Il metro più lungo

Mae La, Thailandia


Ci sono tanti posti intorno al mondo, ma non tutti hanno lo stesso significato per noi. Questo è il caso della storia che vi sto per raccontare. Un posto, che forse non esiste, o meglio, che non dovrebbe esistere. Sarebbe più corretto chiamarlo un “non luogo”, perché la sua esistenza non è accettata dall’ufficialità, dove la gente non ha nemmeno un’identità e il concetto di isolamento, che stiamo tutti vivendo con l’emergenza Covid, assume un altro significato.
È il campo profughi di Mae La in Thailandia, vicino al confine con il Myanmar, dove risiedono circa 50.000 persone, di cui il 90% è di etnia Karen. Sono arrivati qui nel corso degli anni, in seguito agli attacchi militari del Myanmar iniziati nel 1984, che avevano l’obbiettivo di scacciare i Karen dal proprio territorio. L’Esercito di liberazione nazionale del Karen ha ancora qui il suo quartier generale di Settima Brigata; nelle vicinanze ci sono anche diversi avamposti dell’esercito birmano e dell’esercito Buddista Democratico del Karen. Un zona molto sensibile come si può immaginare.


Le camionette che fanno da spola con la vicina Mae Sot, mi lasciano davanti alle prime recinzioni di filo spinato, che delimitano il perimetro del campo. Dall’altro lato, come da dietro le gabbie di uno zoo, comincio a scorgere le prime persone, affaccendate nelle loro attività quotidiane, con cui inizio timidamente a interagire. Come spesso capita, ci si affida al linguaggio dei gesti e del sorriso, i veri Esperanti del mondo. Un grande progresso lo faccio quando conosco May, una ragazza che parla un ottimo inglese grazie ad un’esperienza di studio negli Stati Uniti. Attraverso le sue parole posso farmi un’idea più nitida e chiara di cosa vuol dire vivere a Mae La. Nessuno qui ha nazionalità, cittadinanza, passaporto, figurarsi la libertà. Si può di uscire dal campo solo per gravi motivi di salute, per raggiungere il vicino ospedale di Mae Sot.


Senza quel viaggio in America, forse non avrei mai avuto la possibilità di sperimentare la vita fuori“, dice May con un po’ d’inquietudine. “Gli anziani vorrebbero tornarsene in patria, mentre i giovani semplicemente avere la possibilità di costruirsi un futuro.”
Guardando la sorella di May con in braccio la figlia piccola, mi chiedo che “futuro” potranno aspettarsi dalla loro vita. I detenuti che stanno in prigione hanno almeno una data di uscita, mentre queste persone, pur non essendo colpevoli, sono sospese in un limbo senza redenzione. Seguendo quella recinzione, mi rendo sempre più conto che, quel metro di distanza è il metro più lungo che abbia mai visto in vita mia. Non è solo una distanza fisica e spaziale, ma morale, o forse sarebbe più giusto dire immorale. Una distanza tra il buon senso e il paradosso. Tra la ragione e un senso di vergogna.


Più avanti trovo un ingresso, sulla cui torretta c’è un uomo della sicurezza, che mi da il suo benestare per entrare.
Le capanne sono fatte di bambù e di ogni altro tipo di materiale raccattato chissà dove. È a tutti gli effetti una cittadina, con i suoi ristoranti, negozi alimentari, botteghe di artigiani; ma sono più una specie di fornitori della comunità, che vere e proprie attività commerciali. Nelle transazioni si usa il Baht Thailandese. Per approvvigionarsi di acqua c’è un torrente, che le persone usano per lavare indipendentemente i propri vestiti e se stessi. Ciò che non si trova se lo procurano dalla vicina Mae Sot, che raggiungono illegalmente, attraverso alcuni tunnel sotterranei.
Per ristorarmi compro un’anguria da un fruttivendolo. La proprietaria mi fa sedere dentro, come se fossi un parente in
visita. È sordomuta, ma i suoi occhi parlano meglio di qualsiasi interprete. Quando chiedo alla signora di pagare il dovuto, lei mi fa capire inequivocabilmente che non vuole nulla. Che lezione mi sta dando questa gente! Un’altra conferma a quella famosa teoria che dice che generalmente sono le persone che hanno di meno, quelle che sanno donare di più. “Regalo” comunque i soldi a uno dei suoi figli, che interrompe volentieri il suo pranzo, per ringraziarmi a mani giunte.


Noto che fuori da ogni abitazione sono attaccate delle buste di plastica riempite con sabbia e acqua. La gente mi spiega che sono obbligati dal governo ad averli per contrastare eventuali incendi: una specie di estintore naturale.
In quello che dovrebbe essere un caffè, un uomo sta stendendo a mano l’impasto per una torta. Mi siedo in uno dei tavolini disponibili, affianco all’anziano proprietario, che mi prende subito in simpatia. Inizia a raccontarmi, in un ottimo inglese, un po’ delle miserie del campo. “Mae la si sostiene grazie agli aiuti delle Nazioni Unite, del governo thailandese e di una decina di ONG presenti sul territorio, che ogni anno però riducono sempre di più i loro fondi. Per questo le persone cercano in mille maniere di racimolare qualcosa. Alcuni escono di nascosto di notte per tagliare alberi, che poi uniti alle foglie rivendono come isolanti per i tetti. I malcapitati che vengono scoperti a tagliare alberi illegalmente, vengono multati severamente, ma il rischio vale la candela, perché per molti è l’unico modo per fare soldi. I negozi e le botteghe pagano ogni mese una tassa al governo thailandese. Nonostante gli incassi siano davvero pochi, la gente continua a farlo, se non altro per avere sempre un po’ di riserva di contanti. Le persone qui sono povere, ma molto rispettose. Raramente qualcuno chiede l’elemosina o si mette a rubare.” Poi il tono della sua voce diventa più sofferente: “Siamo bloccati qui da più di vent’anni. Non abbiamo carta d’identità, passaporto, e probabilmente ci resteremo per sempre. Solo grazie alla fede in Dio sono riuscito ad accettare questa condizione e a trovare un motivo per andare avanti. Sono cristiano, e forse senza la mia fede non sarei riuscito a sopravvivere. Quando sei nei guai; quando non hai niente; l’unica cosa che puoi fare e cercare Dio. E lo senti Dio, vicino a te ogni giorno.”


Dio risorge ogni giorno, nei posti dove c’è la disperazione, le ingiustizie, e dove non dovrebbe esserci nemmeno la speranza. Dio abita nei luoghi della miseria, presso le vie della povertà, dove non c’è altra possibilità. Ho paura che in questo mondo Dio risorgerà sempre. Questo posto assomiglia quasi a un treno, che corre invano su dei binari morti, portandosi in giro questa gente, condannata chissà per quali miserabili colpe. Un viaggio iniziato tanto anni fa e destinato forse a durare per sempre; senza poter mai scendere in un qualsiasi posto che si possa chiamare casa. A nessuno importa di loro, proprio perché non sono parte di niente. Appartengono semplicemente a un “non luogo“. Ma c’è qualcosa, forse ancora più importante di un passaporto che queste gente ha ed è riuscita a mantenere nonostante tutte le difficoltà: l’umanità e la dignità, cose che forse stanno perdendo tutte le persone che dovrebbero fermare questa realtà vergognosa.

Tommaso Gioia