Per un motivo molto preciso questa immagine ha catturato da subito la mia attenzione: il paradosso che crea vedere le ciminiere sovrapposte, accavallate visivamente una sull’altra, e i bambini che corrono ben separati tra di loro. Almeno, a me ha colpito molto questo dettaglio. Tendenzialmente, infatti, sta a chi si muove la possibilità di entrare nella traiettoria di un altro corpo mobile, intersecandone le linee immaginarie del movimento, sovrapponendosi e incrociandosi; mentre è delle cose immobili, sempre in linea teorica, la facoltà di restare dove si è, separati dal resto nei propri confini netti.
Nell’immagine di Bill Brandt, uno dei più influenti fotografi del Novecento, si verifica invece, nell’attimo in cui prese l’immagine, esattamente l’opposto. Un’inversione che congela la corsa dei bambini e che quasi rende corpi animati quelli delle ciminiere.
In una bella intervista “Bill Brandt – Masters of Photography BBC [1983]” Brandt ricostruisce il momento in cui scattò l’immagine: il momento fu visto al volo da Brandt, incantato e fortunato nel trovare una composizione già così perfetta, a cui non dover aggiungere o togliere nulla. Proprio nel suo posizionarsi per scattare, però, i bambini vedendolo si misero a correre, animando d’un tratto quel frammento di città industriale, invasa dai fumi e dalla nebbia.
Proprio una corsa improvvisa genera il movimento dei bambini, che non si sfioreranno neanche prospetticamente tra di loro. Mentre alti dietro di loro incombono i due angeli industriali a formarne uno soltanto. Sta quasi più lì il dinamismo dell’immagine, che è diverso dal dinamismo di una scena realmente vissuta: non sono i cinque bambini in corsa che scuotono da dentro la disposizione immobilizzata della fotografia, bensì proprio l’accavallamento delle torri, questo esser divenute l’una la protesi dell’altra, il loro corpo solo eterogeneo che genera un salto percettivo, un comportamento insolito, come di animale alieno.
Le case sono nere, poi. Annerite totalmente nel processo della camera oscura, senza più confini definiti se non quelli più perimetrali, che diventano i contorni, anche qui, di un unico assembramento, un’unica entità non più architettonica o abitativa, ma mutamente scenografica, su entrambi i lati. Il distinto può diventare un frammento di un’anatomia più grande, confluire in un altro essere, trasformando così di fatto il paesaggio intero. Anche l’intrecciarsi continuo dei binari sulla destra non è che il dettaglio finale che fa della presenza umana l’entità più stabile della scena, e il paesaggio costruito il più vitale. Il movimento dell’immagine segue regole diverse da quello fisico dell’uomo.
Sempre nell’intervista citata poco sopra, a Brant viene fatta una domanda specifica, richiamando un ipotetico confronto col fotografo francese Henri Cartier-Bresson:
- Intervistatore: “Esiste secondo lei un momento decisivo per scattare una fotografia?”
- BB: “No, non credo, non penso. Ci sono però cose che non si potrebbero più vedere oggi.”
Con queste poche parole, Bill Brandt segna una cesura tra quello che è il tempo dell’istante e il tempo storico. Halifax non è più in alcun modo simile a come la vediamo nella fotografia del 1937, non esiste più la stazione, l’assetto urbanistico è cambiato, e l’immagine è di fatto la possibilità di vedere ancora ciò che, pur durando più di un solo istante, è comunque scomparso ormai alla nostra vista.
Nel limitato insieme di elementi compresi nell’inquadratura, compare il cartello “Catch point”, segnale di sicurezza ferroviario per il deragliamento di treni non autorizzati.
Letteralmente traducibile in “punto di presa”, pare un suggerimento inconscio interno all’immagine: come se fosse il mondo stesso a sapere da dove farsi guardare e quindi fotografare, come se il nostro fosse sempre e solo una ribellione a indicazioni così chiare.
Immagine di copertina di questo articolo “© Bill Brandt – Halifax 1937” è cortesemente concessa da Bill Brandt Archive