Se una qualunque scena che viviamo nel quotidiano potesse essere ricreata da un’altra mente, penso che nessuno farebbe fatica a credere in un qualsiasi dio: capire così a fondo i meccanismi che muovono le azioni più semplici, quelle che tendenzialmente rimangono laterali nel discorso della vita, è qualcosa che, forse, neanche chi le compie potrebbe fare.
Significherebbe, in qualche modo, scomporre e sviscerare ciò che muove l’umano, inteso qui come corpo ed espressione, nelle sue azioni più minute. E quindi, per estensione, trovarne il senso, espanderle, rendere loro un luogo in cui poter venire consacrate.
Un po’ come quando Giorgio Caproni scrive in versi il suo aspettare dentro un bar di Genova la persona che aspettava, e il bicchiere di vetro che gli sbatteva tra i denti per via di un tram che passava nelle vicinanze facendo tremare il pavimento. Se dovessimo pensare di fotografare quest’attimo, vedremmo un uomo seduto a un tavolino con un bicchiere in bocca dentro un locale, lo sguardo forse perso, e quel leggero tremore esteso a tutta la scena.

Così potremmo introdurre la mostra dedicata a Jeff Wall (1946), fotografo canadese di fama internazionale, visitabile presso le Gallerie d’Italia di Torino fino all’1 febbraio 2026: un insieme di momenti minimi che trovano la propria apoteosi fuori dal tempo, nel formato grande, grandissimo, delle ventisette stampe esposte.
“Jeff Wall. Photographs”, curata da David Campany, uno dei massimi esperti del lavoro di Wall, è un percorso nella produzione del fotografo dagli anni Ottanta a oggi, in una continuità che pare non presentare alcuna variazione o stacco netto. Al contrario, la linea su cui ci troviamo a riflettere percorrendo le sale vaste del museo è la stessa anche quando a separarne gli estremi sono più decenni: un’idea perenne.
Jeff Wall è conosciuto per la sua capacità di mettere in scena ciò che dicevamo all’inizio, quelle azioni marginali, che sarebbero transitorie e di passaggio tra un momento più importante e un altro, e che custodiscono in questo modo un mistero appunto perché si fanno portatori di una narrazione che neanche la vita vera concederebbe loro. In un breve pamphlet di Olivier Leplatre pubblicato recentemente da Bibliotheka, “Il latte delle immagini”, citando l’immagine di Wall “Milk”, del 1984 (non presente in mostra ma il cui ragionamento è applicabile al lavoro generale del fotografo) l’autore parla di “forza intransitiva”.
Prendendo ad esempio questa immagine, vediamo un uomo accovacciato su un marciapiede di fianco a un muro di mattoni che, mentre guarda assorto da un’altra parte, con la mano destra impugna e stringe fino a farlo esplodere un bricco di latte, da cui esce un copioso fiotto di liquido bianco, senza che la cosa paia sconvolgere l’artefice, che resta calmissimo.

Ecco, la “forza intransitiva” sembra risiedere proprio in questa potenza racchiusa in un nucleo che non porta da nessuna parte specifica: come nell’attimo prima della scissione atomica, il momento è congestionato nel suo culmine, trovato proprio nella frazione che precede il suo stesso significato. Venendo alle immagini in mostra, troviamo questo concetto, per esempio, in “Boxing” (2011), in cui due ragazzi sono congelati in un interno domestico perfettamente curato e bianco mentre tirano di boxe in pantaloncini e guantoni: nello schivare il colpo, il ragazzo di destra vanifica ciò che, nell’immagine, comunque non avrebbe avuto alcuna portata reale, trasportabile nella vita concreta. Proprio nel colpo a vuoto, in questa “forza intransitiva” che non porta a un gancio riuscito né allo sbilanciamento di quest’ordine perfetto del salotto immacolato, troviamo il centro narrativo per una storia che resta sospesa al proprio culmine apparente. Stampate quasi in scala reale, le immagini di Jeff Wall diventano affreschi, come spesso vengono definite, ovvero grandi composizioni quasi sacrali dei momenti secondari che rappresentano; questo volersi fare portavoce, da ascoltare per forza, di tutto quanto accade senza quasi accorgercene, e su cui Wall invece scrive intere sceneggiature.

174 x 250.5 cm. Courtesy of the Artist
Proprio l’approccio cinematografico del fotografo, sia in termini di scrittura, sia di ripresa, fa luce sul processo di scomposizione e studio degli attimi che Wall si propone di ricreare. Il concetto di ripetizione in questo senso si fa cruciale: come egli stesso scrive nel testo del bel catalogo edito da Allemandi in occasione della mostra: “è la ricostruzione di qualcosa che avevo visto. Si tratta di una fonte d’ispirazione abituale per me: qualcosa che ho visto. Poiché non sono obbligato a conformarmi al modello del reportage, sento di poter prendere un’esperienza reale e rielaborarla liberamente […]”. La rappresentazione dell’attimo avviene in una fase successiva e costruita, sulle tracce di un’impressione iniziale, studiata fondamentalmente a tavolino e ambientata in modo verosimile rispetto al momento originario, e non mimetico. Scrivendo le parole appena citate, Wall si riferisce all’immagine “Event”, del 2011, in cui due giovani maschere di teatro, in un angolo accanto a una porta della sala, sembrano avere un diverbio suggerito dal solo gesto di uno che punta la mano al petto dell’altro. Qualcosa che, qualcuno potrebbe pensare, tutti con lo smartphone avrebbero potuto immortalare: un attimo qualunque preso quasi per sbaglio, perché in definitiva non sta accadendo nulla di così rilevante o che ci riguardi davvero. Eppure i due giovani possiedono l’immobilità dei santi rinascimentali, quell’aura che rende solenne ogni minimo accenno di movimento e che, quindi, lo rende fatto eclatante, quasi biblico.
Ciò che poi, e questo nel catalogo viene reso bene, è contenuto in modo sotterraneo nelle opere di Wall, sembra uno sdoppiamento dei punti di forza dell’immagine. Un aspetto, questo, che sembra in qualche modo superare o istigare il discorso del “punctum” barthesiano, che vedrebbe nell’immagine un punto saliente che trascina a sé lo sguardo al di là del proprio contenuto o messaggio. In Wall, molto spesso, si può parlare di almeno due “puncta”, che guidano lo sguardo in un circuito che, per la stessa natura chiusa dell’immagine, non troverà alcuna risoluzione. Già Dalì, parlando di un’immagine anonima (“Tre persone sulla soglia”, 1900 ca.), metteva in rilievo i due punti su cui si snoda il mistero dell’immagine: il volto nell’ombra della porta dell’uomo, e una minuscola bobina (o un torsolo di mela) depositato sul marciapiede, all’estremità in basso a sinistra.

Si prenda, di Wall, “Mask maker” del 2015, un ragazzo con una maschera bianca sul volto preso nel momento in cui con una mano la marchia con un pennarello nero e con l’altra impugna la sbarra di un’inferriata, mentre si specchia su un vetro per completare l’auto-decorazione. O in “Informant” (2023), in cui una giovane donna in camice bianco è al telefono, la mano non impegnata a reggere la cornetta chiusa in un gesto nervoso ma controllato, mentre si vede in un riquadro esterno alla scena e sovrapposto all’immagine un uomo sempre al telefono, con cui intendiamo stia parlando la donna. Sebbene lo sguardo segua sempre un cammino sequenziale nella lettura dell’immagine, e trovi sempre un elemento che prima degli altri cattura la sua attenzione, nel caso di Jeff Wall si può comunque dire che esiste un gioco di tiraggio dentro la composizione, più punti precisi in cui si addensa il suo potenziale pronto a esplodere. Nella fattispecie, proprio la vicinanza con la tradizione pittorica e cinematografica – e tra l’altro letteraria, molte immagini di Wall si ispirano infatti a opere di grandi autori della letteratura mondiale – ci parla di una fotografia che trova una coincidenza tra il fatto vero e la sua invenzione, l’intersezione perfettamente oliata tra fiction e documento, e resa palese, fatta enorme. Le fotografie di Wall, in sostanza, vivono nell’intuizione con cui noi completiamo la storia per capire ciò che accade. Anche in “Morning Cleaning” (1999), una delle immagini più famose del fotografo che mostra un operatore delle pulizie intento al proprio lavoro negli interni della Mies van der Rohe Foundation di Barcellona, l’azione è delle più semplici e non doverosa di alcuna interpretazione specifica. Eppure, il fatto stesso di essere stata rappresentata giustifica, e rende doveroso, il soppeso di quanto mostrato e il suo inserimento dentro un universo narrativo. Il problema è essere di fronte a quelle che appaiono come le pause del discorso, rese qui invece il nodo fondante della storia; è vedere Caproni col bicchiere portato alla bocca senza avere idea dell’esistenza del tram, dell’amata che sta aspettando pensando alla morte, del gelo che sente anche dentro il locale. Il problema è doverle intuire da soli tutte queste cose guardando un uomo seduto a un tavolino: e comunque non recuperare mai l’intero, che forse neanche esiste. In questo senso prende corpo tutta la solitudine sottesa alla genesi di qualsiasi storia, inventata o no. Per questo motivo, forse, Jeff Wall vuole annullare la distinzione: per dirci che se qualsiasi attimo può essere ricreato con precisione chirurgica, la verità non soltanto può essere simulata in modo indistinguibile (su questo la fotografia ha ragionato molto e ragiona tuttora), ma può essere intesa come una materia da scomporre, studiare nelle sue infinite parti, resa sempre ad altre strade.
Carola Allemandi
Jeff Wall. Photographs, curata da David Campany e aperta al pubblico dal 9 ottobre 2025 al 1 febbraio 2026 – Gallerie d’Italia – Torino
Cover Image: Jeff Wall. Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona 1999 – transparency in light box – 187 x 351 cm. Courtesy of the Artist