Intervista a Piergiorgio Branzi

Piergiogio Branzi. Le chiedo innanzi tutto come va e se le piace il posto e la mostra come è stata allestita?

Mi piace molto, conosco Castelnuovo di Porto, ma mai avevo potuto visitare la rocca, che è molto bella, molto singolare. La mostra è allestita bene, pulita, lineare. Mi piace.

 

All’inizio della mostra, nel pannello introduttivo, c’è scritto che lei ha iniziato come fotografo per la famosa e straordinaria rivista, un settimanale per la precisione, Il Mondo diretta dal grande Mario Pannunzio.
Su questo settimanale scriveva il giornalista Antonio Cederna che è stato uno dei più tenaci ed eroici difensori del paesaggio italiano.
Leggendo Antonio Cederna è possibile riuscire mentalmente a farsi un’immagine di come il paesaggio sia cambiato in maniera drammatica. La nostra generazione, venuta dopo, può vedere gli effetti di questo cambiamento, al contrario lei che lo ha vissuto in prima persona, si rispecchia fotograficamente in questo sventramento, termine spesso usato da Cederna, del paesaggio?

Senza dubbio il problema è al solito l’invasione delle auto più che altro, per quanto riguarda il paesaggio mediamente inteso, e poi naturalmente le costruzioni di cui purtroppo siamo antesignani di abusivismo eccessivo. Non c’è termine per diminuire una condizione come questa. Per fortuna devo dire che il Lazio, soprattutto devo riconoscere quello a nord di Roma, si è mantenuto molto bene nei confronti delle altre zone della regione, così come anche rispetto a tante altre regioni italiane.
Ha mantenuto questo suo carattere con alberi, valli, molto selvatico, conservato secondo certi criteri.
Io abito in una zona boscosa dove in verità c’è una natura ancora integra come si può immaginare e come si può leggere dai libri. Poi attorno ai paesi, molti sono stati devastati.

 

Secondo lei la fotografia può aiutare, soprattutto oggi, a rendere più raffinata questa invasione del cemento armato che ha praticamente distrutto il paesaggio, sostituendolo con cose che tra l’altro spesso generano anche problemi sociali?

La questione è che dovrebbe essere adottata una politica di presentazione, di accoglienza, perché poi vedo che la gente risponde. Io abito, per esempio, su una vecchia strada antichissima, la via Francigena, che porta a Roma ed è frequentatissima da stranieri e anche italiani. Secondo quanto mi diceva il sindaco di Campagnano, lo scorso anno sono passati su questa strada oltre 6000 pellegrini, cioè sono passati di fronte a casa mia, al cancello di casa mia, 6000 pellegrini a piedi. Chi viene dal nord Europa, chi dal centro e anche dall’Italia e non c’è dubbio che apprezzano questa parte lasciata ancora selvatica, naturale e protetta.
Il Parco di Veio, per esempio, ha una funzione che mi sembra positiva. Ci abito da più di vent’anni e ho trovato che migliora giorno per giorno. È difeso, difesa la fauna che c’è perché è molto varia e questo è un dono che va mantenuto e salvaguardato. La fotografia certamente può aiutare questo. È come la cultura in genere, da che cosa può essere aiutata? Dai libri, da quello che si legge, da quello che si vede, da quello che si ascolta. Esaltare con la fotografia la natura, è uno dei compiti che si può realizzare.

 

Dopo tanti anni di fotografia e di fotografie, attualmente c’è qualcosa che la stimola a entrare in un argomento nuovo, a raccontare qualcosa che non ha ancora raccontato con il suo lavoro?

Si. Come si può vedere dalle mie foto sono più che altro paesaggi abitati. A me piace collegare l’uomo con l’ambiente, l’ambiente con l’uomo, perché come si dice, l’ambiente fa l’uomo e l’uomo l’ambiente. Questo collegamento per me è importante, a volte basta un piccolo cenno, un personaggio che crea un ambiente nuovo. Quindi c’è senza dubbio una possibilità di esaltare questo rapporto tra l’uomo e la natura.
La fotografia aiuta, è indiscutibile.

 

Se la ricorda bene la prima foto che ha scattato?

La primissima no, proprio la primissima no perché non avevo mai praticamente preso una macchina fotografica in mano. Come la mia biografia sottolinea, solo dopo una mostra di Cartier Bresson nel ‘51 o ’52 comprai una macchina, che tra l’altro veniva costruita a Firenze, io sono fiorentino, la Condor (Ferrania Condor nda) dalle officine Galileo, un’ottima macchina. Proprio recentemente è apparsa una mia fotografia scattata nel ‘52 con questa macchina su una rivista spagnola di cultura di fotografia che accompagnava un articolo di una critica storica di fotografia e che abita a Torino molto conosciuta, Antonella Russo. Allora ho ripreso i negativi e ne ho trovati altri due fatti nello stesso posto circa, a Roma nella parte del Ghetto e in Trastevere, sto cercando anche una strada, via delle stalle, ma che sulla carta stradale non riesco a ritrovare. Quindi io considero queste, le prime tre. Perché già dopo qualche mese che avevo visto la mostra di Cartier Bresson, mi accorgo di avere captato certi aspetti della fotografia, naturalmente da parte di uno che non se ne intendeva per niente, ma l’attenzione su certi soggetti poteva essere ripescata nella serie di immagini di Bresson.

 

Delle immagini qui esposte, a me ne è piaciuta una in particolare, veduta dall’alto, presumo in Russia, dove si vedono due signori che giocano a biliardo. Mi è piaciuta moltissimo perché trasmette proprio la descrizione di un mondo diverso. Qual è l’immagine, quella che lei qui reputa più bella?

Devo dire che coincide con la sua impressione. A me quella piace molto, anche come è stata poi stampata e salvata. Io l’ho scattata tra il 62 e il 66 nei 4 anni che sono stato a Mosca. E quella è scattata dalla finestra della mia cucina che era in un palazzo di 6 o 7 piani e io ero al quarto. È quello che avevo tutti i giorni, mattina e sera, sotto gli occhi. Mi piace molto anche perché è stata salvata da un negativo kodachrome, non solo appassito, ma proprio ricoperto nel tempo dal velo magenta classico. Con il sistema digitale è stato ripescato questo colore, che poi un colore vero della Mosca di sempre, della Russia di sempre. Quello del legno vecchio, bagnato, ammuffito, se vuole insomma di queste vecchie case che sembrano barche tirate a secco, tutte un po’ sconnesse proprio come vecchie barche.

 

È un’impressione o spesso lei rivolge l’obiettivo verso la terra anziché verso il cielo?

Non c’è dubbio. Anche qui il cielo è bello e romantico, come le nubi o il tramonto, ma come dicevano i futuristi: uccidete il chiaro di luna perché è una scivolata nel romanticismo. Un po’ trito. Tanto il tramonto non è una cosa eccezionale, il giorno dopo si ripete, poi via, ogni giorno c’è un tramonto.

 

Federico Emmi

 

N.B. Intervista rilasciata da Piergiorgio Branzi prima della presentazione della sua mostra fotografica, nel settembre del 2013, a Castelnuovo di Porto. Immagine di copertina tratta da Google.