Maria Barosso: artista e archeologa nella Roma in trasformazione

La mostra dedicata a Maria Barosso, artista e archeologa, allestita presso la Centrale Montemartini, si rivela non solo un’occasione di riflessione sul ruolo cruciale di una donna nel panorama artistico e documentario di Roma nei primi decenni dello scorso secolo, ma soprattutto una lezione di archeologia e urbanistica sul Ventennio a Roma.

Il merito è di una curatela accurata e sapiente, che si articola in numerose sale accogliendo ben 137 opere che provengono non solo dall’artista, ma anche dalla Fondazione Caetani (con gli affreschi delle chiese di S. Biagio, S. Maria Maggiore e della Grotta di S. Michele Arcangelo a Ninfa), dal Parco Archeologico del Colosseo e dagli archivi della Sovrintendenza Capitolina, come il grande disegno, mai esposto prima, che riproduce gli affreschi della Loggia del Priorato di Rodi.

L’esposizione di documenti fotografici in dialogo con gli acquerelli e i rilievi a matita della Barosso – funzionaria e artista del Ministero della Pubblica Istruzione – crea un riferimento iconografico che nessun libro di urbanistica ha mai trattato con tale dovizia di particolari e immediatezza visiva. La rappresentazione degli sventramenti intorno a Piazza Venezia, della Via dell’Impero e di Borgo ha una rapidità propria degli “acquerelli militari” dei secoli precedenti. E forse non poteva essere altrimenti, dato che il potere fascista stava combattendo una vera e propria guerra contro le vestigia, soprattutto quelle non Augustee, che colmavano di storia la Roma medievale e rinascimentale.

È emblematico il caso del Compitum Acilium, “esposto per la prima volta, piccolo santuario dedicato ai Lari, rinvenuto nel maggio del 1932 durante lo sterro della Velia. Condannato alla distruzione dalla fretta dei lavori, il monumento sopravvive oggi proprio grazie ai disegni e agli acquerelli della Barosso, che ne fissarono forme e proporzioni”, permettendone l’individuazione e lo studio. I disegni e gli acquerelli si distinguono, infatti, per il loro carattere di appunti visivi realizzati “sul campo”. L’immediatezza e la rapidità descrittiva usate per fissare il momento dello scavo conferiscono loro un’efficacia documentaria e una precisione sintetica uniche.

Mettendoli in parallelo con le fotografie coeve (esposte sotto la maggior parte delle opere) e con i video dell’Istituto Luce, non è difficile rilevare la presenza di invarianti che caratterizzano la scena. È quasi come se la Barosso, disegnando, estraesse dal cantiere archeologico o di demolizione le linee, le aree, i chiari e scuri, persino la polvere che impressionavano la pellicola. Una ottima lezione di fotografia.

Questo potere di sintesi trova la migliore corrispondenza nella significativa sezione conclusiva (al piano superiore, attenzione a non perderla), dove sono raccolte opere degli artisti che hanno ritratto le demolizioni di Roma – primo tra tutti Mafai – interpretando la trasformazione storica e culturale della Capitale.

Infine, è singolare il fatto che non esistano fotografie della stessa Maria Barosso. Fu una vera pioniera, una figura complessa che, negli anni ’30, interpretò un ruolo di straordinaria importanza. Non fu semplice testimone, ma attiva interprete della trasformazione urbanistica di Roma, documentando i cantieri e gli scavi con una lucidità e una presenza “sul campo” che pochi altri potevano vantare, ponendo in luce il contributo di una donna artista e archeologa (forse la prima) in un campo tradizionalmente maschile.

Mauro Salvemini

(Musei Capitolini – Centrale Montemartini, 17 ottobre 2025 – 22 febbraio 2026)

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