Visitando una mostra, spesso non ci si sofferma a ragionare sul grande lavoro che la precede, tutte quelle fasi che portano all’esatta selezione che alla fine vediamo, alla loro sequenza, a quella precisa posizione nello spazio. C’è chi invece di questa pratica fa un pensiero strutturato, con obiettivi precisi. Kublaiklan è un collettivo attivo dal 2016 specializzato in progetti di curatela e allestimenti legati alla fotografia, al suo potenziale relazionale quando vissuta nello spazio, anche e soprattutto pubblico. Rica Cerbarano, una delle fondatrici del collettivo, ci ha portati dentro il mondo di Kublaiklan, dalla sua storia al suo modo di vedere e far vedere la fotografia, dalle sue sfide ai suoi desideri per il futuro.
Cos’è Kublaiklan? E dove, quando, come è nato?
Kublaiklan è un collettivo, costituito in forma di associazione culturale, attualmente composto da quattro persone. Ci siamo conosciuti al festival Cortona On The Move nel 2016 e, lavorando all’interno del festival ci siamo resi conto che avevamo una prospettiva condivisa sulla fotografia. Allo stesso tempo, non esisteva una realtà in cui ci potessimo riconoscere al cento per cento. Così abbiamo capito che potevamo creare noi qualcosa da zero, metterci insieme, unire le forze. Un aspetto curioso, che è diventato anche un nostro segno distintivo, è il fatto che viviamo tutti in città diverse: Torino, Bologna e Ostuni. Grazie a questa dislocazione siamo sempre riusciti a lavorare in maniera molto nomade, collaborando con diversi festival in giro per l’Italia, e ci siamo accorti che le persone hanno iniziato a percepire che siamo presenti in più posti, che non c’è un luogo specifico che ci caratterizza in senso assoluto. Da questo aspetto è nato il desiderio di lavorare in stretta collaborazione con le comunità e con i territori in cui ci caliamo: non attraverso eventi “stagionali”, com’è in fin dei conti la struttura di un festival. A questo proposito, una piccola grande anticipazione: stiamo lavorando per aprire uno spazio a Torino!
Il tema dell’allestimento di una mostra, fotografica ma non solo, rimane molto spesso nel dietro le quinte, non se ne parla molto. Cosa vuol dire allestire una mostra, per Kublaiklan?
È vero, non se ne parla molto. Noi per tanti anni siamo stati quelli che disegnavano gli allestimenti, che si occupavano dell’exhibition design, della produzione e che poi allestivano le mostre, anche con le proprie mani. Nel corso del tempo questa prima struttura si è spostata anche verso la curatela. Per esempio, a Cortona On The Move, dove siamo arrivati come assistenti, negli ultimi due anni ci siamo occupati della curatela fotografica insieme al direttore artistico Paolo Woods.


Sebbene la dimensione allestitiva ci caratterizzi, e lo farà sempre, non siamo solamente exhibition designers: è molto presente un discorso più ampio di curatela, di interazione con un pubblico generalista e non soltanto di addetti ai lavori, che ci porta ad approfondire anche aspetti molto importanti di educazione visiva.
Il pensiero dietro ogni mostra, è proprio quello di capire come il lavoro possa prendere forma in quel dato luogo e arrivare al pubblico. Capire, cioè, che tipo di allestimento richiede il lavoro fotografico per fare in modo che arrivi alle persone nella maniera più immediata e più coinvolgente.
L’obiettivo è che il progetto fotografico ne emerga valorizzato, espresso nella sua piena potenzialità comunicativa.
Infatti credo sia difficile mantenere un equilibrio tra l’intenzione dell’autore, la natura del progetto, e il modo in cui si vorrebbe interpretare il lavoro.
Sì, devo dire che noi, nell’interazione con gli autori, non abbiamo mai avuto alcun problema. Abbiamo sempre privilegiato il dialogo e un approccio collaborativo, trovando sempre un compromesso. Ciò che ci ispira molto, oltre naturalmente al progetto, è la location: è veramente raro che si progetti qualcosa a prescindere dallo spazio espositivo. Per noi il luogo in cui la mostra accade fondamentalmente è la chiave, no? È lì che entrando ci immaginiamo in maniera anche abbastanza impulsiva e spontanea quale può essere la forma del lavoro. Magari non subito in modo definito, ma seguendo le suggestioni, le vibrazioni che i luoghi ci comunicano. Questo è fondamentale.
E il nome? Da dove arriva?
Il nome Kublaiklan ha una storia, ovviamente: un punto di riferimento e d’ispirazione importante per noi è “Le città invisibili” di Italo Calvino. Inizialmente quando facevamo un po’ di brainstorming sulla natura del collettivo, ci piaceva immaginarci come Kublai Khan, a cui Marco Polo racconta le storie raccolte girando per il mondo, sentendoci a nostra volta gli uditori privilegiati delle esperienze dei fotografi con cui lavoriamo, che vengono a raccontarci le storie del, e dal, mondo. Poi si è storpiato in “-klan”, perché siamo un collettivo, un gruppo. Non c’è una vera e propria ufficialità, ma la storia è un po’ questa.
Mentre il logo è composto da quattro forme che creano quella che potrebbe sembrare una kappa, e allo stesso tempo vuole riprendere consapevolmente un schema di exhibition design di Herbert Bayer. Bayer, che citiamo spesso anche nei nostri interventi, fu un grafico della Bauhaus e tra i primi exhibition designer della storia, se non il primo, e padre della teoria del campo visivo esteso, un modo di concepire le mostre molto più esperienziale, al di là dell’esposizione lineare, sviluppato in varie prospettive e livelli. Un pensiero che abbiamo fatto nostro, che mira a una funzione molto più fisica, anche corporea, dello spazio espositivo.
Il vostro sito si articola in tre sezioni: ricerca, educazione e design. Me ne parli?
La “ricerca” è la parte curatoriale, quei lavori in cui oltre a progettare il design dell’allestimento scegliamo la cornice curatoriale al cui interno si muoverà il lavoro.
Un progetto molto interessante che abbiamo realizzato due anni fa è stato quello con Robin Lopvet, artista a cui commissionammo un progetto collaborativo con la comunità del quartiere Certosa, con l’obiettivo finale di realizzare un allestimento nello spazio pubblico. In quel caso, l’intenzione era quella di rafforzare il senso di appartenenza dei partecipanti verso il loro quartiere, celebrandone la ricchezza e la diversità.

In questo “contenitore” si inseriscono tutti i progetti curatoriali in cui sempre di più sarà presente un’impronta di partecipazione, collaborazione e, quindi, di funzione relazionale della fotografia.
La parte “educazione” è relativa al nostro lavoro nell’ambito dell’educazione visiva. Lavoriamo tanto con le scuole, realizzando attività con bambini e adolescenti, e collaboriamo con realtà legate alla fotografia come lo IED o Spazio Labò per la parte di workshop sulla curatela e l’exhibition design. Come dicevo prima, adesso vorremmo concentrarci maggiormente su un tipo di lavoro più profondo con le comunità, in cui la fotografia viene concepita come strumento di interazione e di relazione con le persone e tra le persone. Ci dedicheremo soprattutto a progetti partecipativi con una restituzione espositiva, che comunque rimarrà il nostro ambito privilegiato.
Infine, “design” è la sezione che riguarda i lavori di progettazione di allestimenti a servizio di terzi. Per esempio, l’anno scorso abbiamo collaborato con PhotoVogue Festival, un’esperienza molto positiva in cui abbiamo dovuto gestire un evento di grandi dimensioni.
Tra i vostri progetti più rappresentativi quali menzioneresti?
Sicuramente “The Cooling Solution”, realizzato nel 2023 in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, con le fotografie di Gaia Squarci. È stato uno dei progetti in cui abbiamo messo in campo a 360 gradi tutte le nostre competenze: la curatela, la progettazione, il design editoriale, la dimensione interattiva con i visitatori, e il lavoro nello spazio pubblico. In quel caso, ad esempio, ci furono molte sfide, tra cui quella principale di rendere un progetto di ricerca scientifica (che comunque aveva già una componente di divulgazione seguita da Jacopo Crimi) fruibile e immediato, in grado di coinvolgere un pubblico più ampio possibile. Una delle soddisfazioni più grandi è stata vedere una partecipazione così ampia da dover sostituire più spesso del previsto i pannelli con le infografiche “interattive”, perché gli sticker che le persone vi attaccavano finivano per coprire completamente il disegno, così come sapere che avevamo ottenuto un livello di coinvolgimento del pubblico tale che i dati emersi dalla mostra furono poi inseriti nella ricerca scientifica del progetto.

Molto bello è stato anche il nostro primo progetto partecipativo, che abbiamo realizzato nel 2019 con Cortona On The Move in occasione del cinquantesimo anniversario della sede italiana dell’Università della Georgia americana. Per l’occasione curammo una mostra in uno spazio pubblico di Cortona e un catalogo, raccogliendo fotografie di archivio dei loro cinquant’anni. Un lavoro durato più di un anno in cui abbiamo raccolto, tramite un’open call, centinaia di immagini provenienti dagli ex studenti negli Stati Uniti oppure dai cortonesi con cui avevano fatto amicizia.

In quel caso fu emozionante vedere le persone riconoscersi nelle fotografie, ripercorrere una storia fatta di relazioni profonde, alcune durate negli anni. Questa è la direzione che sempre più vorremmo prendere per i nostri progetti, per sviscerare questa potenzialità latente della fotografia.
La fotografia, scrivete sul vostro sito, ha quattro dimensioni. Quali?
Proprio a questo fa anche riferimento il nostro logo, che ha effettivamente quattro parti che sintetizzano le modalità con cui si può fruire della fotografia oggi: quello verticale della mostra, quella piatta del libro, quella luminosa dello schermo (ci interessa anche molto ragionare sulla circolazione delle immagini sui social network o in contesti digitali) e poi una quarta dimensione ancora da scoprire, in espansione, che abbraccia altri linguaggi, altri universi, altri codici. Nel nostro modo di lavorare con la fotografia sono sempre presenti altri elementi: l’installazione, il testo, la grafica, il design…
Il punto per noi è avere – e trasmettere – la consapevolezza che anche nel quotidiano la fotografia non è mai neutra, non agisce mai da sola, ma sempre in un contesto e su un supporto. Un’immagine viene influenzata da ciò che le sta attorno, sia dal punto di vista della lettura che del messaggio che trasmette. Questa quarta dimensione ancora aperta, senza confini netti, è quella che cerchiamo effettivamente di esplorare con il nostro lavoro, vedendo la fotografia sempre più come strumento relazionale, di interazione e dialogo con le persone.
Carola Allemandi