In un passo de «Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino» (C. Collodi, 1881), il protagonista entra nel Gran Teatro dei burattini di Mangiafuoco mentre era in corso una rappresentazione teatrale e, immediatamente, viene riconosciuto da tutte le mascherine sul palcoscenico. Leggiamo: «Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate. La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini (…). Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico: — Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!… — È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella. — È proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena. — È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!… — Pinocchio, vieni quassù da me! — grida Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico. È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffìo dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale».
Leggendo questo brano sorge una domanda, ma come è possibile che i burattini abbiano riconosciuto Pinocchio, visto che era stato creato da un pezzo di legno solo qualche giorno prima per mano dell’estro e della fantasia di Geppetto? Inoltre non solo Pinocchio viene riconosciuto, ma viene anche denominato ‘fratello’ (riferimento che ha contribuito ad avvalorare l’ipotesi che Collodi fosse affiliato alla massoneria), così da farci intendere che il burattino non possedesse una precisa individualità e personalità, bensì fosse una vera e propria maschera che, in quanto tale, si collocherebbe al di fuori del proprio tempo proprio perché appartenente a tutti i tempi. Oppure potremmo appellarci al fatto che è una semplice fiaba o a semplici esigenze di svolgimento narrativo della storia, eppure a pensarci bene esiste un’altra strada interpretativa, ovvero l’ipotesi che Geppetto abbia semplicemente dato forma a qualcosa che c’era già, che preestiteva nel pezzo di legno; non a caso Pinocchio comincia a parlare ancor prima di essere trasformato in un burattino e lo fa «con una voce sottile sottile». Pertanto è lecito supporre che Arlecchino e Pulcinella avrebbero riconosciuto Pinocchio sotto qualsiasi forma egli si fosse presentato davanti a loro, proprio perché Pinocchio era già in essere nel pezzo di legno che maestro Ciliegia sbologna a Geppetto, il quale non fece altro che dargli una figurazione. Questa ipotesi sembrerebbe avvalorata anche dal fatto che l’intero libro descrive il percorso che compie il burattino per trasformarsi in un bambino in carne e ossa, e quindi le sfide, le cadute e le espiazioni che Pinocchio deve attraversare per diventare quello che è, ovvero ciò che è sempre stato in potenza e che si realizza nel suo vero sé, non sono altro che metafore delle sfide che ogni esistenza si trova di fronte a sé. Pinocchio è un’allegoria della trasformazione a cui ciascuno di noi è chiamato a compiere, ciò che Nietzsche esorta nel suo: «Diventa ciò che sei», perché il cammino verso noi stessi si compie solo se ascoltiamo e accettiamo completamente il richiamo animico, quella voce sottile sottile dentro di noi.
Il viaggio di Pinocchio è principalmente un percorso interiore, un viaggio dell’anima che passa attraverso una serie di scivolamenti verso il basso che rimandano, ma non cancellano, il vero scopo del nostro viaggio: l’individuazione del sé. In questa direzione possiamo leggere le tante disavventure, le ‘birichinate’, come gli ostacoli che si frappongono tra la pulsione narcisistica basata sul soddisfacimento dei propri bisogni contrapposta al riconoscimento e al successivo adeguamento alle norme collettive. Pinocchio è continuamente in tensione tra «mangiare, bere, dormire, divertirmi, e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo» e di contro «diventare un ragazzino per bene», dunque si trova sempre di fronte ad una scelta che gli impone di negare o di introiettare (e quindi di superare) l’esperienza appena vissuta. Nel primo caso, ovvero con il rifiuto e la negazione, si profila la legge del Karma e quindi la sfida si ripropone, mentre nel secondo caso, quando il burattino prende la giusta decisione, il destino gli consente di superare l’ostacolo e compiere un passo in avanti verso la propria trasformazione. Infatti non è la cattiveria a costituire il vero problema per Pinocchio, quanto piuttosto l’incapacità di controllare l’impulso del suo desiderare, perché anche quando il burattino mente spudoratamente non lo fa mai con finalità negative ma solamente come dinamica difensiva, Pinocchio è un bugiardo compulsivo ma non ha fini manipolativi, mente quando vuole uscire da un’impasse da cui non sembrano esserci scappatoie, paradossalmente è proprio il suo dire le bugie a renderlo umano perché, si sa, di solito i primi a cui mentiamo siamo sempre e invariabilmente noi stessi.
Probabilmente il motivo dell’immenso successo di questa fiaba che conta più di 260 traduzioni in lingue diverse, non risiede tanto nella vocazione pedagogica del testo, quanto piuttosto nel suo profondo significato esoterico, così come ha colto Elémire Zolla, là dove «Le avventure di Pinocchio» finiscono con il rappresentare un invito a pensarci come individui che hanno tutti lo stesso compito: individuare e raggiungere il proprio vero Sé. In questa direzione si muove anche la riflessione di James Hillman quando, nel suo «Il codice dell’anima», lo psicoanalista afferma che ciascuno di noi è guidato dalla propria anima verso ciò che è destinato ad essere. La cosidetta ‘teoria della ghianda’ di Hillman teorizza che ciascuno di noi, nella sua essenza più profonda, non può essere altrimenti poiché ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere, esattamente come una ghianda non può che creare una quercia. Naturalmente questo pensiero non esclude il libero arbitrio, perché in definitiva siamo noi che decidiamo se far sì che la ghianda germogli oppure lasciarla lì, sterile sulla terra. Nei continui fallimenti di Pinocchio, negli esiti negativi delle sue pulsioni, nelle menzogne reiterate e infantili è facile vedere l’uomo di fronte alle sue fragilità, tuttavia è altresì importante considerare ogni nostro fallimento o delusione come il segno di un destino che doveva compiersi, come una lezione di vita o come un alt di fronte ad altri peggiori errori. L’invito è a recuperare sempre il senso della propria vocazione e a non barattarla mai con le facili seduzioni terrene o peggio con le umane pigrizie, perché c’è sempre una ragione per cui si è vivi ed nostro dovere far fiorire quella vocazione.
Scrive James Hillman: «una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa, alla fine verrà fuori», forse perché è nostro preciso dovere uscire dal pezzo di legno di un burattino e diventare finalmente bambini.
Rossano Baronciani