Conoscere o ignorare

Arrivata davanti al cancello di casa, apro il vano nel cruscotto dell’auto e premo il pulsante del telecomando ivi riposto: il portone si apre, nonostante non sappia cosa effettivamente io abbia attivato affinché le due ante mi lascino accedere ai box.

A breve sarà la festa della donna ed in suo onore alcune persone di genere femminile si ritroveranno gioiose ad assistere ad uno spogliarello maschile.

Il 15,6% degli italiani oggi nega l’Olocausto; sedici anni fa erano solo il 2% della popolazione, secondo il rapporto Eurispes del 2020.

Cosa hanno in comune queste tre affermazioni? Pare effettivamente molto poco, ma, a ben riflettere c’è qualcosa che le accomuna: l’inconsapevolezza.

Su Google alla parola “inconsapevolezza” troviamo: «totale mancanza di cognizione o di valutazione». Rileggendo le tre affermazioni presumo sia evidente che l’inconsapevolezza che le accomuna non ha lo stesso peso, né la stessa connotazione; non conoscere il meccanismo che attiva l’apertura del cancello, non ricordare il motivo che ha portato alla festa donna celebrandola in modo quanto meno poco coerente, dimenticare fino a negare un fatto storicamente esistito è probabile e lecito generi in noi diverse reazioni: ci può essere indifferente il caso del portone; può irritarci il caso della festa della donna; possiamo infine indignarci relativamente alla Shoah negata.

Non conoscere i processi che sottendono molti dei gesti che compiamo quotidianamente è spesso inevitabile, altrettanto frequentemente incolpevole, così come nulla ci vieta di non conoscere la storia ed i fatti che ci hanno preceduti.

Conoscere fatti e meccanismi, tuttavia, è innegabile possa portarci ad assaporare la vita e le nostre attività in maniera totalmente diversa.

Proviamo a pensare a cosa facciamo quando estraiamo il nostro cellulare o la nostra fotocamera per scattare una fotografia; sì, la domanda è esattamente: COSA? Cosa stiamo facendo? Abbiamo la certezza di cosa stiamo realizzando? O, meglio, la consapevolezza, ricollegandoci alle all’apparenza improbabili affermazioni in apertura?

La Fotografia ha così tante declinazioni che è decisamente difficile dare una sola risposta, oppure, al contrario essa è definitivamente una sola cosa, ma sono tante le motivazioni e i modi con i quali ci approcciamo ad essa, sia come produttori (fotografi in senso lato) che come fruitori (osservatori)?

In merito alle motivazioni, cosa spingeva Nadar a fotografare agli albori della nascita della fotografia? Cosa ha portato Li Wei alle sue performance fotografiche (“Falls”)? Cosa provava Talbot nel realizzare i suoi disegni fotogenici, cosa voleva dimostrare Moholy-Nagy dedito ai suoi fotogrammi o Man Ray alle sue solarizzazioni? Perché Vivian Maier scattò e sviluppò grandi quantità di rullini, abbandonandoli in scatoloni senza mai stampare? Cosa spinse Sally Mann a utilizzare la tecnica del collodio umido per le sue fotografie “Immediate family”?

Cosa spinge molti attuali fotografi avvezzi ad utilizzare il digitale a tornare alla pellicola? Cosa anima i detrattori della fotografia digitale o al contrario coloro che hanno in essa ravvisato una rivoluzione? Cosa spinge la gran parte di noi a estrarre il cellulare per scattare un selfie o la fotografia delle vacanze per pubblicarla subito dopo sui social network?

Di questo passo le domande potrebbero davvero moltiplicarsi, affollando la nostra testa sia di fotografi che  di osservatori innamorati delle fotografie.

Rispetto a questi ultimi, però, il fotografo si fa produttore di una immagine fotografica, a differenza dell’osservatore ha inevitabilmente un ruolo attivo e dunque una responsabilità nel processo che genera una fotografia; sempre, anche quando inconsapevolmente (ecco tornare al punto all’inizio dell’articolo) estrae dalla tasca uno smartphone e scatta, accompagnato sovente dal suono dell’otturatore di una macchina fotografica di altri tempi.

A partire dalla conoscenza del processo, del meccanismo, che genera una fotografia (al pari di quello che consente al cancello automatico di aprirsi), fino alla storia della fotografia dal 7 gennaio 1839 (ancor prima in realtà!) ad oggi (sì, la stessa Storia della festa della donna o della recente Shoah) è probabile troveremo una risposta diversa al “COSA” di cui sopra.

A meno di desiderare di restare inconsapevoli sia dei meccanismi che della storia percorsa prima di noi, diritto sacrosanto; il rischio, tuttavia, è quello di non essere neppure davvero coscienti di ciò che abbiamo generato; di crederci innovativi, quando in realtà non solo non siamo più originali, ma neanche autentici; di produrre fotografie dettate dalla «paura di perdere lettori e non dal desiderio di mostrar loro qualcosa di necessario» come scrive Michele Neri nel suo “Photo Generation”; di fare citazioni irriverenti o di perdere l’occasione di un confronto pregnante fatta salva, salda e nutrita la nostra creatività.

Photo Generation, Michele Neri
Edizioni Gallucci, 2016

La questione del cosa stiamo facendo, quando realizziamo una fotografia, è peraltro figlia di tutta la diatriba relativa ad essa sin dalla sua nascita; una sorta di peccato originale suo malgrado. Irrompeva nel mondo del visuale, fino ad allora dominato dalla pittura, fu salutata con entusiasmo, da un lato, ma dall’altro non le fu concessa licenza di esistere senza domande. Famosissima è l’invettiva di Charles Baudelaire che certo con essa non fu tenero (anche se altrettanto famosi sono i suoi ritratti ad opera di Nadar).

Claudio Marra con i  suoi saggi “Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre)” e “L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale” è illuminante; altamente consigliabile è la lettura di entrambi proprio riguardo alla domanda sul cosa sia la fotografia.

Edizioni Mondadori, 2012 e 2006
Edizioni Bruno Mondadori, 2012 e 2006

Affrontano la questione sotto il profilo tecnico, artistico e semiotico, confrontando la fotografia alla pittura e relativamente alla poetica sottesa ad ogni corrente artistica del Novecento nel primo libro citato; riflettendo sui cambiamenti più o meno “rivoluzionari” che la tecnologia digitale ha portato con sé, nel secondo saggio menzionato.

Scopriremo allora (tra le tante altre meravigliose riflessioni che ci propone Marra) che «le immagini raccolte nei nostri album o magari quelle conservate con affettuosa cura nei nostri portafogli sono innanzitutto straordinari oggetti concettuali» (da “Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre)”) o che la fotografia digitale che appare ad alcuni rivoluzionaria perché dona al fotografo l’ampia possibilità di manipolare l’immagine ridandogli grande potenzialità sotto il profilo della manualità e quindi presunta artisticità (al pari della pittura), in realtà nega quanto la fotografia abbia saputo incarnare in pieno tutta la arte del Novecento, rivoluzionata in primis da Duchamp e il suo ready-made, il “tale e quale” («la fotografia si presenta come forma di presa diretta sul reale, proponendosi in arte come parente stretta del ready-made», da “L’immagine infedele….”). Baudelaire non ce ne voglia.

Qualche nostalgico della pellicola potrebbe anche rimaner deluso dalla sua osservazione che il cuore di una fotocamera digitale è comunque analogico, anche se governato dall’elettronica anziché dalla chimica e che dunque quella magia che tanto decantano nella pellicola è poi sempre quella della luce, imprescindibile, anche nel digitale.

Più cavillose, ma assolutamente altrettanto godibili le riflessioni di Marra (nel secondo saggio sopra citato) relativamente al valore semiotico della fotografia analogica e di quella digitale: indice la prima, icona la seconda (secondo Pierce). Il rimando alla lettura del libro è d’obbligo.

Qualcuno potrebbe obiettare che si stia facendo la punta agli spilli, ma arte e linguaggio non sono certo questioni liquidabili e di poco conto.

Tutta l’evoluzione della fotografia passa attraverso queste domande, perché non dovremmo continuare ad interrogarci?

Ripercorrere la storia della Fotografia, ad esempio attraverso il volume di Italo Zannier “Storia e tecnica della fotografia”, o il classico “Storia della Fotografia” di Beaumont Newhall  non è dunque solo una questione culturale, ma decisamente un faro nella notte della totale inconsapevolezza che attualmente pare non sempre avere il sapore dell’innocenza, ma piuttosto quello della superficialità.

Edizione Einaudi, 1984; Edizione Hoepli, 2009

Soprattutto oggi, dove si rischia di sentirsi in totale balia della bulimia fotografica dei giorni odierni; interessantissimo in proposito l’esperimento di  Erik Kessels “24 hours in photos”, risalente ormai ad una decina di anni fa, in cui l’artista stampa tutte le foto pubblicate su Flickr in una giornata e le versa in una stanza del Foam di Amsterdam, ammassate e incombenti; che succederebbe oggi se lo stesso esperimento fosse eseguito per Instagram o Facebook?

È facile perdersi d’animo, desistere addirittura dal fotografare; può forse venirci in aiuto Socrate: «È sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s’illude di sapere e ignora così la sua stessa ignoranza». Forti di questa ennesima consapevolezza sommata alle altre possiamo allora riprendere a fotografare, anche senza pensare.

 

Luisa Raimondi

 

2 replys to Conoscere o ignorare

  1. Interessante, molto. Non sono d’accordo però sul fatto che sia giustificato il “non sapere e magari, come sempre accade, commentare, giudicare o giustificare.

    1. Ciao Stefano, grazie per aver letto l’articolo e per il tuo feedback! Non giustifico affatto il non sapere ed il successivo commentare o giudicare; la mia idea, ed è ciò che sostengo nell’articolo, è esattamente l’opposto. Però non c’è alcun obbligo ad informarsi, siamo liberi di decidere di restare inconsapevoli, anche se lo ritengo un grande peccato.

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