La censura in fotografia al tempo dei social

Un tema particolarmente affascinante, è quello della censura delle immagini. Ormai da tempo, grazie all’affermazioni delle piattaforme sociali, il numero di persone, a prescindere che queste siano fotografe o meno, che ha subito e continua a subire una censura, è aumentato vistosamente.

Quando una fotografia viene censurata, significa che ne viene impedita la visione alla collettività. Un tempo, su disposizione di un magistrato, veniva sequestrata l’originale, le copie, oppure si impediva l’accesso al luogo in cui era esposta. Oggi, che la censura interessa per di più i social, è possibile esercitarla con un click e senza l’intervento dell’autorità giudiziaria; le fotografie vengono fatte sparire, cancellate.
Si parla di fotografie, ma vale per qualsiasi cosa venga condiviso.

Dimmi cosa censuri e ti dirò chi sei.

Nella storia dell’arte, uno degli esempi più famosi di censura è quello del Giudizio Universale di Michelangelo all’interno della Cappella Sistina in Vaticano. I nudi in esso contenuti, a seguito delle decisioni maturate con il concilio di Trento, vennero coperti limitatamente alle parti anatomiche con dei mutandoni, dal pittore Daniele da Volterra, soprannominato Braghettone. Il fatto che il Giudice Divino non possa vedere nudi gli esseri che lui stesso ha creato nudi, è ironico; eppure questa limitazione visiva non compromette il significato dell’opera, né tanto meno la sua bellezza artistica.

Al contrario oggi, laddove sarebbe possibile sfruttare il nutrito numero di persone potenzialmente interessate alla visione, le immagini vengono cancellate completamente, rimosse. Non c’è nemmeno la possibilità di una censura parziale, tutt’altro, sono gli stessi autori a porre preventivamente delle pecette o delle sfocature sulle parti che possono violare il regolamento, pur di condividere la propria opera fotografica. Questo è un effetto drammatico della censura, perché introduce in chi produce qualcosa, una limitazione, perfino condizionandolo durante la realizzazione: questo potrebbero censurarlo, tanto vale non farlo; addio libertà creativa.

Al di là dell’atto censorio, il vero esercizio di potere è quello di stabilire cosa è contenuto deplorevole, ragione per cui molti non comprendono il perché la loro immagine sia stata censurata.
In un libro di facile lettura, soprattutto di coinvolgente lettura, intitolato Porno di Carta, pubblicato da Iacobelli Editore; l’autore e giornalista Gianni Passavini, tra i tanti, racconta anche questo significativo aneddoto:

“Nel numero 8, siamo nel 1967, Private fa il salto di qualità e mostra l’immagine di una “scopata” degna di questo nome. È la prima volta. Milton non colloca la foto in un servizio interno, tra le altre dello stesso genere. La mette invece nella pagina del suo editoriale fisso, ultima di quattro foto celebri: la prima è quella del corpo nudo, crivellato a morte, del bandito Clyde Barrow […]; la seconda è quella realizzata dal fotografo Eddie Adams – gli valse il Pulitzer – del vietcong “sparato” alla testa da un ufficiale vietnamita in una strada di Saigon; la terza arriva sempre dal Vietnam e ritrae in posa alcuni soldati del Sud che tengono per i capelli alcune teste mozzate di guerriglieri “viet”.
Scrive Milton: «Con l’approvazione delle autorità censorie in questione, abnormi e orribili atti di violenza sono stati mostrati nel corso della nostra civilizzazione. Distribuiti via giornali quotidiani, riviste, film e televisione. Omicidi e sgozzamenti sono ovviamente entro i limiti della decenza. […] C’è solo un’immagine in questo numero che mostra un normale costume umano. Senza violenza, senza bestialità, senza odio, senza vendetta».
Della provocazione di Milton parlano tutti i giornali svedesi che riproducono le foto apparse su Private, censurandone una sola: indovinate quale?”

Era il 1967. Nel 2016 Facebook censura la foto simbolo della guerra in Vietnam di Nick Ut: The Napalm Girl. La ragione è la nudità della bambina, non certo la violenza della guerra. Una restrizione forte, eccessiva, la cui gravità è nel sistema di censura, più che nella censura stessa. Nell’era del tutto è possibile, dove con una banda dati sufficientemente ampia, tipo il 5G, è possibile tracciare le facce di migliaia di persone in una piazza e confrontarle in tempo reale con un database, per sapere se ci sono possibili soggetti pericolosi; dove l’automatizzazione e la computazione sono in grado di fare quello che una persona non sa fare; un algoritmo non è grado di capire cosa è arte e cosa non lo è. Cosa è reportage fotografico e cosa non lo è. Che non sa se una fotografia ha vinto il premio Pulitzer o il World Press Photo o qualsiasi altro concorso prestigioso o meno. Che trasforma ogni forma di nudo, anche non eccessivamente esplicito, in un contenuto deplorevole.

La libertà di espressione non è solo nell’atto creativo, ma anche nella fruizione, nella possibilità di vedere e ascoltare. Probabilmente un tempo era più complicato regolare la diffusione di contenuti, dalla società ritenuti sensibili, sebbene in alcuni casi si finiva nella censura. Oggi però, si dispone di una tecnologia capace di filtrare i contenuti, ci sono siti che ad esempio chiedono all’utente di inserire la propria data di nascita, il cosiddetto pubblico adulto; altri che richiedono di accettare l’avvertimento “questa foto contiene contenuti delicati che alcune persone potrebbero trovare offensivi e fastidiosi”. Insomma, non viene censurato un contenuto, soprattutto limitata la libertà.

L’augurio è che anche sui social possa essere implementato un sistema ispirato alla neutralità.

Federico Emmi