Il mondo deve sapere. Il progetto “Senza Corpo” di Anna Elisabetta Raffin

Dobbiamo moltissimo ai tanti fotoreporter di ieri ed oggi. Le testimonianze dei drammi che l’umanità ha attraversato ed ancora vive sono arrivate e giungono a noi tramite lavori fotografici di grande pregio.

Una storia non esiste se non viene raccontata e la fotografia, in quanto linguaggio, ha avuto ed ha un grandissimo potenziale in merito.

l generi fotografici che più tipicamente si occupano di questo tipo di narrazioni sono la fotografia documentaria ed il reportage; attraverso la potenza evocativa di un gruppo di immagini realizzate sul campo come testimonianza diretta abbiamo potuto guardare negli occhi la tragedia di tanti uomini e donne.

Come porsi di fronte a queste immagini? Non è una domanda scontata e non è neppure eludibile; in realtà è una questione molto complessa poiché riguarda aspetti di diversa natura. Dalla verifica che le immagini siano vere, pur consci di quanto articolata sia la questione in fotografia, al domandarsi fino a dove sia lecito spingersi per fotografare il dolore altrui; il reportage, infatti, si occupa più frequentemente dei drammi umani, perché vuol essere denuncia. Se questo è dunque il suo principale obiettivo la domanda che ci sembra in realtà prioritaria riguarda un aspetto sopra tutti: l’efficacia di questi lavori non soltanto nella trasmissione delle informazioni, ma anche nello smuovere le coscienze. 

Sicuramente chi fotografa certe realtà dolorose, vivendole spesso a rischio della propria vita, non ha alcun dubbio: il mondo deve sapere.

Il mondo, però, vuole davvero sapere? Affacciati alle “finestre” del monitor del nostro computer o degli schermi del nostro smartphone possiamo virtualmente catapultarci in pochi secondi nei drammi vicini e lontani dell’umanità; tuttavia la maggior facilità con cui possiamo reperire informazioni grazie all’web non sempre ci ha resi davvero più consapevoli. Internet è uno strumento portentoso, ma nulla può se non esiste nel nostro animo il desiderio sincero di sapere, di conoscere e, soprattutto, di fare qualcosa, di agire. 

Effettivamente la grande quantità di immagini preoccupanti, dolorose e drammatiche che ci raggiungono è umanamente difficile da gestire, al punto che è altrettanto facile desiderare di fuggirle. Comprensibilissimo. Peccato tuttavia che le storie dolorose non smettano di esistere nell’attimo in cui noi decidiamo di spegnere il monitor e abbandonare la navigazione web.

Aveva dunque ragione la Sontag quando parlava di “anestetizzazione” delle nostre coscienze di fronte alla reiterata visione del dolore?

Come spiegare al coraggioso fotoreporter che ha rischiato la vita per portarci testimonianza di quanto ci accade intorno che siamo un po’ ammorbati e annoiati dalle sue immagini? 

Si assomigliano un po’ tutte; lo scrivo cosciente di quanto dissacrante sia questa affermazione.

La questione è certamente molto complessa e non riguarda soltanto la fotografia e le immagini, ma interrogarsi sulle vie percorribili attraverso il linguaggio fotografico per raggiungere quell’efficacia che mettiamo in discussione può essere un primo passo o, perlomeno, uno dei modi a noi cari per affrontare il problema.

È con questi quesiti irrisolti che portiamo alla vostra attenzione un progetto fotografico sui generis che ci ha favorevolmente colpiti.

Si tratta di “Senza corpo” di Anna Elisabetta Raffin .

Da “Senza Corpo”- © Anna Elisabetta Raffin, cortesia dell’autrice
Da "Senza Corpo"- © Anna Elisabetta Raffin, cortesia dell'autrice
Da “Senza Corpo”- © Anna Elisabetta Raffin, cortesia dell’autrice

La fotografa ha dedicato il suo sguardo ai migranti della Rotta Balcanica, in particolare ad alcuni di loro che sono passati in Val Rosandra, Friuli, al confine con la Slovenia, lungo sentieri che fanno parte di un tragitto definito “The game”, percorso nel tentativo di passare le frontiere senza essere respinti.

La scelta della Raffin è ricaduta su un genere fotografico decisamente lontano da quello che potremmo aspettarci. Anna Elisabetta non ha preferito la fotografia reportagistica, ma lo still life: ha fotografato gli abiti abbandonati dai migranti nei boschi, nel corso della loro fuga.

Lo ha fatto, aggiungiamo, in un modo decisamente particolare: le felpe, le scarpe, gli zainetti raccolti e ritrovati sono fotografati su fondo bianco, sporchi e accartocciati, ma seguendo in tutto e per tutto i canoni tipici della foto da catalogo per l’e-commerce.

Non solo, ai piedi di ogni foto, se scorrete la pagina del sito del progetto, ha piazzato un pulsante che altrettanto tipicamente siamo abituati a vedere quando navighiamo un sito per l’acquisto online: “Buy it”. Non è peraltro casuale il fatto che cliccando sul tasto non compriamo nulla, ma, al contrario, doniamo. Supportiamo così l’Associazione Linea d’Ombra che si occupa di aspettare, accogliere e curare coloro che sono riusciti a passare il confine, fornendo loro cure mediche, cibo e vestiti puliti.

Anna Elisabetta non ha portato noi tra i boschi della loro disperata fuga, ma ha fatto il contrario: ha portato la sofferenza di quelle persone nell’ambiente patinato e rassicurante di un sito e-commerce dove, ammettiamolo, spesso stemperiamo la nostra noia. Ci ha invitato a compiere lo stesso gesto che facciamo a volte compulsivamente e senza tanto riflettere: cliccare su “Compralo”. Siamo altrettanto veloci quando ci appare il pulsante “Fai la tua donazione”? Ci ha tolto pure dall’impasse di trovarci una volta ancora davanti agli occhi sofferenti delle persone con un destino meno fortunato del nostro; ci sono solo indumenti e i nomi. Senza corpo.

La sensibilità di Anna Elisabetta Raffin ha saputo compiere un’operazione di grandissima efficacia proprio attraverso il nostro tanto amato linguaggio fotografico: l’effetto disturbante e distonico del trovarci a tu per tu con una apparentemente confortevole pagina di e-commerce ha una geniale potenza comunicativa. Quella che cercavamo. Ci ha fatto fermare, spiazzati. Non solo, ci ha anche invitati all’azione.

Ci ha denudati, ci ha smascherati e lo ha fatto senza urla; ha giocato una partita “in casa”, la nostra, e ha fatto goal.

Da "Senza Corpo"- © Anna Elisabetta Raffin, cortesia dell'autrice
Da “Senza Corpo”- © Anna Elisabetta Raffin, cortesia dell’autrice

Abbiamo raggiunto telefonicamente Anna Elisabetta, per farci raccontare di persona del suo progetto e della sua fotografia.

Raccontaci la tua personale storia con la fotografia.

Ho frequentato il liceo artistico con indirizzo pittorico e poi ho studiato Lettere Moderne a Padova. L’arte è sempre stata una mia grande passione ed ho iniziato a fotografare utilizzando una macchina analogica di famiglia.

Una volta laureata ho acquistato una reflex digitale, cominciando a sperimentare tecnicamente la fotografia, ma ancora senza una vera progettualità. 

Mi sono trasferita in Francia attraverso un Erasmus Mundus per frequentare un master di tipo letterario, che però ho abbandonato perché non mi soddisfaceva. Ho così scelto di trasferirmi a Lione ed ho iniziato a lavorare negli ambiti più svariati, ma continuando a fotografare, pur senza un vero rigore critico. Mi sono iscritta semplicemente ad un club fotografico per confrontarmi con altri appassionati e nel frattempo, desiderosa di proseguire i miei studi, mi sono iscritta ad Arte dello spettacolo, percorso Cinema/Immagine e ho scelto di fare un Laboratorio di Fotografia, confrontandomi con un fotografo professionista, tutor del mio percorso.

Il piano di studi prevedeva la realizzazione di progetti fotografici personali, che hanno dato avvio al mio processo di crescita fotografica. Sono un’autodidatta di fatto, partita da qualche anno, ma con una grandissima passione.

Com’è nata l’idea del tuo progetto “Senza Corpo”?

Da parecchio tempo avrei voluto raccontare la Rotta Balcanica, sia perché è meno mediatizzata rispetto al Mediterraneo, sia perché io sono di Pordenone e conosco molto bene anche Trieste (dove ha sede l’Associazione che è legata al mio progetto) ed ho sempre avuto una grande attenzione al tema della migrazione.

Nel Luglio del 2020 sono tornata in Italia senza sapere quando avrei potuto rientrare in Francia e ho approfittato di questo soggiorno per cominciare ad informarmi; nel corso di questa ricerca ho appreso dei panni e oggetti personali che i migranti della rotta balcanica abbandonavano lungo il percorso ed ho concepito l’idea che avrei potuto realizzare un progetto al riguardo, ma non tipo reportagistico.

Come hai organizzato la raccolta dei panni lasciati dai migranti? Che difficoltà hai incontrato, hai dovuto chiedere autorizzazione?

Ho contattato diverse associazioni, così come l’ufficio turistico della Val Rosandra e tutti mi hanno confermato che ogni tanto organizzavano delle raccolte di questi panni nei boschi, sia per testimoniare quanto accadeva, che per questioni di tipo ambientale (inquinano).

Ho avuto in realtà un po’ di difficoltà per le normative anti-Covid che mi hanno impedito di partecipare a queste iniziative, così ho approfittato di un periodo di “zona gialla” e mi sono avventurata da sola nei boschi della Val Rosandra per raccogliere i panni nelle aree che mi avevano indicato. Sono stata fortunata ed ho immediatamente trovato su un sentiero nei pressi di San Dorligo tanti abiti: l’impatto emotivo è stato davvero molto forte. 

Ho riempito l’auto non sapendo se sarei potuta tornare, causa normative antiCovid!

La scelta di fotografare i panni ed inserirli nel progetto come prodotti di e-commerce, piuttosto che affrontare un percorso reportagistico ha a mio parere una grande efficacia rispetto a tante fotografie a volte più dolorose, cui purtroppo a volte ci siamo assuefatti. Cosa ne pensi?

Esattamente, purtroppo oggi ci sono così tante immagini che a volte davvero non ha più senso mostrare la crudeltà, la violenza direttamente. Togliendo totalmente il corpo secondo me avrei avuto un impatto ancora più forte: tolgo il soggetto, ma te ne sto parlando.

L’obiettivo era proprio di destabilizzare per sensibilizzare.

Sono purtroppo consapevole di come il rapporto con le immagini sia un po’ sfasato, tendono di fatto ad abituarci.

Oltretutto, restando nel campo del visuale, spesso programmi destinati al puro intrattenimento (pensiamo alle serie TV o al cinema) ci propongono immagini che inscenano le tragedie del reale (come la guerra) e anche queste contribuiscono ad assuefarci. Anche gli stessi documentari ci portano ad aver l’impressione di conoscere già, di aver già visto, in modo completamente falsato; è orribile, ma è così, purtroppo spesso si mira più all’intrattenimento, che alla informazione e quindi non si va davvero in profondità, ma si resta sulla superficie di qualcosa esposto davanti agli occhi in modo ludico.

Sono riflessioni che faccio soprattutto da fruitrice di immagini, prima ancora che come fotografa. 

Per quanto riguarda i tuoi lavori seguano registri differenti, denotando uno spirito eclettico e curioso, “Senza Corpo” è di gran lunga il più originale, il più diverso rispetto agli altri: come credi si sposi con il tuo stile? In altre parole credi sia sempre riconoscibile la tua mano? È importante per te?

Io uso la fotografia come uno strumento per esprimermi e utilizzo diversi approcci a seconda di quello che mi suggerisce il soggetto; non mi metto dei limiti e delle preclusioni nell’affrontare i vari progetti. Soprattutto cerco di non tradire mai la naturalezza di quello che faccio, senza farmi troppo bloccare dall’autocritica e dalla paura del giudizio altrui.

La raccolta fondi ha avuto successo? Chi sono i donatori?

Non gestisco direttamente i fondi, il pulsante “Buy it” approda direttamente al loro conto Paypal. Io ho seguito da vicino l’andamento del sito e le visite sono state consistenti, soprattutto in prossimità del lancio del progetto. 

Credi che la fotografia possa cambiare il mondo?

La fotografia ha già cambiato il mondo, o quanto meno la percezione del reale. È stata una rivoluzione importante del rapporto dell’uomo con sé stesso, ciò che lo circondava, con il senso della vita. 

La nostra storia, collettiva o personale, è ormai è una storia che funziona, è costruita per immagini e costruisce anche le nostre singole identità e quelle di una società intera.

Molte immagini sono diventate storiche.

Mi viene in mente Susan Sontag che parla di quanto sia stata scioccata dalle immagini di Auschwitz e addirittura questa visione abbia creato una netta separazione della sua vita tra un prima e un dopo.

Ciò nonostante la stessa Sontag alla fine afferma che la fotografia non ha la capacità di cambiarci e quindi non può cambiare il mondo, perché innesca in noi un senso di abitudine.

In senso retorico forse la fotografia può cambiare il mondo, come tanta parte dell’arte, ma con molta lentezza, perché le fotografie sono più uno specchio della memoria, che uno specchio in cui possiamo guardarci ogni giorno, soprattutto oggi in cui la grande quantità di immagini in realtà non è neppure specchio liberatorio, ma ci opprime, ci condiziona, e deforma la realtà che ci circonda.

Pensi esista un’etica in fotografia?

A parte il discorso deontologico, a livello personale l’etica in fotografia è un terreno molto vago; dipende dal fotografo, ma anche da quello che sto fotografando. 

L’etica per me significa riconoscere una responsabilità al gesto fotografico ed allo sguardo del fotografo.

Rifletto molto in questi termini quando decido di affrontare un soggetto, non solo in termini reportagistici, ma anche più creativi e artistici.

Occorre porsi sempre molte domande, mettersi in discussione e soprattutto far tacere quel prurito di scattare a tutti i costi. Occorre arrivare più maturi al momento dello scatto, con un percorso di consapevolezza e riflessione, sviluppato anche senza fotografare.

Ascoltare.

Ascoltare con lo sguardo, prima che guardare. Mettere in dubbio o in discussione il perché faccio quella fotografia, questo significa per me “ascoltare” trattenendo quel prurito dello scatto.

L’etica per me significa non tradire mai il soggetto, più che la realtà, perché l’oggettività non esiste.

Ho letto che utilizzi sia la tecnica digitale che quella analogica; in base a cosa decidi quale preferire per i tuoi lavori?

Utilizzo il digitale per i vari progetti; mentre uso l’analogico in ambito più personale, di diletto; non ho un laboratorio a disposizione ed essendomi trasferita spesso nel corso degli ultimi anni mi è mancata la possibilità di dotarmi di questo strumento fondamentale. 

Il digitale è più immediato, mi basta un computer.

Sono molto paziente e determinata, quando mi metto in testa qualcosa, la porto sempre a termine, magari un po’ più in là nel tempo: so che arriverà il tempo adatto anche per progetti in analogico, che è un procedimento che amo tantissimo

Progetti per il futuro?

Ne ho tanti cui sto lavorando! Anche se ho un po’ il difetto di tendere a non finalizzarli se non costretta da deadline e rimango in una fase sperimentale, li continuo senza terminarli o li abbozzo e poi non sempre ho il tempo di finalizzarli.

In ambito documentaristico, simile a “Senza Corpo” ho un progetto in essere che però non riesco a terminare a causa della pandemia, aspetto tempi migliori.

Luisa Raimondi

Il SITO di Anna Elisabetta Raffin

Il PROGETTO “SENZA CORPO” DI Anna Elisabetta Raffin

L’ASSOCIAZIONE LINEA D’OMBRA