Dal fotogiornalismo alla prima persona singolare. Ovvero: da sé all’altro

Il Festival della Fotografia Etica e L’ora senza ombre

Il fotogiornalismo appartiene a un linguaggio visivo a cui tutti siamo abituati, forse addirittura assuefatti. È un tipo di immagine di cui sappiamo già tutto, al punto di sapere cosa aspettarci quando se ne parla o ci viene mostrato in mostre o libri.

Ѐ quel genere di fotografia in cui lo sguardo è costantemente dato a ciò che è altro da noi: è la ricerca, nell’altro, di qualcosa che va per forza detto e fatto vedere.

L’uomo pare possedere una sensibilità innata per le storie degli altri, una forma di empatia grazie alla quale può ricevere di rimando quei messaggi utili a capire meglio come condurre la propria esistenza, collocarsi nell’ambiente, fare supposizioni sul futuro, trovare regole generali per comprendere il mondo.

Guardare l’altro significa proprio questo: trovare uno e centomila specchi che possano parlarci, rimandare una figura che ci guidi nella complessa estraneità in cui siamo immersi.

Il reportage allora può essere considerato il culmine in cui lo sguardo dell’uomo è chiamato a cercare e chiamare a sé tutto quanto lo possa svegliare dal sogno (o l’incubo) di essere da solo.

A Lodi, fino al 27 ottobre, sarà visitabile la quindicesima edizione del Festival della Fotografia Etica diretto da Alberto Prina, omaggio in 20 mostre ai migliori esempi del fotogiornalismo internazionale.

©Giles Clarke 2- Haiti in Turmoil

Un mosaico assolutamente eterogeneo che ci ricorda di colpo la contemporaneità. Non soltanto nel suo senso più generale di periodo storico in cui noi e altri coesistiamo, ma anche nel senso della simultaneità in cui le nostre e le altre vite si trovano a svolgersi. Siamo tutti qui allo stesso tempo: gli abitanti di Haiti afflitti dalla guerra civile fotografati da Giles Clarke, le battaglie sull’emergenza climatica in Germania e documentate da Ingmar Björn Nolting, i nomadi del Regno Unito (Eszter Halasi), i familiari che, dopo 30 anni, vedono restituiti i propri cari rimasti vittime della guerra civile peruviana (Musuk Nolte).

La fotografia non genera storie vere e proprie, ma frammenti di storie, e in questo punto va individuato il cardine per comprendere il suo potere evocativo. La storia vera è laggiù, dove noi non andremo mai; ora siamo di fronte ai pezzi che ci vengono portati a testimonianza della narrazione che rappresentano, ai volti e agli ambienti di centomila “altri”; specchi a dirci chi non siamo.

Noi non siamo quell’uomo, quella donna: il fotogiornalismo ci dice anche questo. Non siamo lì, in quel luogo. Ci tiene invece a ribadire l’opposto, che siamo noi e siamo qui, da un’altra parte.

Il fotogiornalismo parla sempre alla terza persona, singolare o plurale: è lui, lei, sono loro a vivere, simultaneamente alle nostre vite, la loro vita, di cui ignoriamo tutto – l’origine, la lingua, l’evoluzione – tranne il qui-e-ora in cui ci viene mostrata, gli scatti che vediamo.

©Ingmar Björn Nolting – 2- An Anthology of a Changing Climate

A Palazzo Modignani sono allestite quattro importanti mostre racchiuse sotto il titolo “Le vite degli altri” (appunto), e siamo di fronte all’emblema del nostro discorso quando, entrando nella prima sala, vediamo due immagini di Andrea Agostini. “Water is an act of faith” (L’acqua è un atto di fede) è il progetto dedicato alla documentazione del rapporto instabile che lega il popolo mozambicano all’acqua. Ecco allora due immagini di due donne, dritte in piedi su una roccia: statue immobili riflesse nell’acqua, una rigidità messa in dubbio dalla superficie su cui giunge la loro rappresentazione. Anche la solennità data dal punto di ripresa – dal basso in sù – viene fatta vacillare dal supporto in cui è stato rappresentato. L’altro è tutto qui: qualcosa di immobile e inconsistente, lontano da noi e intangibile quanto lo è il riflesso di qualsiasi cosa.

Negli stessi giorni della visita al Festival della Fotografia Etica, stavo affrontando una lettura inedita. Si tratta, potremmo dire, dell’opposto di tutto ciò che si vede nelle mostre a Lodi, del fotogiornalismo in generale. Ma non ne sono così certa.

“L’ora senza ombre” è il libro assolutamente sperimentale a cura di In allarmata radura edito di recente in collaborazione con Pidgin Edizioni, editore indipendente napoletano. Sedici autori e sedici fotografi, in direzione contraria rispetto a ogni pulsione documentativa, sono stati invitati a ragionare su(l) sé, a dare forma narrativa e contenuto al significato di essere se stessi.

“L’altro” raccontato dal fotografo diventa “l’altro” raccontato da se stesso; volti e ambienti sconosciuti vengono sostituiti dalle parole su cui ognuno salda la propria autocoscienza e percezione: il corpo, la memoria, il linguaggio, la casa, la morte sono la geografia breve su cui l’esistenza impara fin da subito a muoversi, il ventaglio di concetti che ne sorreggono l’impalcatura.

Ogni volto ritratto dice “Io”. L’altro siamo noi, il fotografo che scatta, chi non guarderà mai quest’immagine. E, allo stesso tempo, su ogni volto ritratto è puntato il dito, quello del fotografo, che indica “lui/lei/loro”. La simultaneità che si crea guardando una fotografia è la coesistenza, in un unico soggetto, della sua identità personale con l’estraneità che rappresenta per chi lo guarda.

In “L’ora senza ombre” a più riprese l’Io va a sbattere con l’altro, a ribadire quanto labile sia il confine tra di loro (noi?): “l’anima […] non può esistere senza la sua controparte, che si trova sempre nel Tu.” Mario Emanuele Fevola, nel suo saggio narrativo “Quando sono assente di me”, citando C. G. Jung scopre, anche sulla sua pelle, che l’altro è qualcosa messo apposta per confermare che ci siamo oltre al nostro stesso corpo.

Mi viene in mente un’immagine che non c’entra né col fotogiornalismo del Festival di Lodi, né con “L’ora senza ombre”. È un autoritratto di Martín Chambi (1891-1973), grande fotografo peruviano, che si ritrae mentre guarda, tenendola in mano, una piccola lastra contenente il negativo di un altro ritratto di se stesso. È un’immagine bellissima: tutta la viziosa vorticosità del nostro intendere noi stessi come qualcosa di identico ed estraneo simultaneamente è messa in sintesi dal gesto semplice di guardare qualcuno che non siamo già più, e che pure ci corrisponde ancora.

A ben guardare il fotogiornalismo che possiamo vedere a Lodi, come i testi e le immagini de “L’ora senza ombre” raccontano la stessa cosa. Essere immersi nella simultaneità del mondo rende il tragitto circondato di specchi, di volti che, parlando di sé, riflettono i nostri lineamenti. “Per appropriarsi del proprio cammino non si può fare a meno di calpestare quello degli altri” ci ricorda Fabiana Castellino ne “La teoria dell’incompletezza”. E ha ragione: nessuno può dire “Io” senza sentire sotto di sé aprirsi un baratro se non vede nessuno che possa assicurare che quell’”Io” corrisponda a qualcosa di reale.

Così come i soggetti senza volto a cui i fotografi Tito Ghiglione e Oswald Wittower danno vita nel libro di Pidgin sono gli alfieri (anche scacchistici, per ricordare il contributo di Leonardo Ducros) che, ognuno verso il proprio assoluto – il bianco o il nero – diventano ogni “altro” possibile.

La fotografia conduce sempre all’agonia – proprio nel senso etimologico di “lotta” – di specchiarsi in chi non siamo e lì comunque ritrovarsi: un processo che conduce allo stesso tempo fino alla totale frammentarietà e dissolvimento.

Lo dice bene – meglio – anche Alessandro Busi in “Rubacuori”: “fino a che rimane il fantasma del nome circondato da una corona di immagini.”

L’idea è proprio questa.

Carola Allemandi