Fujifilm X-T30 III. Andare oltre lo smartphone

Il consueto incontro organizzato da Fujifilm Italia per il lancio dei nuovi prodotti – in questo caso la X-T30 III – è stato anche l’occasione per tracciare un primo bilancio dell’anno in corso. Sebbene ci si trovi a fine ottobre, l’anno fiscale dell’azienda, che inizia il 1° aprile e si conclude il 31 marzo dell’anno successivo, ha da poco superato la metà.

Come ha spiegato con “un pizzico di orgoglio” il General Manager Fujifilm Imaging Solution Business Domain, Maurizio Mori, i risultati ottenuti finora sono più che positivi. L’obiettivo per l’anno fiscale in corso è di raggiungere un fatturato di 65 milioni attraverso l’intera gamma di prodotti, che comprende fotocamere digitali, fotocamere istantanee, carta fotografica, dispositivi ottici come la GFX Eterna 55 e stampanti.  Alla chiusura del primo semestre, Fujifilm registra già un quasi +10% rispetto al target previsto per l’intero esercizio, con una crescita complessiva del 14,8% su tutti i prodotti e un +12,8% nel comparto delle fotocamere digitali. Mori ha infine sottolineato come la divisione Imaging Solution non si identifichi soltanto con le fotocamere digitali, ma rappresenti una realtà strategica e centrale per il gruppo, capace di generare risultati significativi e di confermarsi come una delle aree più importanti all’interno del business globale di Fujifilm. Dopo aver presentato i risultati economici e le performance di mercato, Maurizio Mori ha parlato delle prospettive di sviluppo di Fujifilm, spiegando come l’azienda intenda consolidare la propria presenza nel settore e attrarre nuovi appassionati di fotografia:

“Quali sono i nostri obiettivi? Cosa vogliamo fare per crescere ulteriormente?
Prima di tutto, l’obiettivo di Fujifilm è quello di diventare il terzo brand al mondo nel settore della fotografia, dopo Sony e Canon. È un traguardo ambizioso, ma è il punto verso cui stiamo lavorando con decisione.
Come intendiamo raggiungerlo?
Vogliamo ampliare il nostro target di mercato, sperimentando – insieme al team marketing – nuovi modi di comunicare e di avvicinarci ai potenziali consumatori, in particolare ai giovani.

Riteniamo infatti che il nostro principale concorrente non siano soltanto Canon o Sony, ma lo smartphone. Oggi lo smartphone rappresenta la maggiore sfida, perché ha in parte “rubato” alle nuove generazioni la possibilità di avvicinarsi alla fotografia tradizionale. In quest’ottica nasce la nuova X-T30 III, pensata proprio come porta d’ingresso per chi vuole iniziare a fare fotografia. Il nostro obiettivo è educare e avvicinare i nuovi utenti – dai beginners ai prosumer – attraverso la creazione di contenuti, eventi e attività formative. Naturalmente non trascuriamo il nostro segmento GFX, dove siamo leader nel medio formato. Si tratta di un mercato di nicchia, ma vogliamo comunque ampliare la nostra line-up e attrarre nuovi utenti, sia tra i professionisti sia tra i fotografi evoluti. Per raggiungere questi obiettivi organizziamo numerosi workshop e attività nei punti vendita dei nostri partner, dando la possibilità a chiunque lo desideri di provare le nostre fotocamere. Vogliamo continuare su questa strada, rimanendo aperti, disponibili e vicini agli utenti.”

Risultati importanti che hanno permesso di introdurre una novità del tutto inattesa, un dibattito, fortemente voluto da Fujifilm, su dove si trova oggi la fotografia in Italia e come evolverà nei prossimi anni, che ha coinvolto il gruppo di giornalisti e creatori di contenuti che hanno un grande seguito sulle piattaforme social. La moderazione è stata affidata a Leonardo Merlini giornalista e critico, che ha aperto con una breve introduzione dal tono filosofico, suggerita dalla sua recente “chiacchierata”, come la chiama lui, con Jeff Wall: un invito a riflettere sull’essenza stessa della fotocamera, oggetto capace di emulare la realtà e, talvolta, di renderla “più vera del vero”. Partendo da questa suggestione, Leonardo Merlini ha lanciato ai partecipanti una serie di domande aperte: come cambia il mercato della fotografia nel mondo? Che rapporto hanno oggi le persone con le immagini? E quale ruolo possono ancora avere le fotocamere tradizionali in un’epoca dominata dagli smartphone e dall’intelligenza artificiale?

Il quadro che ne è emerso è quello di un mondo della fotografia frammentato, dove coesistono approcci, linguaggi e abitudini molto diversi. In Asia la fotografia è vissuta come un gesto quotidiano e istintivo, un’estensione dello smartphone più che un atto consapevole. In Europa e negli Stati Uniti, invece, resiste una relazione più “fisica” con la fotocamera, anche se il potere d’acquisto e le mode influenzano profondamente il comportamento dei consumatori. Una fotocamera che in America appare accessibile, per un europeo può essere un investimento, e questo condiziona inevitabilmente le scelte di mercato e di comunicazione dei brand. Ma al di là delle differenze economiche, la questione più urgente sembra essere culturale. Molti hanno notato come, negli ultimi anni, la fotografia si sia trasformata in un prodotto di consumo rapido, spinta dal desiderio di possedere l’ultimo modello più che dall’esigenza di raccontare o sperimentare. È il sintomo di un’epoca in cui la cultura fotografica si sta assottigliando: si scatta tanto, si riflette poco. Lo smartphone ha reso tutti produttori d’immagini, ma non necessariamente fotografi. Oggi il gesto di fotografare è diventato così automatico da perdere la sua intenzione originaria, quella di fermare un istante per ricordarlo, per comprenderlo o semplicemente per guardarlo meglio.

La differenza tra immagine e fotografia è sottile, ma decisiva. L’immagine nasce per essere vista, condivisa, giudicata in pochi secondi; la fotografia, invece, chiede tempo e attenzione, pretende un rapporto. Eppure, in un mondo dominato dalla velocità, l’idea stessa di fotografia come esperienza rischia di apparire anacronistica. Sempre più spesso le fotografie vengono scattate, archiviate nel cloud e dimenticate. È come se la fotografia avesse perso la sua funzione di memoria, diventando solo un flusso indistinto di immagini senza destinazione.

Da qui il tema dell’educazione: se vogliamo che la fotografia sopravviva come linguaggio, bisogna restituirle un contesto. Non bastano i tutorial o le campagne social dei brand; serve una vera educazione visiva, nelle scuole, nei laboratori, nei luoghi in cui si impara a osservare. Solo così si può creare una nuova generazione di fotografi — o semplicemente di persone consapevoli di ciò che vedono. Le aziende, naturalmente, si trovano davanti a una sfida complessa: devono educare, ma anche vendere. Mantenere l’equilibrio tra sostenibilità economica e cultura è un’impresa difficile, ma necessaria.

A complicare ulteriormente il panorama si aggiunge l’intelligenza artificiale, che promette di cambiare radicalmente il modo in cui le immagini vengono prodotte. Oggi gli smartphone correggono, interpretano e addirittura riscrivono la fotografia, sostituendo cieli e luci per restituire una perfezione standardizzata. È una nuova forma di omologazione visiva, dove la “bella immagine” è già decisa da un algoritmo e l’imprevisto rischia di scomparire. La fotografia computazionale e l’AI generativa, per intenderci le sintografie, offrono infinite possibilità, ma anche un pericolo: quello di cancellare il gesto umano, l’errore, l’intenzione.

Tuttavia, proprio in questo scenario iper-tecnologico, sta emergendo un bisogno opposto, complice anche l’esperienza del 2020: il desiderio di rallentare, di riscoprire la manualità, di vivere la fotografia come un’esperienza concreta. La forza di una fotocamera come la nuova X-T30 III, o della più iconica X100, come di tutte le fotocamere nella gamma Fujifilm, non sta solo nelle specifiche tecniche, ma in quella indubbia capacità di restituire una sensazione molto vicina alla fotografia analogica, al mezzo di un tempo. La forma, le ghiere, le pellicole digitalizzate: tutto contribuisce a ridare valore al momento e quindi alla persona. È la differenza tra scattare e guardare. In fondo, il futuro della fotografia non dipende dai sensori o dagli algoritmi, ma dalla volontà di continuare a farsi domande. Ogni fotografia è un atto di curiosità, un modo per interrogare il mondo più che per definirlo. Forse è proprio questo il suo destino nell’era dell’immagine: non competere con la perfezione artificiale, ma ricordarci che la realtà, quando la guardiamo davvero, resta ancora la cosa più sorprendente di tutte.

Parlare di fotografia non è semplice come elencare le caratteristiche di una fotocamera. Il discorso comincia con un desiderio e con un dubbio: quello di spendere dei soldi per sé stessi. Lo smartphone ha successo non perché sia più immediato, ma perché è anche altro. L’atto del fotografare diventa intrattenimento: non serve solo a registrare degli istanti, ma offre una pausa tra una funzione e l’altra. Ciò che viene catturato, alla fine, serve anche a giustificare il prezzo del prodotto, e la condivisione è lì a ricordarcelo. Lo smartphone è un dispositivo per fingere: possiamo guidare una Formula 1 restando fermi, giocare a calcio o a basket senza sudare, scattare un’immagine senza davvero fotografare. In fondo, con lo smartphone diventiamo ciò che non siamo. Fotografare con una macchina fotografica, invece, è un’esperienza di rinuncia, e anche costosa. Non è svago, è impegno. Non ci sono applicazioni, non si può telefonare, prendere appunti o leggere e-mail. Nessun gioco da installare, impossibile guardare un film, neanche ascoltare musica; soltanto la possibilità di scattare una fotografia intervenendo sull’esposizione. E anche se il mezzo è digitale, non è poi così semplice ottenere una buona fotografia, bisogna provare e riprovare.

La Fujifilm X-T30 III possiede tutte le caratteristiche che la rendono una vera macchina fotografica, proposta a un prezzo contenuto. Si rivolge a un pubblico nuovo, distante dalla fotografia tradizionale e vicino alla produzione di immagini con lo smartphone. È un invito a passare a qualcosa di diverso: a un gesto più consapevole, più impegnato, più vero. Ha una buona ergonomia; è compatta, ma dotata di un mirino che permette di non guardare soltanto il display. E poi c’è il pulsante di scatto, meccanico, un dettaglio che restituisce fisicità al momento della ripresa.
All’interno, un sensore retroilluminato “X-Trans™ CMOS 4” da 26,1 megapixel e un processore ad alta velocità “X-Processor 5”. Non è però necessario essere subito dei fotografi esperti, né conoscere a fondo la tecnica o le impostazioni della macchina: con il selettore su AUTO, la fotocamera decide tutto da sola, compresa la simulazione pellicola più adatta alla scena. In questo modello le pellicole sono venti, alcune delle quali selezionabili tramite la nuova ghiera dedicata. Per avvicinare il nuovo pubblico, Fujifilm ha introdotto anche un obiettivo inedito, il FUJINON XC13-33mmF3.5-6.3 OIS. Per chi ama le statistiche, è il più piccolo tra quelli progettati per le fotocamere digitali della Serie X: lungo appena 37,5 mm (quando retratto) e con un peso di circa 125 grammi. E per i curiosi, ma ancora dubbiosi, esiste anche la versione alternativa: la X-M5, identica in tutte le caratteristiche, ma senza mirino. In cambio offre un display completamente orientabile, un piccolo compromesso per chi vuole avvicinarsi alla fotografia con maggiore leggerezza.

Dunque, per tornare allo spirito del dibattito, la differenza più grande non è nella forma o nelle funzioni: è nello sguardo. Una macchina fotografica permette di scegliere cosa tenere a fuoco e cosa no. È la profondità di campo a dare senso all’immagine, a separare il soggetto dal resto.
Lo smartphone, invece, appiattisce tutto sullo stesso piano, come se ogni cosa avesse la stessa importanza. Fotografare significa anche saper lasciare qualcosa fuori fuoco, cioè accettare che non tutto debba essere visibile.

Federico Emmi

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