Ce lo diciamo da un po’, non è un mistero: produciamo troppe immagini, e lo facciamo ogni giorno, anzi ogni secondo. È curioso come il linguaggio comune abbia ormai adottato il verbo “produrre”, a conferma di quanto il fotografare sia diventato un automatismo più vicino a una nevrosi che a un gesto lento, meditato. Eppure, avremmo bisogno di recuperare proprio questo: l’abitudine a fermare lo sguardo, a restituire profondità all’esperienza visiva, a dare alle immagini un valore che non sia soltanto quello, sterile, della quantità.
È questo, in fondo, il cuore della visione presentata da Canon Italia con l’evento romano “Reframe” del 10 e 11 novembre 2025, dedicato ai professionisti e alla stampa di settore: un invito a ripensare l’imaging come un ecosistema completo, un percorso che parte dallo scatto e si compie soltanto quando l’immagine torna a essere materia, cioè stampata.
Canon affronta questa riflessione forte dei suoi novant’anni di storia, rappresentati visivamente con la metafora dell’albero: radici che affondano nel secolo scorso, un tronco solido alimentato da undici centri di ricerca nel mondo, rami che si aprono alle molteplici forme contemporanee della narrazione visiva, dalla fotografia al video, dalla stampa professionale ai software che accompagnano e potenziano il lavoro dei creativi. È una storia che comincia lontano e che oggi, grazie alla continuità dell’innovazione, si offre a fotografi e videomaker non banalmente come un insieme di prodotti, ma per l’appunto come un vero ecosistema pensato per liberare lo sguardo, per eliminare il superfluo, per restituire al gesto creativo la sua immediatezza.

Nel linguaggio delle tecnologie che Canon mette a disposizione – l’autofocus intelligente che riconosce e memorizza i volti, la registrazione simultanea in 16:9 e 9:16 pensata per chi lavora anche sui social, la flessibilità dell’open gate nelle videocamere Cinema EOS, ultimamente anche sulle fotocamere, solo per citarne alcune – c’è l’idea che la macchina debba diventare una soluzione discreta che permette di concentrarsi non sulle impostazioni, ma sulla storia, sul momento irripetibile, sul frammento di vita che il fotografo tenta di afferrare. Dall’altra parte, il tema centrale, forse il più affascinante, è la Total Imaging Experience, il viaggio che dall’immagine digitale ritorna alla materia: il piacere di stampare, di toccare, di dare consistenza fisica a ciò che altrimenti rimarrebbe sospeso in un cloud o ridotto anonimamente a una sequenza di zeri e uno. È un processo che sta conquistando in particolare i più giovani, sempre più attratti da esperienze concrete: lo smartphone va bene, certo, ma il mondo deve essere fatto anche di oggetti reali, mi viene da dire: analogici.
Proprio grazie a questa riscoperta, veniamo a sapere che la piccola EOS R100 ha riportato molti ragazzi a desiderare una fotocamera vera, vale a dire uno strumento che richiede attenzione, scelta, pazienza, e che proprio per questo apre uno spazio diverso nello sguardo, anzi costringe a guardare davvero. In questa visione, la scelta di affiancare alla stampa professionale soluzioni più accessibili e immediate come Selphy e Zoemini diventa parte integrante del discorso: piccole finestre su un mondo in cui la fotografia torna a essere gesto conviviale, memoria istantanea, oggetto che passa di mano in mano durante una festa o un matrimonio e che trova nella fisicità un modo per restare.



Nel mondo dei commenti facili, pieni di consigli non richiesti, vale la pena ricordare che gli strumenti non limitano la creatività: la stimolano. Cercare ossessivamente i difetti di un prodotto finisce per rendere sterile qualsiasi discussione e ci allontana dall’unica cosa che dovrebbe interessarci davvero: le opere. Ed è in questo senso che va riconosciuto a Canon il merito di essere attenta alle esigenze future, investendo in segmenti che presto diventeranno centrali, come quello dello Spatial Computing, un territorio che preannuncia un cambiamento profondo: riprese immersive, ambienti navigabili, narrazioni che non si fermano più ai confini rettangolari della cornice, ma diventano spazi tridimensionali da esplorare. I casi d’uso non appartengono a un futuro ipotetico, sono già qui. Gli sposi che rivivono il loro matrimonio dentro una ripresa immersiva; gli alberghi che permettono di visitare da casa camere e ambienti; i medici che si formano su procedure complesse grazie alla combinazione di immagini reali e digitali; la moda che costruisce showroom senza campionari fisici; la Mostra del Cinema che a Venezia ha dedicato un’intera isola all’esperienza immersiva. La tecnologia è pronta, e con essa una nuova grammatica visiva che richiede non tanto strumenti diversi, quanto un nuovo modo di raccontare.


Durante l’evento ho avuto anche modo di provare la nuova R6 Mark III e l’impressione è stata subito chiara: una fotocamera solida, reattiva, costruita con quella sicurezza operativa che è poi la cifra distintiva della casa giapponese. Il sensore restituisce immagini pulite e una gamma dinamica generosa, mentre l’autofocus – veloce e preciso – segue il soggetto con grande naturalezza. L’ho provata con ottiche di fascia alta e con soluzioni più leggere, come il 28mm pancake, una lente sorprendente nella resa, proprio come il nuovissimo 45mm con la sua apertura massima f1.2, ma a un prezzo da urlo. È stato proprio usando questo 28mm, così come il 45mm, due focali che amo moltissimo, che mi sono accorto di qualcosa che, personalmente, sento mancare nell’attuale offerta Canon: una vera fotocamera “da strada”, un corpo pensato per privilegiare compattezza, discrezione ed essenzialità, qualità indispensabili per muoversi tra le persone senza attirare l’attenzione. Il pancake provato, in particolare, rappresenta già un buon punto di partenza, piccolo e leggero quanto basta, ma l’impressione è che manchi ancora un progetto davvero votato a questo linguaggio, uno strumento capace di sparire nella scena e di lasciare che sia lo sguardo – e non la presenza fisica del fotografo – a guidare il racconto.


È una sensazione che avverto da tempo: la tecnologia c’è, ed è ottima, ma ciò che non si trova – e che personalmente mi manca molto – è una macchina pensata specificamente per la street photography, dove la capacità di restare inosservati è parte integrante della pratica. Le soluzioni Canon attuali parlano soprattutto a utenti molto professionali e, per quanto riguarda le soluzioni più accessibili, accompagnano chi inizia verso un percorso di crescente consapevolezza, quasi un avvicinamento naturale al mestiere. È un approccio che funziona, assolutamente condivisibile, coerente con l’identità del marchio e con la logica di un ecosistema solido. E proprio perché la qualità tecnica non è in discussione, risulta ancora più evidente – per chi ama fotografare la strada – la difficoltà di lavorare con quella discrezione che il genere richiede. Con gli strumenti attuali si può fare street, certo, ma non è semplice passare inosservati, e questa è forse la mancanza che avverto più chiaramente. E infatti, è un po’ di tempo che chiedo a Canon una versione digitale della bellissima Canonet.

A completare il viaggio all’interno della Total Imaging Experience, Canon affianca una serie di software che spesso rappresentano l’anello mancante tra attrezzatura e flusso operativo: Digital Photo Professional per lavorare sul RAW, Image Canon per collegare direttamente la fotocamera al cloud, Camera Connect per gestire l’attrezzatura da remoto e condividere in tempo reale, Canon Transfer Utility per chi lavora in contesti sportivi e ha bisogno di inviare i file immediatamente, Poster Artist per coordinare i flussi di stampa. È un mondo che vive di strumenti, ma soprattutto di conoscenza, ed è per questo che Canon, come altre aziende illuminate, investe tanto nella formazione: masterclass dedicate, webinar, incontri tematici su wedding, fashion, education, e – per chi vuole toccare con mano – le visite al Customer Experience Center di Cernusco, uno spazio dove vedere, provare e soprattutto comprendere ogni parte dell’ecosistema.



A tutto questo si aggiunge il CPS, il Canon Professional Services, un servizio a pagamento che però per molti professionisti rappresenta la differenza tra una giornata di lavoro persa e una salvata: priorità nelle riparazioni, apparecchiature sostitutive, supporto tecnico negli eventi, possibilità di testare in anticipo le novità. Un promemoria di quanto il supporto umano resti fondamentale, anche in un settore che corre veloce verso l’automazione. In questo stesso quadro Canon ricorda anche l’importanza di rivolgersi a rivenditori certificati: solo loro possono garantire prodotti destinati al mercato europeo, assistenza reale, accesso alla formazione e ai servizi.


In un’epoca in cui si cerca sempre il prezzo più basso, l’azienda invita a considerare che il vero costo non è quello riportato in fattura, ma quello dell’intero ciclo di vita dell’attrezzatura. In definitiva, “Reframe” non è solo un progetto o uno slogan, ma un invito a tornare a guardare ciò che credevamo di conoscere: la fotografia, il video, la stampa, i nuovi linguaggi immersivi. Canon propone di farlo con una prospettiva più ampia, capace di accogliere il passato e di aprirsi al futuro. E forse, oggi più che mai, è proprio questa la sfida: imparare a vedere ancora, in un mondo che sembra aver già visto tutto.
Federico Emmi
Le fotografie sono state scattate durante l’evento Canon Reframe a Roma, il giorno 11 novembre 2025, fanno parte dell’archivio Federico Emmi. Nei blocchi confronto immagini, la fotografia a colori è solamente convertita in jpg, senza alcun intervento, mentre il bianco e nero è mio. L’obiettivo RF 28mm F2.8 STM è una lente fantastica per il reportage di strada e il bianco e nero è davvero poetico. Il nuovissimo RF 45mm F1.2 STM, leggero ed economico, è assolutamente valido, la leggera vignettatura è in grado di dare una certa atmosfera alla scena, consigliato soprattutto per un utilizzo street.