Il 4 e 5 marzo scorsi siamo stati alla Triennale di Milano, in occasione di due giornate di incontri organizzate per celebrare gli ottant’anni di Oliviero Toscani.
Nel corso della prima giornata Giovanna Calvenzi (Presidente del Museo di Fotografia contemporanea) insieme a Stefano Boeri (presidente di Triennale Milano) e Nicholas Ballario (esperto di arte contemporanea applicata ai media) ha presentato il libro “Ne ho fatte di tutti i colori – Vita e fortuna di un situazionista”, edito da La Nave di Teseo e di recente uscita; sempre nel primo pomeriggio è stato inoltre proiettato il documentario “Oliviero Toscani. Chi mi ama mi segua”, con la regia di Fabrizio Spucches e la collaborazione di I Wonder Pictures.
Il giorno seguente sul palco si sono invece susseguite diverse persone importanti nella vita del fotografo, amici e colleghi di sempre o recenti. Gad Lerner non ha affatto temuto di definirlo un “genio”, Paolo Crepet ne ha invece sottolineato la “scomodità” ma anche la grande generosità; Oscar Farinetti ne ha apprezzato il buon senso, Settimio Benedusi la grande disponibilità; Micaela Sessa gli ha riconosciuto la meravigliosa voglia di vivere e la lucidità del racconto, mentre Achille Bonito Oliva lo ha definito “portatore del tempo”; Gisella Borioli ne ha lodato la sicurezza, la profonda capacità di analisi e di improvvisare , Peter Knapp lo invece descritto come un ottimista ed un creatore straordinario e così via.
Toscani non ha certamente bisogno di presentazioni: tutti lo conosciamo come il fotografo irriverente e provocatorio delle campagne pubblicitarie di Benetton, ma anche di Vogue, Elle, o per lavori forse meno noti come quello sull’osteoporosi o sui sopravvissuti all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema; assistere alla due giorni a lui dedicata ed in sua presenza ci ha dato l’occasione per approfondire ancora meglio la sua incredibile storia e personalità.


Affinché anche chi non era presente in Triennale possa conoscere più da vicino Toscani, consigliamo il libro presentato il primo pomeriggio a Milano: “Ne ho fatte di tutti i colori – Vita e fortuna di un situazionista”, edito da La Nave di Teseo.


Questa autobiografia merita sicuramente la lettura; la scrittura è molto scorrevole, veloce, intensa, dal ritmo serrato attraverso brevi ma densissimi capitoli: sembra di stare seduti al bar, di fronte all’autore che passa da un aneddoto all’altro, da un incontro all’altro, da Parigi a New York, per tornare a Milano e approdare in Maremma. Da Andy Warhol a Lou Reed, da Fidel Castro a Muhammad Ali, da Berlusconi a Elio Fiorucci, da David Bailey a Ugo Mulas, e tanti, tanti altri personaggi incredibili insieme ai quali non solo ripercorriamo la vita di Oliviero Toscani, ma anche del costume e della moda degli anni passati.

Non vi raccontiamo nulla, piuttosto, per usare il tipico stile di Toscani senza tanti giri di parole, vi suggeriamo: compratelo, leggetelo; non ve ne pentirete.
Tuttavia ci piace scrivervene in realtà non solo perché si tratta di un’incursione che lascia senza fiato nella vita di un «un “ragazzo terribile”, inventore geniale di immagini che hanno fatto la storia della comunicazione contemporanea, a volte scardinandone i clichés e sovvertendo i pregiudizi della pubblica opinione.» (così lo definisce Stefano Boeri, presidente di Triennale di Milano, nella sua presentazione della due giorni dedicata a Toscani).
In realtà il libro è anche una fonte di grande riflessione sia sulla fotografia che sulla fotografia nel panorama attuale.
Vedere l’immagine di un paio di pantaloni mimetici ed una maglietta insanguinata utilizzata nella campagna pubblicitaria di moda “United Colors of Benetton” può in effetti causare disappunto, fastidio, disagio, dissenso; rifiuto alfine.
Facile gridare alla strumentalizzazione e dunque allo scandalo.
Ciò nonostante, proprio tornando alla definizione di Boeri di questo “ragazzo geniale” di ottant’anni che “ha fatto la storia della comunicazione contemporanea”, ci chiediamo: fino a che punto la fotografia è riuscita e riesce davvero nell’intento comunicativo oggi e sempre? Quante volte quello stesso genere di immagini ci è scivolato addosso? Quanto ci siamo abituati? Perché non ammettere che ci suscitano minor disagio se le osserviamo in un reportage di guerra? È lì che dovrebbe stare l’orrore: nelle pagine di un resoconto dal fronte di un coraggioso fotoreporter che rischia la vita per informarci (e benedetto sia). Ecco, sì, lì quella fotografia la digeriamo di più e poi possiamo voltare pagina.
Scrollando il feed di Instagram è assolutamente facile oggi trovare un’immagine dei profughi ucraini in fuga dalle bombe o degli orrori del conflitto e subito dopo la ricetta della torta di carote o la sponsorizzazione di un profumo o di un nuovo resort per la prossima estate; fatalità di un algoritmo, che dall’inferno della guerra, cui non si nega un like, ci porta al “benvenuti nella mia cucina”. Il passo è brevissimo, ma, soprattutto consentito.
Diciamocelo: neppure lo schiaffo di una fotografia di Toscani può qualcosa se di coscienza non ne abbiamo, ma, senza entrare nel merito dei nostri cuori, va detto che il fotografo si è certamente meritato la definizione di genio della comunicazione. Nonostante il tanto sbandierato – e abusato – aforisma “una fotografia vale più di mille parole”, oggi più che mai riteniamo sostanziale recuperare un’operazione che è riuscita nell’intento di correlare la parola Fotografia alla parola Comunicazione. A qualsiasi prezzo.
«Io creavo reportage in formato pubblicitario. La pubblicità era la scatola. Il contenuto era giornalistico e, almeno a volte, artistico. In pratica ho confezionato dei pacchi bomba.»
Nessuno va dicendo che Toscani sia paladino di giustizia e verità, tutto sommato non ci crede neppure lui; l’ultimo capitolo del suo libro si intitola infatti: “Chiamatemi Paradosso”, e ci parla della sua consapevolezza della sua contraddittorietà: «Se Stavrogin, il personaggio di Dostoevskij che quando crede non crede di credere e quando non crede non crede di non credere, avesse fatto il fotografo…si chiamerebbe Oliviero Toscani.». No, Toscani non è un duro e puro, non attacchiamolo pretendendo coerenza. È un uomo che passa dall’utopia al pragmatismo nel giro di un nanosecondo. Un uomo che vorrebbe un mondo senza «Dio, Patria, Famiglia e Proprietà», ma ha una numerosa famiglia e certamente non è un predicatore nel deserto. Eppure. Eppure non si è mai fermato, nonostante le sue contraddizioni ha sempre indagato l’umano, il costume, la moda come riflesso dell’uomo e ha cercato di dire la sua, senza mai prestare il fianco al mainstream, al compiacere, figuriamoci alla logica della ricerca del follower in più.
Ancora oggi, come scrive nel suo libro, ci sprona a pensare, a inventare. Oggi dove tutto pare già inventato, quest’ottantenne nei panni di un ragazzo ci ricorda: «Già al tempo c’era chi diceva: ormai non c’è più niente da inventare. Erano balle allora e lo sono ancora adesso. L’invenzione è come la vita, sempre diversa […] Chi cerca idee vuol dire che non le ha. Sei tu, l’idea.»
È ancora possibile dunque oggi imprimere una tale potenza alle immagini? Altrimenti detto: è ancora possibile creare qualcosa di originale a tutto vantaggio della comunicazione? Anche la provocazione, oggi, ci è venuta un po’ a noia; l’irriverenza non ci scandalizza e forse neppure la percepiamo più come tale, anche perché l’oscenità, ai tempi dei social, è ormai più negli occhi di chi guarda che nelle immagini stesse.
Cosa ci resta per comunicare davvero?
Non abbiamo una risposta, ma ci sentiamo di lasciarvi le parole di Olivero Toscani quasi al termine della sua autobiografia: «Un vero fotografo contemporaneo non deve concentrarsi sul numero di follower. Deve concentrarsi sul fare bene il proprio lavoro, che è complicatissimo e richiede anni di applicazione. Un fotografo contemporaneo deve prima di tutto essere un autore, poi uno sceneggiatore, per dare struttura alla storia. Poi deve essere uno scenografo, per scegliere il luogo, per allestire il palcoscenico. Quindi deve essere un regista, per dirigere nel luogo specifico la storia che ha sceneggiato. Dopodiché deve essere un direttore della fotografia per scegliere luci e composizione. E, solo alla fine, deve essere l’operatore della macchina.».
Luisa Raimondi