Intervista a Corrado Tria

La prima macchina fotografica. Quando hai iniziato a scrivere la tua personale storia della fotografia, quando la decisione di essere un professionista?

La prima macchina fotografica mi era stata donata da mio padre nel periodo delle scuole superiori ma l’attrazione per la fotografia è nata in me ben prima, sostanzialmente, per due motivi: il primo puramente legato a quella che, agli occhi di un bambino, può sembrare una magia ovvero l’apparire più o meno immediatamente (a seconda del mezzo utilizzato) su un supporto cartaceo.
La seconda motivazione è più intima. Come ogni persona ho sentito il bisogno di comunicare: prima di “approdare” a piè pari in questo mondo ho avuto modo di provare altri media, la musica ad esempio. Seppur la mia passione per questa forma d’arte non sia calata ho subito capito che non sarei riuscito ad esprimermi con essa; cosa invece accaduta fin da subito con la fotografia.
Per rispondere alla seconda parte della domanda mi sento di dire che il fattore determinante per attestare la competenza e la bravura fotografica non è un numero, una partita iva: conosco “fotoamatori” (termine purtroppo spesso visto in senso negativo) realmente validi. Ciò premesso ho deciso di fare il “passaggio” una volta capito che avrei potuto vivere con questo lavoro.

Durante la tua crescita, soprattutto quella iniziale, ci sono stati dei fotografi o fotografe che ti hanno, in un certo senso, ispirato?

Sì, ho avuto modo di conoscere fotografi più o meno famosi grazie ai numerosi libri acquistati durante gli anni; è una cosa fondamentale il parlare con chi ha più esperienza. I nomi sono tantissimi, provo attrazione per le foto provocatorie di Tesar, misteriose di Bae Bien-U fino ad arrivare ad uno dei miei preferiti: Luigi Ghirri.
Sono felice d’essermi circondato di persone che hanno una particolare attenzione per la collaborazione tralasciando la concorrenza e di persone con molti più anni d’esperienza di me felici di darmi consigli spassionati.

Ti definisci fotografo sperimentatore. Secondo te la fotografia è un punto di vista o un punto di partenza?

Come dico spesso ai corsi, la fotografia prima di tutto è un linguaggio. Per funzionare ha bisogno di almeno tre fattori: mittente-messaggio-destinatario. Il media varia dalla carta al monitor.
Stiamo assistendo ad una cosa stranissima: un linguaggio che non ha un messaggio e che non ha un destinatario preciso. Caricando sui “social” (lungi da me far un’insensata battaglia contro questi utilissimi strumenti), la fotografia raggiunge una moltitudine spropositata di persone: dal bambino all’anziano, dal marinaio all’alpinista, dal contadino al chirurgo. Com’è ovvio ogni persona interpreta in modo diverso quanto vede, figuriamoci il caos che si crea quando nemmeno il realizzatore materiale dello scatto (inteso come atto meccanico) sa realmente cosa vuol esprimere.
Io vedo la fotografia così, come un linguaggio che mi dà modo d’espressione. Non nutro per lei sentimenti di feticismo e per questo la contamino senza problemi con altre forme d’arte, se necessario. Mi definisco sperimentatore perché credo d’essere fortemente curioso. Voglio imparare e testare moltissime cose e, finora, ognuna di queste mi ha ripagato a livello fotografico dandomi spropositati punti di riflessione. Fortunatamente sono nato in una famiglia che mi ha insegnato a far avanzare di pari passo la conoscenza con la manualità, leggere e provare (non necessariamente in questo ordine) anche a rischio di combinare qualche castroneria.

Hai partecipato a diversi concorsi, alcuni dei quali hanno riconosciuto la tua bravura. Quanto è importante per la tua crescita personale, come fotografo, questa esperienza?

Penso che i concorsi siano importantissimi per mettersi in gioco e per potersi confrontare con fotografi di tutto il mondo. Un consiglio che do è quello di selezionarli bene leggendo i termini di partecipazione scartando quelli che pretendono d’avere tutti i diritti dell’immagine. In altre parole, a costo zero, gli organizzatori si ritrovano con centinaia di fotografie da usare a proprio piacimento.
A livello personale inutile dire che, seppur vergognandomene un po’, provo un certo orgoglio nel veder raggiungere questi risultati. A livello professionale, per quanto difficile sia scindere le due cose, mi aiutano molto a farmi conoscere come fotografo; ad esempio l’ultimo premio conferitomi (il secondo posto al TIFA,Tokyo International Foto Award,  sez. medicina con il progetto dedicato a mio padre) è stato molto importante.

Quale è la fotografia o il progetto fotografico a cui sei più legato, che ricordi con maggior soddisfazione?

Se devo selezionare un solo progetto già esposto mi sento d’esprimere particolare soddisfazione nei confronti del progetto sopracitato che narra gli anni di coma di mio padre. Ovviamente parlo a livello di crescita personale e fotografica; avrei evitato ben volentieri quella situazione.

Non si può vivere solo di arte, ma è comunque possibile aggiungere una certa vena artistica ai quei servizi fotografici orientati alla commercializzazione dei prodotti. Come si costruisce un servizio fotografico all’altezza delle aspettative?

Spesso si pensa al fotografo come una professione/propensione prettamente mentale, poco impegnativa a livello fisico. Personalmente noto che le varie attività manuali che mi piace svolgere mi danno sempre più spunti per realizzare al meglio il mio lavoro.
Ho scelto questa sfida, quella di fare il fotografo nell’epoca della digitalizzazione, per potermi esprimere senza etichette. “Ritrattistica”, “paesaggistica” e via dicendo sono termini che abolirei volentieri ma che tornano utili per rivolgersi alle persone in modo comprensibile; in realtà penso fortemente che un professionista, con un proprio stile, lo possa adattare ai vari generi fotografici e questo, ovviamente, vale anche per i lavori su commissione.
Per fornire un servizio all’altezza delle aspettative la cosa fondamentale è quella di parlare in modo molto chiaro con il committente.

Quanto è determinante una fotografia professionale per la commercializzazione di un prodotto?

È fondamentale ma ancora molte persone non lo capiscono: sono ancora troppe le ditte che acquistano solamente immagini stock senza capire che il paragone con un set fotografico studiato appositamente non può reggere; sarebbe come confrontare una frase dei “biscotti della fortuna” con una poesia od un romanzo.

Cosa ne pensi della tendenza, da molti professionisti sperimentata, di essere pagati in parte o in toto, con la visibilità?

Penso che bisogna fare un distinguo: è il professionista che sceglie questa formula o il committente che dà per scontato l’accettazione di tale proposta da parte del fotografo? Nel primo caso posso essere d’accordo, nel secondo assolutamente contrario.

Sei un fotografo che usa anche le parole. Ritieni una esperienza necessaria quella di parlare di fotografia?

Come mi ha detto il fotografo Paolo Ranzani: la fotografia vale più di mille parole? Dipende da quali.
Ritengo fondamentale un’introduzione che possa aiutare l’osservatore ad una migliore analisi della fotografia, le parole – se ben usate – non tolgono nulla alla fantasia. Per mia natura, invece, mi trovo distante dall’usare citazioni sotto alle fotografie anche perché, nella maggior parte dei casi, ho trovato una forte dissonanza fra quanto letto e quanto osservato.

I tuoi progetti. Le tue ambizioni. Cosa c’è nel tuo futuro?

Attualmente ho molti progetti fotografici in cantiere. Li tengo lì e ogni tanto li rispolvero, come una sorta di terapia. Altri a breve vedranno la luce. Ovviamente non so cosa mi riserverà il futuro, uno dei miei sogni è quello di vedere la fotografia diventare una materia fondamentale: è triste pensare che nell’epoca dell’immagine (si veda questo termine con eccezione positiva) in pochi la conoscano e la sappiano leggere. Ecco, se potessi dare il mio piccolo contributo per questo, ne sarei ben entusiasta. 

 

Intervista a cura di Federico Emmi

Immagine copertina © Corrado Tria