Flat time is the right time

“Flat time”, in inglese, può avere diversi significati: “tempo piatto”, “tempo esatto”, “sentenza giudiziaria senza sconti”. Applicata alla fotografia, questa espressione viene ulteriormente amplificata. Il “tempo piatto” può essere quello raccolto dentro i confini bidimensionali dell’immagine; quello “esatto” può essere quello preciso che il fotografo è stato in grado di cogliere; e se è vero che ogni cosa racchiusa dentro una fotografia non potrà più uscire da lì, da quei bordi definiti, allora l’immagine potrebbe anche essere, effettivamente, una condanna piuttosto dura.

“is the right time”, “è il tempo giusto”, conclude il titolo della recente pubblicazione dell’Editrice Quinlan, curata dal direttore editoriale Roberto Maggiori e dal critico Luca Panaro, arricchita dai testi di Mauro Carbone e Antonello Frongia oltre ai contributi dei due curatori.

In ogni caso si intenda o si riassuma la prima locuzione del titolo, sappiamo che sarà il giusto tempo: quello esatto è quello giusto, quello piatto è quello giusto, la sentenza sarà giusta. Non importa sapere con precisione quale traduzione sia la più corretta, quanto riuscire a cogliere un comune denominatore che ci faccia guardare le immagini contenute nel volume ricordandoci sempre che esse vivono in una dimensione complessa, come tutte le immagini, naturalmente contraddittoria e irrevocabilmente fatale. 

“Flat time is the right time. Corpi, luoghi e nature morte dalla collezione Gibelli” è il libro dedicato alla collezione fotografica di Pier Luigi Gibelli, ed è suddiviso nelle tre grandi aree tematiche riportate nel sottotitolo; una tripartizione che ci guida dentro la strada costruita pezzo dopo pezzo dal suo costruttore. Qui su “Discorsi Fotografici” abbiamo già avuto modo di recente di parlare di collezionismo fotografico, nel nostro paese realtà ancora in una fase di rilievo inferiore rispetto ad altre nazioni come la Francia, sebbene ora sia un ambito in crescita. Di fronte a una collezione, o a una sua sintesi, siamo inevitabilmente di fronte alla sensibilità e al gusto, e dunque alla specifica identità, di chi ha scelto le opere da acquistare. Forse è così che si creano le più esaltanti (sebbene, o forse proprio perché, non totalmente esaustive) storie della fotografia, al plurale; sentieri di senso che uniscono i suoi punti più distanti.

Così vediamo i corpi farsi di colpo la reale manifestazione dell’umano nelle svariate forme che l’occhio nel tempo e nei modi è stato abile a cogliere: è quello contorto di Urs Lüthi, è quello pensante e nudo e pieno di Erwin Olaf, sono le gambe della borghesia di Elliott Erwitt col proprio cane, è quello di Tricarico di Mario Cresci, ed è il più sottile, quello di Arno Rafael Minkkinen mimetizzato tra i tronchi. L’ordine non è, naturalmente, cronologico: di ogni autore non viene menzionata più di un’opera, massimo tre, ed è da questa raffica di spazi e tempi e sguardi che ci arriva il codice – una stringa – segreto con cui questo mosaico è stato composto, tessera dopo tessera. Come anche scrive Antonello Frongia nel suo testo: “Estratte dalle loro serie originarie, le immagini divengono tasselli di percorsi nuovi: nella semplice logica binaria dell’album […] inizia a prendere corpo l’esperienza moderna del frammento e delle sue infinite ricomposizioni, del montaggio e della diversità, delle assonanze e dei riverberi.”

E i “Luoghi”, giunti a questa sezione, non possono che essere lo specchio, la prominenza fisica dei primi personaggi incontrati in questo percorso: sono gli orizzonti del loro mistero, in cui si muovono oscuri come l’uomo nel parco innevato del circo bianco di Piergiorgio Branzi, sono ciò che li (e ci) sovrasta come la “casa del sale” di Silvia Camporesi, sono il vuoto della prospettiva dentro cui si infila lo sguardo, come in Giovanni Chiaramonte. Anche qui il tempo non ha importanza oltre a quello fisico e specifico in cui questi attimi sono stati raccolti: il triplice tempo del titolo del libro non può che essere giusto, piatto e fatale proprio quando si dissolve per lasciare spazio alla storia, alla consapevolezza più che sufficiente che dentro queste scatole – città, stanze, strade, campi – vi è stato colto un pezzo di vita, un’ombra, tutto l’insolito che sappiamo circondarci. È una legge non scritta, ma consolidata, che ogni lettura conservi e rinnovi l’invito a proseguire, a farsi continuare: il libro fotografico nella sua concezione più diffusa non fa eccezione e quindi ci troviamo a confrontarci con l’accumulo in crescita sulla sinistra delle tracce del percorso di questo tempo piatto.

Siamo alle superfici e alle nature morte. “La natura morta può inoltre essere il pretesto per mostrare concetti, allegorie, stati emotivi” scrive questa volta Roberto Maggiori ed è già nella prima immagine che il colpo viene sferzato con precisione matematica; in quella bolla di sapone che nel 1905 venne colta da Berenice Abbott, nelle striature che anche la trasparenza crea. La superficie delle cose diventa materia d’indagine e stupore, nonché chiave di lettura dell’umano tanto quanto il resto visto finora. Se tutto è superficie, corpi e luoghi compresi, e tutto congelato in un’immagine diventa a suo modo natura morta, qualcosa che ora si guarda a una distanza che non permette altro intervento se non quello dello stesso sguardo, capiamo finalmente che il mondo parla una lingua sola sfaccettata. “[…] corpi, paesaggi, superfici, diventano un tutt’uno nel nostro sguardo ormai allenato a fruire di contenuti differenti”, scrive Luca Panaro: in questa sezione torna Mario Cresci, che sempre a Tricarico scopre il riverbero del tempo da chi lo ha vissuto e ora può tenerlo in mano, torna Mario Giacomelli che anche di un filo di ferro fa un paesaggio e di entrambi una favola, la forma di un significato. Superficie è quella bianca e intatta su cui si posa la mosca di Robert Doisneau, sono i muri in ascolto di Joan Fontcuberta, è il piatto bianco e intatto su cui Joel Peter Witkin decide di posare un seno e i melograni: “purpurea e matura scoppia la melagrana in un sonoro ronzare di api” scriveva Mallarmé, ma noi ora i frutti li vediamo grigi, e le api sono una farfalla trasparente. “I corpi sono superfici, forme e volume che possono sorprendere.” recita l’esordio del testo di Mauro Carbone.

Una collezione ci mette di fronte al potere unico delle immagini estrapolate da ogni contesto: possiamo non conoscere gli autori, le storie specifiche dietro ogni scatto. Esiste soltanto la fotografia che in sé stessa trova piena giustificazione.

Ogni attimo estratto dal suo tempo originario è l’atto unico in cui si trova a svolgersi un’intera storia che inventeremo o recupereremo, magari ricorderemo: ed è nella compiutezza della fotografia che può avverarsi l’esattezza del titolo, un’esattezza cartesiana, irriducibile che è il tempo quando si fa palpabile, corpo luogo e superficie, l’atomo e l’insieme che comunque tentiamo di afferrare. In questo senso la collezione di Pier Luigi Gibelli si fa portavoce di un messaggio che parla al fotografico in particolare quanto all’umano in generale, dicendoci che anche il tempo che spendiamo per guardare un’immagine può essere raccolto, come un frutto, e quindi assaporato; e può essere percorso, come una discesa innevata, magari abitato. Troveremo chi ricambierà lo sguardo; sapremo se raccogliere o no l’invito.

Carola Allemandi

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