale storia con la fotografia? Come hai iniziato e cosa ti ha portato a fare di questa passione una professione?
La fotografia ha sempre esercitato su di me un fascino particolare, sin da quando ero bambino. È stato solo in età adulta che questa curiosità si è trasformata in una vera e propria passione. Il punto di svolta è arrivato quando ho deciso di frequentare un corso base di fotografia qui ad Avellino. È stato come se si fosse aperto un mondo. Ho iniziato a comprendere non solo gli aspetti tecnici, ma soprattutto la straordinaria capacità comunicativa della fotografia. Da quel momento, ho continuato a fotografare senza sosta. Le prime mostre hanno aperto un canale di comunicazione essenziale con il pubblico, offrendo nuove prospettive sui miei lavori fotografici. Ogni nuovo progetto e ogni nuova esposizione è stata un’opportunità per sperimentare e affinare la mia tecnica e la mia visione. Ciò che rende questa passione ancora più speciale è il fatto di poterla condividere con mia moglie Antonella. Insieme, abbiamo realizzato il progetto “Memorie di palazzo”, un’esperienza che ci ha permesso di unire le nostre sensibilità artistiche e di creare qualcosa di veramente significativo. Presentare il nostro progetto “Memorie di palazzo” a Reggio Emilia, nel contesto del festival della fotografia europea nella sezione OFF e al PAN, il museo di arte moderna di Napoli, è stata un’esperienza incredibilmente gratificante.
Cosa ti ha ispirato a documentare la vita in Messico attraverso la fotografia?
Il mio rapporto con il Messico è nato quasi per caso. Mi sono trovato a trascorrere quasi un anno in questo paese per motivi di lavoro. Non avevo un progetto preciso in mente; ero semplicemente guidato dalla mia curiosità e dal desiderio di comprendere questo paese attraverso le immagini. Solo dopo aver accumulato un numero considerevole di scatti ho iniziato a pensare di trasformare questa esperienza in un progetto fotografico coerente. È stato allora che mi sono imbattuto in Il labirinto della solitudine di Octavio Paz. Questo saggio è stato una vera rivelazione. Le parole di Paz mi hanno aiutato a dare un senso più profondo a ciò che avevo visto e fotografato, facendomi comprendere la complessità dell’identità messicana, le sue contraddizioni, la sua bellezza e il suo dolore. Un’altra fonte di ispirazione è stata The Americans di Robert Frank. Anche se le sue motivazioni e il suo contesto erano molto diversi dai miei, il suo approccio mi ha fatto riflettere su come raccontare visivamente un paese e su come catturare l’essenza di una cultura attraverso momenti apparentemente ordinari.

Nel saggio visivo curato da Ricardo Pérez Montfort, le tue fotografie sembrano evidenziare sia la bellezza che la brutalità della vita quotidiana in Messico. Come riesci a bilanciare questi aspetti nei tuoi scatti?
Ho sempre cercato di catturare la realtà così com’è, senza filtri o manipolazioni. La bellezza e la brutalità della vita messicana coesistono naturalmente, intrecciandosi in modi che spesso sfidano la nostra comprensione. I miei scatti sono principalmente spontanei; non cerco di creare situazioni o di mettere in scena momenti. La bellezza del Messico è ovunque: nei colori vivaci dei mercati, nei sorrisi calorosi della gente, nell’architettura coloniale che si mescola con l’arte moderna. Ma allo stesso tempo, c’è una brutalità che non può essere ignorata: la povertà, la violenza, le disuguaglianze sociali. Queste realtà contrastanti spesso coesistono nello stesso frame, creando immagini che sono al tempo stesso belle e inquietanti. Credo che questa coesistenza di bellezza e brutalità sia una parte essenziale dell’esperienza messicana. Non si può comprendere veramente il Messico senza accettare entrambi questi aspetti. Le immagini contenute nel libro cercano di catturare questa complessità, mostrando il Messico in tutta la sua contraddittoria bellezza.
Ricardo Pérez Montfort parla dell’importanza di non incapsulare il Messico in formule prevedibili o banali generalizzazioni. Come riesci a evitare questo rischio nel tuo lavoro fotografico?
Sono pienamente consapevole del rischio di cadere in stereotipi o generalizzazioni banali quando si cerca di rappresentare un paese complesso come il Messico. È una trappola in cui molti sono caduti prima di me, e che ho cercato attivamente di evitare nel mio lavoro. Il Messico è un paese con una storia ricca e complessa che non può essere ridotta a semplici cliché. Ci sono i mariachi e i sombreri, certo, ma c’è anche una modernità vibrante, una scena artistica all’avanguardia, una diversità culturale che sfida ogni facile categorizzazione. Allo stesso tempo, sono consapevole che il mio sguardo è inevitabilmente influenzato dalla mia prospettiva di outsider. Non pretendo di offrire una visione definitiva o completa: sarebbe presuntuoso e impossibile. Quello che spero di aver fatto è offrire uno sguardo onesto e rispettoso, che inviti chi guarda le mie foto a interrogarsi, a voler saperne di più.


Le tue fotografie spesso ritraggono ambienti popolari. Quali sono le sfide principali che affronti nel catturare questi luoghi e momenti?
È stata un’esperienza intensa e spesso adrenalinica. Sì, c’è una nota pericolosità in certe zone, ma devo ammettere che nel momento dello scatto, raramente pensavo ai rischi. Come molti fotografi sanno, la macchina fotografica crea una sorta di scudo psicologico, una barriera che ti fa sentire quasi invincibile. Le vere sfide, più che i pericoli fisici, erano quelle etiche e artistiche. Come catturare la realtà di questi ambienti popolari senza cadere nel voyeurismo o nella strumentalizzazione? Queste sono le domande con cui mi sono confrontato costantemente durante il mio lavoro. E sono domande che continuo a pormi ogni volta che guardo quelle foto. Ma credo che siano proprio queste sfide, questi dilemmi, a rendere la fotografia documentaria così importante.
Hai avuto difficoltà a ritrarre i messicani? Come hai superato eventuali barriere culturali o di fiducia?
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, ho incontrato pochissime resistenze o difficoltà. Solo in rarissimi casi le persone mi hanno chiesto esplicitamente di non fotografarle, e ho sempre rispettato queste richieste. Quello che mi ha colpito di più è stata l’apertura, la generosità e la calorosa accoglienza che ho ricevuto quasi ovunque. C’era una sorta di curiosità reciproca: io ero interessato a loro, alle loro vite, alle loro storie, e loro erano spesso altrettanto curiosi di me. Credo che questa apertura sia stata in parte facilitata dal mio approccio. Ho sempre cercato di essere rispettoso, di spiegare cosa stavo facendo, di mostrare interesse genuino per le persone che incontravo. Non ero lì come un turista in cerca di scatti esotici, ma come qualcuno che voleva veramente comprendere e documentare la vita quotidiana in Messico. Naturalmente, ci sono state sfide culturali da superare. Il mio spagnolo all’inizio era piuttosto rudimentale, e c’erano momenti in cui la comunicazione era difficile. Tuttavia, il linguaggio del rispetto e dell’interesse sincero è universale. Un sorriso, un gesto di apprezzamento, la volontà di ascoltare e imparare possono superare molte barriere linguistiche e culturali. Questa esperienza mi ha lasciato con un profondo affetto e rispetto per il popolo messicano. La loro gentilezza e la loro resilienza di fronte alle difficoltà sono qualcosa che porto nel cuore, e spero che le mie fotografie possano in qualche modo rendere giustizia alla loro straordinaria umanità e accoglienza.

Nelle tue fotografie si percepisce una forte presenza della storia e della cultura messicana. Come riesci a integrare questi elementi nei tuoi scatti?
In Messico, la storia e la cultura sono onnipresenti, intessute nel tessuto stesso della vita quotidiana. Dai quartieri popolari a quelli residenziali, ogni angolo del paese respira secoli di storia e tradizioni culturali ricchissime. Non ho dovuto fare uno sforzo particolare per integrare questi elementi nei miei scatti: erano semplicemente lì, parte integrante di ogni scena. L’architettura coloniale si mescola con edifici moderni, antiche tradizioni coesistono con la cultura pop contemporanea, l’eredità indigena si fonde con le influenze europee e nordamericane. Ho cercato di essere particolarmente attento ai dettagli che potevano raccontare questa ricchezza culturale. Elementi apparentemente contraddittori sono in realtà perfettamente rappresentativi della complessa identità culturale del Messico contemporaneo. L’obiettivo era quello di catturare non solo l’aspetto visivo di questi elementi storici e culturali, ma anche il modo in cui essi vivono e respirano nella vita quotidiana.

Molte delle tue fotografie sono in bianco e nero. Qual è la ragione dietro questa scelta stilistica?
La scelta di fotografare in bianco e nero non è stata una decisione presa specificamente per questo progetto sul Messico. In realtà, scatto sempre in bianco e nero; è il mio linguaggio visivo preferito. Non considero nemmeno l’alternativa del colore, almeno per ora. Prima di scattare una foto, vedo già la scena in bianco e nero nella mia mente. È come se il mio occhio facesse automaticamente questa conversione. L’unica variabile su cui mi concentro è il tipo di contrasto da utilizzare, che può cambiare l’impatto e il significato dell’immagine. Il bianco e nero ha una qualità atemporale che trovo particolarmente adatta a un paese come il Messico, dove passato e presente coesistono in modi complessi. Un’immagine in bianco e nero può evocare contemporaneamente il passato storico e la sua realtà contemporanea. Naturalmente, sono consapevole che questa scelta stilistica influenza il modo in cui il Messico viene rappresentato nelle mie fotografie. Credo però che offra uno sguardo inaspettato, invitando a guardare oltre i cliché colorati, a scoprire un Messico più profondo e sfumato.
Questo è il tuo secondo libro di fotografie sul Messico. Puoi parlarci di questa esperienza e del processo che hai seguito per realizzarlo?
Mexicans rappresenta un’evoluzione significativa rispetto a Día de Muertos dello scorso anno, essendo stata un’esperienza profondamente impegnativa che mi ha permesso di esplorare in modo più ampio e approfondito la complessità della vita in Messico. Innanzitutto, è importante sottolineare che questo libro è stato interamente autoprodotto. Questa scelta mi ha dato una libertà creativa totale, ma ha anche comportato molte sfide e difficoltà. La grafica del libro è stata curata personalmente da me. Volevo che il design visivo rispecchiasse l’essenza delle fotografie e del Messico stesso: diretto e senza fronzoli. Ho passato molto tempo a sperimentare con diversi layout fino a trovare un equilibrio che sentivo giusto. Durante il processo di creazione, ho avuto la fortuna di ricevere alcuni preziosi consigli da Ricardo Pérez Montfort (già menzionato in alcune domande precedenti). Rinomato storico e antropologo messicano, Montfort è anche l’autore del testo introduttivo. Le sue approfondite conoscenze sulla cultura e la società messicana mi hanno aiutato a strutturare il libro in modo più coerente e significativo. “Mexicans” è organizzato in diversi capitoli tematici che cercano di catturare le diverse sfaccettature della vita in Messico. I principali temi presenti sono la religione, le tensioni sociali, il lavoro, la vita di strada, i culti paralleli come quello della Santa Morte e di Jesús Malverde, e le manifestazioni di protesta che ho incontrato per strada. Sono tutti momenti importanti che ricordano che il Messico è un paese in evoluzione, che lotta con problemi di corruzione e disuguaglianza.


Quale messaggio speri di trasmettere al pubblico attraverso le tue fotografie del Messico?
Il mio desiderio più grande è che chi guarda queste fotografie possa sentire un po’ di ciò che ho sentito io durante il mio tempo in Messico: la meraviglia di fronte alla bellezza del paese, l’ammirazione per la forza e la dignità del suo popolo, la curiosità di saperne di più, di andare oltre la superficie.
Tu sei di Avellino, trovi che ci siano analogie tra il tessuto sociale messicano e quello italiano, in particolare quello campano?
Una delle connessioni più evidenti è sicuramente l’eredità storica dell’occupazione spagnola, che ha lasciato tracce profonde in entrambe le culture. L’analogia più interessante che ho notato riguarda il rapporto con la morte e il culto dei defunti. C’è una sorta di parallelo tra il culto delle “Capuzzelle” a Napoli e il Día de Muertos in Messico. Entrambe queste tradizioni mostrano un approccio alla morte che è al tempo stesso rispettoso e familiare, integrando i defunti nella vita dei vivi in modi che possono sembrare strani o addirittura macabri a chi proviene da altre culture.


A Napoli, il culto delle “capuzzelle” – i teschi conservati nelle catacombe di alcune chiese – riflette una relazione intima e quasi affettuosa con i morti. Le persone adottano questi teschi, li curano e chiedono loro favori e protezione. In Messico, troviamo un elemento simile nelle “calaveras”, i teschi decorati che sono onnipresenti durante il Día de Muertos. Tuttavia, è importante notare come questo approccio contrasti nettamente con l’atteggiamento prevalente nel mondo occidentale in generale. In gran parte dell’Occidente, la morte è spesso vista come un tabù, qualcosa da tenere a distanza e di cui parlare il meno possibile. I rituali funebri sono generalmente solenni e cupi, focalizzati sul dolore della perdita piuttosto che sulla celebrazione della vita del defunto. In Messico, invece, la morte è vista come una parte naturale e inevitabile del ciclo della vita. Non è qualcosa da temere o da nascondere, ma piuttosto un’occasione per ricordare e onorare coloro che sono passati. Questa visione si riflette non solo nel Día de Muertos e nelle calaveras, ma anche nell’arte, nella letteratura e nella cultura popolare messicana, dove le immagini della morte sono onnipresenti e spesso trattate con umorismo e leggerezza. In futuro, mi piacerebbe esplorare più a fondo queste connessioni e differenze. Ho in mente un progetto fotografico che metta a confronto queste diverse concezioni della morte, esplorando le similitudini tra il culto delle “Capuzzelle” napoletane e le calaveras messicane.
Federico Emmi
Se vuoi ascoltare il racconto dalla sua voce, questa intervista è disponibile anche in formato podcast, un’occasione per scoprire non solo la sua fotografia, ma anche il modo in cui il Messico gli ha cambiato lo sguardo.