Una conversazione con Aik Beng Chia: l’archivista visivo 

Tutto è iniziato nel 2008, quando Aik Beng Chia si è trovato davanti al suo primo blocco creativo da illustratore. Senza idee, ha preso in mano una macchina fotografica: un gesto nato quasi per caso, che oggi possiamo considerare una vera fortuna.

Conosciuto da tutti come “ABC”, Chia è oggi uno dei fotografi più celebrati di Singapore. Sa raccontare la vita di tutti i giorni con ironia e grinta. Da autodidatta, ha cominciato con un iPhone 2G e ha condiviso su Instagram scatti quotidiani della sua città. Quell’esperimento lo ha reso un pioniere della mobile photography. Ma per lui la fotografia non è mai stata una questione di tecnologia. Conta l’urgenza di dare un senso al mondo, fermando il caos della vita quotidiana in immagini dense di emozione.

L’ho incontrato a Bangkok, in un bar di Chinatown. È arrivato puntuale, con un cappello “Jesus” in grandi lettere, tanto insolito quanto magnifico, e un sorriso contagioso. Ha iniziato a parlare in Singlish – un idioma colloquiale tipico di Singapore, nato dalla fusione tra inglese e lingue locali, che non puoi non amare- e con quei piccoli lah che punteggiano le frasi come punti esclamativi (usati per dare enfasi e colore al discorso), ho avuto subito la sensazione di trovarmi davanti a un personaggio unico. È la prova vivente che anche un accento può essere una forma d’arte, proprio come una fotografia!

Il suo lavoro di street photography è vivido, crudo, viscerale. Spesso è definito fotografo documentario, ma Chia preferisce chiamarsi “archivista visivo”. La sua formazione da designer emerge nelle inquadrature rigorose. Il cuore della sua ricerca è però la memoria culturale: osservare, documentare, conservare. Nei suoi scatti restituisce l’identità stratificata di Singapore, attraverso storie individuali, emozioni e comportamenti.

Quando parla del proprio stile, rivendica l’autenticità contro ogni perfezione costruita. Cerca i momenti banali, imprevisti, irripetibili. Ama i colori accesi e vibranti. Dice che “danno ritmo all’immagine e animano l’ordinario”. Non rinuncia al contatto con le persone, con cui interagisce spesso per strada.

Grande appassionato di zine, Chia le considera una forma di ribellione al mondo patinato dell’arte contemporanea: pubblicazioni grezze, dirette, personali, che permettono di raccontare una storia senza filtri né autorizzazioni.

Il confronto tra fotografia asiatica e occidentale lo appassiona: la prima, secondo lui, è “più silenziosa, più contenuta, legata a ciò che non viene detto”, mentre la seconda appare “più diretta e individualista”. A lui interessa il territorio di mezzo, quello spazio creativo che unisce sensibilità diverse. Ed è qui che il suo lavoro trova la sua forza: un approccio che si adatta al contesto locale. A volte osserva in silenzio, altre volte entra in relazione con i soggetti. Sempre rispetta il momento.

Una grande foto non è questione di perfezione tecnica, ma di emozione”, sottolinea. “Deve farti sentire qualcosa, o almeno costringerti a fermarti un istante”. Per lui la macchina fotografica è solo uno strumento. “L’iPhone mi ha insegnato la semplicità. La Leica mi costringe a rallentare. Ma è l’occhio, non l’attrezzatura, a raccontare la storia.”

Nonostante il riconoscimento internazionale, Chia è rimasto profondamente legato alla scena artistica del Sud-est asiatico. Collabora a progetti comunitari, tiene workshop, partecipa a mostre, e affianca giovani fotografi come mentore. Ha lavorato con musicisti, registi e artisti visivi per creare installazioni multimediali che mescolano fotografia, video e suono.

Tra i suoi lavori più recenti c’è SingKarPor Remixed Reality, un collage monumentale nato da oltre 15 anni di street photography: un mosaico caotico e poetico che racconta le molteplici anime di Singapore. Con il progetto Return to Bugis Street, invece, esplora la nostalgia digitale: attraverso l’AI rievoca la celebre strada – un tempo cuore della comunità transgender, oggi trasformata in centro commerciale – ricostruendone l’atmosfera anni Settanta tra moda, cibo e memoria. Grazie alla sua esperienza di art director, Chia cura ogni immagine nei dettagli, dalla composizione alla luce, fino alla grana vintage della pellicola. Ancora una volta, la sua urgenza è quella di salvare e custodire ciò che rischia di scomparire.

Curioso e ironico, Chia continua a lasciarsi sorprendere tanto dai grandi registi quanto dagli incontri quotidiani. Lo dimostra anche il suo modo di raccontare: leggero e profondo al tempo stesso, capace di trovare poesia perfino in un piatto di rojak in un hawker centre!*

*Gli hawker centre sono vivaci e iconiche mense popolari all’aperto. Offrono cibo di strada economico, proveniente dalle diverse culture del Paese. Il rojak è un’insalata agrodolce e piccante di frutta e verdura. Riflette la fusione di influenze cinesi, malesi e indiane tipica di Singapore.

Silvia Donà

www.aikbengchia.com

Instagram: @aikbengchia