Gabriel Bauret – Robert Capa, l’Opera 1932-1954

In occasione della recente mostra Robert Capa – L’opera 1932-1954 a Palazzo Roverella in Rovigo, abbiamo avuto il grande piacere di poter intervistare il curatore Gabriel Bauret, la cui opera avevamo già avuto modo di apprezzare di recente in Italia nella curatela della mostra dedicata al fotografo francese Robert Doisneau; entrambe le mostre raccontano con cura la vita ed il carattere degli autori con dovizia di particolari e tanto materiale (solo per la mostra di Capa 366 fotografie che ripercorrono le importanti tappe dell’umanità tra pace e guerre).

Come è nata e come si è sviluppata la Sua personale storia della fotografia?

Avevo un fratello fotografo che mi ha incoraggiato a interessarmi alla fotografia, anche se all’università avevo studiato linguistica e semiologia (una tesi con Roland Barthes). Questo accadeva all’inizio degli anni ’80. Sono stato assunto alla rivista ZOOM come redattore ed è stato lì che ho conosciuto davvero il mondo della fotografia. Ho anche acquisito familiarità con gli aspetti tecnici dell’impaginazione e della stampa delle immagini seguendo il lavoro dell’art director della rivista. Nel 1984 ho creato la rivista Camera International presso Contrejour, un’altra tappa importante della mia formazione, e poi ho collaborato con un’altra rivista di fotografia. Ho potuto così seguire da vicino le novità in questo campo dell’arte. Nel 1994 ho lasciato la stampa per lavorare come curatore indipendente e autore di libri sulla fotografia. Ho avuto la fortuna di collaborare con un’agenzia giapponese con la quale abbiamo realizzato molti progetti di mostre e libri in Francia e Giappone. Ma ho anche collaborato con il Centre National de l’Audiovisuel du Luxembourg e abbiamo creato una borsa di studio per fotografi che lavorano sul tema dell’Europa: Mosaico. Recentemente ho curato una Biennale di fotografi del mondo arabo con l’Institut du Monde Arabe e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi (per 3 edizioni) e ho creato con un piccolo team un evento dedicato alla fotografia nordica contemporanea: Lumières Nordiques, che si sta svolgendo nei musei della regione della Normandia.

Dopo aver curato la mostra che ci ha fatto conoscere le meraviglie della vita quotidiana, catturate dall’opera di Doisneau in un territorio tutto sommato ristretto come la città di Parigi, è il turno adesso di una mostra che ci parla di Robert Capa, un fotografo che ha girato il mondo e ha raccontato, tra le altre, vicende terribili come quelle della guerra. Quali sono state le principali differenze nella preparazione delle due mostre?

Si tratta in effetti di due progetti espositivi molto diversi, sia per la concezione, sia per il modo in cui sono stati realizzati, sia naturalmente per il soggetto. Pur essendo due fotografi della stessa generazione – Doisneau è nato nel 1912, Capa nel 1913 – hanno toccato percorsi e tematiche completamente opposti. Il primo è un uomo sedentario, il secondo in perenne movimento. Doisneau lavora sulla società, tornando costantemente allo stesso motivo: lo stesso ambiente e lo stesso territorio. Senza urgenza, sapendo aspettare. Nel suo lavoro personale non cerca di trasmettere un messaggio, ma prima di tutto di testimoniare il piacere di condividere momenti felici, divertenti e leggeri con i suoi contemporanei, con i quali si sente a suo agio e in confidenza. Capa è un reporter dell’attualità, preoccupato, schierato, impegnato fisicamente e ideologicamente fin dall’inizio. Velocità e vicinanza caratterizzano il suo modus operandi. Con una grande dose di assunzione di rischi. Nel caso di Doisneau, non era possibile affrontare tutto, lavoro personale e commissioni (anche se a volte le due cose si mescolano), bianco e nero e colore. Si trattava soprattutto di capire una persona, uno spirito, una biografia, dietro le immagini. E poi il lavoro di selezione si è basato su stampe esistenti, anche se alcune sono state realizzate appositamente per la mostra. Va sottolineato che la mostra è stata realizzata con l’aiuto attento e benevolo delle figlie di Robert Doisneau, sempre disponibili a intraprendere ricerche e documentazioni. Per Capa era necessario mantenere i punti di incontro essenziali tra il fotografo e la storia che si stava scrivendo. La mostra è stata concepita come una narrazione all’interno dei principali territori in cui ha operato. Dal 1932 al 1954 ha coperto i principali conflitti del mondo. Ma tra questi conflitti, ha anche esplorato territori la cui posta in gioco politica risuonava al di là dei loro confini: l’URSS, la costruzione dello Stato di Israele. L’obiettivo di questa mostra era quello di enfatizzare lo scopo storico e politico, ma anche di cercare di mostrare come il fotografo opera sul campo.

A Rovigo sarà possibile letteralmente immergersi nell’opera di Capa attraverso un percorso che prevede ben 366 fotografie, che sono comunque ovviamente una minima parte della produzione del fotografo, oltre a testi dell’autore sulla fotografia, un video ed un’intervista su Radio Canada. Può raccontarci quali ragionamenti hanno guidato il processo di selezione?

La selezione si è basata sugli archivi digitali dell’agenzia Magnum. La mostra è stata realizzata con i file selezionati da questo archivio. Il format è stato adattato all’idea di sviluppare una lunga narrazione visiva costruita in collaborazione con la scenografa Monica Gambini e pensata per lo spazio di Palazzo Roverella. È completamente innovativo e si basa su un’intenzione precisa: mostrare il rapporto con la storia, ma anche il desiderio di presentare molte immagini in cui le più conosciute si mescolano con alcune che sono raramente o mai viste. Oltre a diverse sequenze costruite intorno allo stesso evento: abbiamo così potuto raccogliere filmati documentari in cui vediamo Capa al lavoro e che ci permettono di capire meglio il suo modo di muoversi intorno al soggetto. Un altro obiettivo di questa mostra è che il lavoro di un reporter come Capa è quello di pensare le sue immagini per la pubblicazione sulla stampa. Per questo motivo la mostra comprende una serie di riviste che riproducono le fotografie alle pareti. La voce di Capa che si può ascoltare nella mostra è l’unica registrazione esistente. È molto commovente, naturalmente.

Per l’opera di Capa spesso si parla di alternanza di tempi forti e tempi deboli, di guerra e pace, di tensione e rilassamento. Questa alternanza si nota sicuramente da un reportage all’altro o da una fotografia all’altra in un singolo reportage; esistono a suo avviso invece delle singole fotografie che contengono entrambi gli elementi?

È difficile combinare momenti forti e deboli nella stessa immagine. D’altra parte, nella mostra sono state presentate molte fotografie che mostrano il desiderio di Capa di interessarsi al dopo, al di fuori dell’azione stessa, e a ciò che accade successivamente. Non ha mai trascurato le vittime civili e i soldati feriti e stremati. Perché Capa è un umanista. Ha sempre dimostrato una forte empatia per le conseguenze dei conflitti sul destino di uomini, donne e bambini. Ciò che non è sempre noto è che durante la sua carriera ha prestato particolare attenzione ai bambini. In particolare in Giappone, prima di partire per l’Indocina e fotografare la sua ultima guerra. Non è solo un reporter d’azione, anche se ha dimostrato un vero talento per questo tipo di lavoro che suscita ammirazione.

Una mostra che percorre l’intera opera di Robert Capa permetterà quasi sicuramente a chi non conosce ancora questo fotografo di farsi un’idea completa di ciò che è stato. Chi invece già conosce il carattere e l’opera di Capa troverà nuovi spunti?

Non direi che ho un’idea “completa” dell’opera e dell’uomo, la produzione è così vasta! Ma è importante non limitare la mostra alle scene di guerra. Per dimostrare, ad esempio, che la guerra civile in Spagna aveva nel mirino proprio i civili, Capa ha intrapreso un’opera monumentale sul tema, probabilmente uno dei pochi fotografi ad aver coperto così tanti episodi. E come già detto, questa mostra fa luce su una professione associata a un impegno. Non c’è fotografia possibile per lui senza schierarsi. Lo ha detto lui stesso.

Il fotogiornalismo dovrebbe, in teoria, riportare un’immagine oggettiva della realtà, ma osservando il lavoro di Capa emerge fortemente il suo carattere, un approccio mai asettico anzi solidale e quasi sempre vissuto nell’intimo da parte dell’autore. Si può dire che è questo che fa di Robert Capa non solo un fotografo ma anche un vero e proprio artista?

Non credo che Capa si considerasse un artista. Si è evoluto al di fuori di questo ambiente, anche se lavorava con un fotografo come Henri Cartier-Bresson all’agenzia Magnum, che aveva una concezione molto artistica della fotografia. Ha persino espresso dubbi sul futuro della fotografia e sul significato del suo lavoro. In generale, Capa era molto dubbioso. Per un po’ aveva pensato di dedicarsi al cinema. Nella sua vita privata, ha trovato molto difficile impegnarsi, stabilirsi da qualche parte. In definitiva, è un personaggio atipico e per questo molto interessante. In ogni caso, l’opposto di una persona che va avanti con idee precise. Tutto può essere messo in discussione in lui, anche se dà l’immagine di una persona molto impegnata nel suo approccio. Alla fine, dietro l’opera c’è un uomo molto sensibile. E fragile, senza dubbio.

Robert Capa è stato un fotografo che ha lasciato un’impronta fortissima non solo nel fotogiornalismo ma nella storia della fotografia, molti suoi scatti sono ormai diventati iconici. Non c’è il rischio che la venerazione che si ha della fotografia di Capa possa donare un’immagine romantica alla guerra, che di romantico non ha nulla?

Più che romantico, direi romanzesco. È un personaggio affascinante, che fa venire voglia di scrivere una sceneggiatura cinematografica. Per quanto riguarda la guerra, sua madre diceva che non la sopportava. C’è quindi una grande complessità, una contraddizione, nel personaggio. Una volta disse di sé, dopo la Seconda guerra mondiale, che era diventato un fotografo di guerra disoccupato. E che non gli dispiaceva. Ma ha cambiato subito idea e ha voluto tornare sul campo, in Indocina dove ha perso la vita!