Il 10 Giugno scorso è uscito nelle sale il film “In prima linea” diretto da Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso, prodotto da Giotto Production, in collaborazione con Merry-Go-Sound e distribuito da Trent Film.
Lunedì scorso siamo stati allo storico cinema Anteo di Milano per la proiezione del film, cui è seguito un dibattito con i registi e un componente del cast, secondo la formula adottata dagli autori e dalla distribuzione per il lancio del documentario.
Il film, vincitore di diversi premi internazionali, presenta agli spettatori 13 fotoreporter ancora operativi, tra i quali anche quattro donne (Isabella Balena, Giorgio Bianchi, Ugo Lucio Borga, Francesco Cito, Pietro Masturzo, Gabriele Micalizzi, Arianna Pagani, Franco Pagetti, Sergio Ramazzotti, Andreja Restek, Massimo Sciacca, Livio Senigalliesi, Francesca Volpi). L’intento principale degli autori è quello di raccontare la professione e la vita del fotoreporter di oggi senza prestare il fianco a narrazioni eroiche, ma al contrario mostrando l’essere umano dietro all’obiettivo; le sue paure, i suoi valori, i suoi traumi; rompendo, peraltro, anche lo stereotipo che non sia una professione per donne.
La scelta di coinvolgere così tanti fotografi è a nostro parere vincente sia nel riuscire a descrivere la figura del fotoreporter, attraverso il confronto tra le loro risposte molto spesso coincidenti, sia perché creando un racconto corale, attraverso più voci, i registi allontanano definitivamente il rischio di trasformare in eroe il singolo fotografo, che non ha per sé tutti i riflettori.

Nel corso del documentario i protagonisti si racconteranno.
Ci diranno che studiare geopolitica e storia è fondamentale per affrontare le missioni; della paura che provano e che è importante affinché nulla sia sottovalutato sul campo. Racconteranno di come non lavorano più on assignement, ma molto più spesso partano con un progetto personale in mente che solo successivamente cercheranno di vendere o piuttosto portare a concorsi internazionali. Racconteranno da dove sono partiti, le loro radici, prima di diventare fotoreporter e qual è la foto cui sono più affezionati. Racconteranno del momento esatto dello scatto, in cui di fronte ad una scena drammatica, al dolore o alla sofferenza anestetizzano il cuore per portare a casa la testimonianza. Racconteranno delle loro cicatrici, quelle invisibili più di quelle visibili.


Di fronte ai loro racconti è difficile non considerare eroiche le loro imprese, eppure le scelte stilistiche dei registi rifiutano totalmente la visione romantica: il documentario non spinge su effetti speciali ma sulla pulizia e semplicità, senza fronzoli.
Questa essenzialità mira proprio a spogliare la trattazione del tema di quella enfasi drammatica che invece siamo abituati a vivere di fronte a un film di guerra, dove musica, ritmo, effetti speciali hanno un chiaro intento ansiogeno, ma, insieme al rush di ansia e paura, ci concedono la tranquillità del nostro divano. La struttura di questo documentario, che non confonde emotività con emozione, non lascia invece scappatoie: quello che mostra, senza trascendere in orrore, è la realtà, la realtà della guerra. No, non è un film di fantasia; no, non è un videogioco.
Non è neppure la celebrazione eroica della figura del fotoreporter; il film si costruisce infatti intorno alle interviste che sono state realizzate a ognuno dei fotografi raccontati e che rispondono alle domande dei registi: inquadrati mentre non guardano verso la videocamera, seduti nell’intimità delle loro case, fra i loro libri, oggetti, diapositive e archivi, ascoltiamo le loro parole, le risposte a domande che nel montato sono state escluse affinché la concentrazione sia solo sul racconto. I registi, inoltre, non hanno scelto di proporci i fotoreporter in azione sulla front line, ma piuttosto mentre passeggiano nei luoghi dove abitano, insomma dove sarebbe facile incontrarli per strada esattamente dove camminiamo noi.
Anche la colonna sonora di Paolo Fosso non insiste su toni drammatici, enfatici o retorici, ma si inserisce coerente con il montaggio e abbinata a suoni realistici sapientemente voluti dal sound design di Daniele Guarnera.



C’era necessità di un documentario di questo tipo? Sì, senza ombra di dubbio sì.
In un mondo dominato dalle immagini, un mondo dove, citando Michele Neri «per esistere davvero un avvenimento deve finire dentro un’immagine» (Michele Neri, “Photo Generation, Ed. Gallucci- 2016), un mondo dove la televisione è invasa da programmi voyeuristici che vedono gli spettatori appollaiati sulle proprie poltrone nell’illusione di spiare la vita altrui (finta), un mondo dove anche l’informazione cede a questo tipo di atteggiamento, piuttosto che al vero informare o denunciare (si pensi alla recente polemica sul video della cabina precipitata sulla funivia del Mottarone), pare che i veri anestetizzati non siano i fotoreporter nell’attimo in cui premono sul tasto che apre l’otturatore, ma coloro che guardano. Ci siamo abituati; anche in buona fede, anche senza volerlo.
La fotografia, anche questa, fa i conti con una visione annacquata da troppe immagini.
Le immagini dei fotoreporter proiettate in questo film hanno una potenza enorme cui è impossibile sottrarsi: è facile girare la pagina di un libro che le raccoglie, o passare alla foto successiva in una mostra fotografica, figuriamoci poi osservare il mondo dalle “stories” di Instagram; mentre quando guardi questo film sei inchiodato alla poltrona della sala cinematografica; il ritmo, senza intenti ansiogeni o spettacolari, ti porta a restare in quella realtà, a viverla. A conoscerla, non puoi sfuggirle. Questo a nostro parere è il grande pregio del documentario, cui – per certi versi ci spiace ammetterlo – paga un tributo anche la fotografia, che sembra non bastare più oggigiorno.
Isabella Balena, presente in sala lo scorso 21 Giugno al cinema Anteo, è assolutamente cosciente di questa deriva, ma, come dichiarano anche tutti gli altri fotoreporter nel corso del film, ritiene il proprio sguardo ancora importante, ancora fondamentale. Noi siamo d’accordo con lei, con loro ed è per questo che siamo grati a questo documentario che, con uno scossone, ci riporta al centro del linguaggio fotografico, insieme al riportarci alla realtà.
Non è uno “sneak peek” questo documentario, ma un consapevole viaggio non solo nella realtà di guerra, ma anche in quello della fotografia, che rivendica senza eroismi la propria potenza.
Lo ammettiamo, questo film è un pugno nello stomaco, proprio per questo. Non perché propone immagini “orripilanti”, per citare uno dei protagonisti Francesco Cito; non c’è “pornografia” in questo senso. Al contrario ricorda come in fondo la vera pornografia non sta negli occhi di chi osa fotografare (anestetizzandosi il cuore) il dolore dei parenti al funerale di una vittima di guerra o di violenza, ma negli occhi di chi, noi, guarda l’immagine.
Questo film non concede sguardi superficiali.
Buona visione.
Luisa Raimondi
Matteo Balsamo nasce a Broni nel 1977. Inizia il suo percorso da attore recitando in spettacoli teatrali, docufilm , cortometraggi e pellicole per il grande schermo tra cui “Cado dalle nubi” di Gennaro Nunziante, “Vallanzasca – Gli angeli del male” di Michele Placido e “Solo per il weekend” di Gianfranco Gaioni. Successivamente si appassiona alla regia firmando spot, corti, videoclip e la web serie “E-114”, con la quale si aggiudica riconoscimenti in Italia e all’estero.
Francesco Del Grosso nasce a Roma nel 1982. Dopo la laurea al DAMS inizia il suo percorso come regista dirigendo spot, cortometraggi, serie tv e documen tari, quest’ultimi selezionati in numerosi festival internazionali e vincitori di diversi premi, tra cui “Stretti al vento”, “Negli occhi”, “11 metri”, “Fuoco amico” e “Non voltarti indietro”, presentati in Festival prestigiosi come Roma e Venezia. Parallelamente al lavoro dietro la macchina da presa si occupa di critica cinematografica, collaborando con riviste e siti del settore.