Intervista al fotogiornalista Massimo Sestini

Diversi foto giornalisti si ritrovano, ultimamente, a dover difendere il loro lavoro perché le loro fotografie vengono usate impropriamente, opportunisticamente, decontestualizzate e private delle ragioni, spesso profonde, che li hanno spinti a realizzare un determinato servizio.

Non è solo la necessità di difendere il proprio lavoro. Riguarda, invero, il dover tutelare il proprio senso critico, le proprie idee, la propria passione, lo stesso senso di appartenenza a una società che si definisce civile.

Si scrivono allora nuove leggi, ma paradossalmente, nell’accalorato richiamo al loro rispetto – perché la pacchia è finita – se ne infrangono altre.

Massimo Sestini, fotografo giornalista di grande valore, di grande creatività; è stato costretto a doversi difendere da questo qualunquismo, oltre che da questa becera prassi di appropriarsi del lavoro altrui per scopi non certo nobili.

La foto del barcone è un capolavoro di fantasia, di tecnica, di giornalismo. Il racconto di un dramma come occasione per affermare il sorriso, la speranza, la salvezza, allo stesso tempo restituendo al mare, il suo colore di vita, la sua profondità, la sua bellezza di essere navigato.

In questa breve intervista, registrata nell’estate del 2018 a Nettuno (Roma), in occasione della sua premiazione al festival “Attraverso le pieghe del tempo”, Massimo Sestini si racconta e racconta, tra le altre cose, la affascinante storia dello scatto del barcone.

 

Come è iniziata la tua attività di fotografo, quando hai scoperto che era il momento di fare fotografia seriamente?

Ma guarda, con la passione, ai tempi delle medie. Ero in prima o seconda media e mio padre mi portò dagli Stati Uniti, da un suo viaggio di lavoro, una macchinetta fotografica compatta, mi pare 110 il formato della pellicola, iniziando a sviluppare e a stampare in casa facendo una camera oscura provvisoria in bagno, precludendo l’uso del bagno a tutta la famiglia “fermi tutti, ci sono io che devo stampare”.
Poi, durante i primi anni di liceo facevo le foto di classe e leggevo mensili fotografici perché follemente innamorato della fotografia.
Grazie a una radio fiorentina, ho iniziato ad avere l’accesso ai concerti di musica rock che c’erano a Firenze, mi davano un pass, anche se avevo 16-17 anni, e mi permettevano di fare delle foto sotto il palcoscenico, mediocri, perché tutte con i cantanti con il microfono davanti alla bocca, sono quelle cose che non si devono fare. Addirittura, feci una mostra a 17 anni e si intitolava: “un diciasettenne e il suo obiettivo”. 30-40 foto di artisti rock, tutti con il microfono davanti alla bocca.
Però mi arrabattavo, mi divertivo. Facevo le prime foto di un tour e alla tappa successiva tornavo con un tavolino e le stampe formato cartolina, cercando di rivenderle a 250 lire per ripagarmi le spese.
Così è cominciata la mia passione per la fotografia.

Osservando il tuo lavoro, si notano molte fotografie riprese dall’alto con elicottero o comunque fotografie aeree; oppure fotografie riprese da lontano nei confronti di personaggi famosi.
Viene in mente Robert Capa: Se una foto non ti è venuta bene, vuol dire che non ti sei avvicinato abbastanza.
Quale è il valore principale di una fotografia scattata da lontano, quando magari nessuno se ne accorge? Come nasce e si sviluppa poi questa tua tendenza e questa tua espressione fotografica così particolare?

Intanto c’è una caratterizzazione molto forte da un punto di vista geografico, perché, quando ho iniziato, facevo l’istruttore di Windsurf alla Compagnia della Vela di Forte dei Marmi in Versilia e tutti i bagnini della Versilia, che erano miei amici, mi mandavano clienti a imparare a fare Windsurf. Sapevano che iniziavo a fare il fotografo, quindi mi chiamavano a loro volta per dirmi “vieni al mio bagno che c’è Mina oggi, è arrivata Mina sulla spiaggia”, cominciavano le prime dritte, che mi hanno avvicinato alla fotografia professionale, però, da paparazzo, quindi da lontano, di nascosto.
D’altronde mi ero accorto che si vedano delle cose da lontano, con i teleobiettivi, che non vedevi a occhio nudo, normalmente. Questa idea che una foto viene bene stando il più possibile vicini, è buona al 50%, perché tante cose da lontano si vivono meglio che avvicinandosi, perché se ti avvicini, non accadrebbero.
Fatti i primi anni da paparazzo, che era la fine del mondo, questo divertimento, per un giovane che a 20 anni gira d’estate e va in Costa Smeralda, Costa Azzurra, nei posti più belli del mondo a fare foto ai vip; è stato anche un momento molto formativo.
Negli anni, crescendo, ho cercato qualcosa di più creativo della paparazzata, dove la foto è meglio che venga sfocata perché così sembra più autentica. Mi piaceva la vera fotografia, ma avevo capito che quella scuola, quella fortuna, che avevo avuto, mi aveva insegnato. Quindi, occupandomi di attualità e di cronaca, ho cominciato a pensare che è importante arrivare su un evento, che sia un cataclisma, che sia un fatto di cronaca nera e via dicendo; e domandarsi subito da dove si può fare una ripresa diversa da quella che stai vedendo.
Perché? Io ho una agenzia foto giornalistica e sono freelance, quindi sono nato imparando che o le mie foto si vendono o se non si vendono non guadagno. Per cui, quando arrivi su un posto dove ci sono altri colleghi, altri fotografi, se fai la stessa foto, non la venderai mai, perché le agenzie nazionali hanno già quella fotografia. Questo significa andare controcorrente e cercare di fare uno scatto diverso e uno scatto diverso lo fai magari dalla parte opposta, magari dal tetto di un palazzo, magari da sottoterra. La mia voglia di andare in cielo è nata in quegli anni, perché la cosa più facile per fare una cosa diversa, era alzarsi in cielo, perché lassù in tanti non ci potevano arrivare.

Visto che parliamo della fotografia aerea, c’è una immagine molto bella, che tra l’altro è vincitrice al Worldpress Photo del 2015, puoi raccontare la storia di quello scatto?

La foto del barcone ce l’avevo in testa, perché dopo tanti anni di fotografia dall’alto e aver documentato le principali stragi di mafia, l’omicidio di Falcone, l’omicidio di Borsellino, tutti eventi fotografati dall’alto per l’appunto; avevo pensato che mi sarebbe piaciuto molto raccontare il dramma delle immigrazioni, con una foto che non fosse drammatica.
Il film Apocalypse Now, dove c’è una scena in cui un elicottero sbuca all’improvviso e te lo vedi davanti, mi ricordava che se fossi mai riuscito un giorno ad arrivare nella vita sopra un barcone di migranti all’improvviso, tutte le persone su quella barca avrebbero naturalmente guardato l’elicottero. Sarebbe stata, quindi, la foto di gruppo più numerosa del mondo e più spontanea del mondo.
Per fare questo, mi sono imbarcato su delle navi della marina militare, con una delle quali facevo un calendario delle uscite e la prima l’ho sbagliata, cioè sono stato per una settimana su una nave e abbiamo fatto un soccorso, ma c’era vento forte e il pilota non è riuscito al primo impatto visivo con il barcone a tenere lo zenit, ma c’è arrivato che eravamo più che di lato, quindi ha dovuto fare due giri per cercare di combattere contro il vento e allinearmi, però quei due giri sono bastati per far si che l’attenzione di metà dei migranti che erano su quella barca non mi guardasse.
Quindi l’anno dopo mi sono detto: ci voglio riprovare.
Sono stato quindici giorni su una nave, la fregata Bergamini. Ho fatto tantissimi soccorsi di giorno e di notte, ma con il mare in tempesta, quindi l’elicottero non poteva mai decollare. Sono rimasto a oltranza, ho detto: questo è il secondo anno che ci provo, di qui non mi schiodo finché non riesco a portare a casa questa foto.
Un giorno con il mare calmo, c’è stata una chiamata di soccorso, siamo arrivati in elicottero, i piloti sono stati bravissimi – in quella foto io faccio click, ma se il pilota non mi avesse tenuto sopra…quindi il merito all’80% è suo –.
Nei primi dieci scatti, tutti quanti guardavano, con sguardo sereno, sorridente e ricco di speranza, la loro salvezza.
Questa è la nascita di quella foto.

Invece, l’altra foto, sempre dall’alto, molto suggestiva, quella della Costa Concordia?

Giglio Island (GR), zenithal view of the cruised ship "Costa Concordia" from an helicopter of Police after the disaster © Massimo Sestini
Giglio Island (GR), zenithal view of the cruised ship “Costa Concordia” from an helicopter of Police after the disaster © Massimo Sestini

Suggestiva perché il modo di essersi rovesciata, che è esattamente di fianco, mi ha fatto pensare che fotografandola dallo zenit, sarebbe sembrata la foto di una nave che sta navigando. Se poi viene guardata con attenzione, con le rocce sopra al comignolo, fa venire qualche dubbio che ci sia qualcosa che non torna, ma il primo impatto è quello di una nave che sta navigando.
Queste sono quelle cose che si imparano con tanti anni di esperienza a vedere le cose da lontano, che possono sembrare completamente diverse.
Nella Concordia sono entrato quattro giorni dopo che si era rovesciata e ho avuto la fortuna di entrarci dentro con i subacquei e con i palombari della marina militare, quindi ho fatto delle foto proprio dentro, ma mi sono reso conto che da sopra aveva tutto un altro significato.

La fotografia aerea, di cui sei comunque un pioniere, negli ultimi anni ha un po’ come concorrente la fotografia fatta con i droni. Molto spesso quello che colpisce in questo genere di fotografia, è la geometria. Una geometria molto diversa da quella a cui siamo abituati appunto guardando a terra, quindi gioca molto sulle linee e sulla composizione.
Secondo te, arriverà un momento in cui anche questo non sarà più visto come una novità e farà meno effetto questo genere fotografico, rispetto a quello che attualmente ancora riesce a smuovere?

Il drone è un mezzo, è come una macchina fotografica. La fotografia sta solo in testa di chi la scatta. Oltre che la creatività, bisogna anche sapere come usare gli strumenti. Come si usano le luci e si possono usare con il sole pieno, permettono di ottenere una foto diversa da chi non le utilizza; così il drone è un mezzo.
Mi è capitato di fotografare un atleta recentemente, il più veloce velocista italiano, l’unico ragazzo che ha corso i 100 metri in meno di dieci secondi. Quando sono arrivato in questo campo di Giussano, dove lui si allena, io mi ero progettato di fargli una foto dallo zenit usando un drone, perché ho detto: se io vado a prendere le geometrie, in questo caso le geometrie della pista di Tartan, con le sue righe bianche e lo faccio correre sulla linea di arrivo e la linea di arrivo è quella dove ci sono i numeri delle corsie, uno due tre quattro cinque e sei; riuscendo a fare proprio una foto da sopra, forse riesco a fare una foto molto diversa da quelle che si sono viste fino a ora agli atleti che corrono in pista e magari con un impatto maggiore. (foto)
Questa geometria dal basso non la potresti percepire, questa postura, il gioco con l’ombra che lo disegna. Anche i droni vanno bene, sapendoli usare, perché effettivamente è vero che la fotografia con il drone è un po’ tutta uguale alla fine.
È un oggetto che alzi, io che sono un fanatico delle foto con elicottero e lì uso un 600mm duplicato, perché una foto con grandangolo è un Google Earth. Quindi, per esempio, uso i droni per fare ritratti. Ultimamente ho fotografato Ilary Blasi e Alfonso Signorini a Cinecittà, in studio li ho messi distesi per terra e ho utilizzato per l’appunto un drone.

Come si crea una foto del genere, perché c’è veramente tanta creatività, già pre-visualizzarla è una cosa favolosa? Inoltre, tu sei un freelance, che ne pensi dell’editoria che invita fotografi amatori a inviare i loro scatti per utilizzarli nel giornale, anziché pagare un professionista?

Quando ho cominciato e vedevo una mia foto su un giornale, sbavavo dall’adrenalina che mi procurava e ne avrei regalate a tonnellate di queste fotografie pur di farle uscire sui giornali, per la soddisfazione che può dare. Posso quindi capire il punto di vista dell’appassionato rispetto a quello del professionista. Detto questo, oggi è una realtà perché la tecnologia lo permette, venti anni fa non esisteva la possibilità che chiunque potesse fare una foto e questo permetteva di alzare di moltissimo il livello qualitativo della fotografia fatta da chiunque. Capisco anche i giornali, che sono molto in crisi, che preferiscono utilizzare foto, che sono pubblicabilissime, rispetto a quella un po’ più bella, un po’ più d’autore, che però costa. Questo perché la crisi della carta stampata è abbastanza importante e non se lo possono più permettere, noi adesso lavoriamo per molto molto meno rispetto a quanto guadagnavamo prima; sconsiglierei a chiunque di fare il foto giornalista. Pubblicità, moda, matrimoni, qualsiasi cosa, ma chi si butta nel reportage gli direi: guarda, devi sapere che non guadagnerai da vivere di questa tua passione.
Poi se un giorno vinci un Worldpress Photo, un altro giorno un giornale nel mondo ti pubblica sei pagine, non avrai un ritorno negli anni per poter guadagnare da vivere decentemente.
Riguardo alla prima parte della domanda. La fotografia ha questa trappola, sfugge dopo 1/60, 1/250, 1/1000 di secondo in cui passa. Nessuno è mai capace di essere lì quando devi fare la foto, devi essere lì prima di farla, devi scattare mentre accade, quindi o sei in grado di anticipare con la tua esperienza il capire dove ti trovi, non perché sei un genio, ma perché hai già vissuto una situazione analoga, a forza di andare sui fatti di cronaca nera, a forza di andare sulle paparazzate, sui terremoti; impari certe dinamiche. Anche in una partita di calcio, sai dove andrà a esultare un giocatore perché se fa gol va sempre in quel punto, quindi sei in grado di anticipare con il pensiero quello che potrebbe accadere. Questo funziona anche con le idee, perché un personaggio devi sempre convincerlo a farsi fotografare, non è che te lo dice lui, per convincerlo devi avere una idea dove arrivare, proporgliela e fargli capire che è il caso di fare quello che è necessario per arrivare a farla.

 

Intervista a cura di Federico Emmi

 

Le fotografie sono tratte dal sito di Massimo Sestini. Il copyright delle fotografie è di Massimo Sestini