Neive è un noto comune piemontese di appena tremila abitanti, che da tre anni ospita il Langhe Photo Festival, quest’anno visitabile dal 6 luglio al 2 novembre, con la direzione artistica del fotografo Alberto Selvestrel.
Quella dello scorso fine settimana è stata la mia prima visita al festival, e dunque le impressioni sono quelle generate da un primo impatto con una materia nuova. L’edizione di quest’anno, dedicata al tema delle “Possibilità”, è articolata in otto mostre e vede tra i nomi presentati quelli di fotoreporter già affermati, come Ciro Battiloro, Francesco Comello e Francesco Anselmi – su cui torneremo – oltre a un paio di nomi internazionali – Trent Davis Bailey (USA) e Rinko Kawauchi (Giappone) e quello della giovane Cinzia Laliscia. Le ultime due mostre sono dedicate al “LanghePhotoPrize 2025” e all’editoria fotografica.
Il festival, assolutamente percorribile a piedi – la mostra più dislocata dista a 15 minuti dal centro – si mantiene leggero e fruibile in tutte le mostre che contiene; sono piccole, infatti, e il giro non finisce, come spesso capita, con quella confusa sensazione di eccessivo accumulo di stimoli visivi e cognitivi. La sua godibilità sta nello sfoltimento di tali stimoli – anche i testi introduttivi delle mostre non dicono più di ciò che serve per capire cosa si sta guardando, senza far perdere troppo tempo al visitatore di fronte a un pannello scritto per lasciarlo invece libero quasi subito di fruire delle immagini. Gli allestimenti, poi, sono in fin dei conti sensati se si pensa ai luoghi in cui è diramato il festival.

La Torre dell’orologio, infatti, che ospita la mostra “M/E” di Rinko Kawauchi, si percorre in senso ascensionale, salendo le scale (impresa non così faticosa), trovando le immagini sulle pareti attorno ai gradini. Capita perciò che prima di mettere a fuoco i soggetti naturali della fotografa giapponese si debba trovare la giusta collocazione del proprio corpo, per permettere il passaggio ad altre persone che stanno transitando in uno spazio non larghissimo. L’interazione umana, fisica direi, che si crea guardando le immagini è una cosa che ho trovato funzionale anche col discorso dell’autrice, che vede nel paesaggio islandese e di Hokkaido il contraltare della quotidianità rinchiusa del periodo del covid. Allora questo inevitabile strusciamento di corpi che siamo costretti a esercitare per godere della mostra ci parla di un mondo che si può ancora toccare.
Le mostre “Silence is a gift” (Ciro Battiloro), “Son Pictures” (Trent Davis Bailey) e “Finalmente posso andare” (Cinzia Laliscia), così come quella del LanghePhotoPrize, sono invece a cielo aperto, stampate su forex o dibond e montate su strutture di legno che tengono sollevate le stampe dai muri in mattoni. Anche in questo caso si tratta di mostre più che fruibili per il numero contenuto di immagini, per la grandezza delle stampe e la loro qualità che, sebbene debba fare i conti con un supporto che alla carta deve per forza preferire un materiale più resistente, resta ottimale.

“Scegliere di guardare significa scegliere di affermare”, si legge sulla presentazione del festival, preoccupato del significato del linguaggio “aperto” della fotografia, e legato ancora indissolubilmente alla presenza dello sguardo. Sebbene la fotografia contemporanea presenti in una misura forse eccessiva per le sue reali potenzialità una tendenza all’autobiografismo che altri linguaggi – visivi e non – hanno cercato col tempo di abbandonare o trasformare, è indubbio che l’uomo che sceglie il mezzo fotografico deve assumere il ruolo di narratore del proprio rapporto col mondo.
L’immagine, molto spesso, nello scenario contemporaneo risulta un tramite (parliamo appunto di “mezzo” fotografico) e non un fine, qualcosa da attraversare e non da raggiungere.
Nelle mostre del festival si vede una fotografia che ancora basta a sé stessa, che ha voglia di cercarsi, di giocare con le proprie possibilità linguistiche: i toni caldi e sovraesposti del lutto di Laliscia sono una di queste possibilità, così come la disposizione in sequenza delle piccole stampe di Comello – sotto vetro e poste in modo da fruirle guardandole dall’alto, quasi da analisi di laboratorio – che rinunciano alla facile maestosità a cui ultimamente sembra condotta la fotografia.

Fino ad arrivare, nell’auditorium comunale di Neive, a Francesco Anselmi e al suo muro di confine tra Stati Uniti e Messico del lavoro “Borderlands”, raccontato nel bel libro edito da Kehrer Verlag e curato dalla nota photo editor italiana Renata Ferri. Qui Anselmi sceglie di rendere la fotografia totalmente sovrapponibile al suo soggetto: a parte le quattro grandi fotografie svolazzanti al centro dello spazio, non vediamo altre immagini. Vediamo un muro bianco, e tanti piccoli fori circolari: è qui che la fotografia diventa spionaggio, noi dietro un muro a vedere cosa si nasconde al di là, piccole immagini di cui non riusciamo, con un occhio aperto e uno chiuso, a scorgere i confini. I limiti e il voyeurismo propri del mezzo fotografico – questa distanza obbligata dal soggetto, questo guardarlo sempre dietro la macchina, sempre con un occhio aperto e l’altro chiuso, sempre a spiarlo – diventano l’unico senso in cui guardare chi vive sul confine.

La fotografia allora si fa metafora del suo messaggio, un messaggio che ci parla di una realtà geopolitica più che attuale e, allo stesso tempo, dell’atto stesso del fotografare. Molta teoria è racchiusa in questo muro bianco e nei suoi piccoli fori, nel vedere sé stessi e le altre persone piegate per cercare di guardare cosa c’è al di là.
Il format del festival è semplice, leggero – un bijoux, come si direbbe parlandone con qualcuno ad alta voce – visitabile in tempi che permettono la sosta e la riflessione. Un piatto che potrebbe essere più ricco, va detto, ma questa più che una nota critica è un augurio, perché le basi e la visione mi pare siano solide. L’unico vero appunto è la segnaletica: qualche cartello in più. Per chi ha scarsissimo senso dell’orientamento, come me, anche un piccolo borgo può risultare labirintico, sebbene sia un destino felice perdersi in una simile cornice.
Carola Allemandi