“Ormai il mondo crede molto di più alla realtà attraverso la tecnica fotografica che alla realtà vera, e noi creiamo e costringiamo il mondo con la tecnica.”
Oliviero Toscani
Cosa sia eticamente e moralmente rappresentabile è un tema dibattuto da sempre in Fotografia, come in Comicità si discute se sia appropriato scherzare sui campi di concentramento o l’olocausto. La rappresentazione fotografica di persone decedute solleva importanti questioni etiche nel giornalismo contemporaneo. È diventata una pratica comune utilizzare fotografie che ritraggono le vittime in momenti felici della loro vita – sorrisi, occasioni di festa, istanti di quotidianità serena. Questa scelta editoriale, diffusa in molti paesi e contesti, merita un’analisi approfondita.
Emergono diverse questioni:
La dissonanza emotiva: quanto è appropriato accostare immagini di felicità a notizie di morte violenta?
La percezione della realtà: l’uso di foto “neutre” o “positive” rischia di attenuare la brutalità degli eventi e creare un distacco dalla loro gravità?
Il rispetto della dignità: come bilanciare il diritto di cronaca con il rispetto per le vittime e i loro familiari?
La dimensione umana: le foto sorridenti rischiano di ridurre persone reali a immagini “consumabili” dai media, o al contrario servono a sottolinearne l’umanità?
È una pratica che vediamo quotidianamente sui media: dagli incidenti stradali agli atti di violenza, le vittime vengono spesso rappresentate attraverso foto tratte dai loro momenti felici. Questa scelta, sebbene comprensibile dal punto di vista della sensibilità del pubblico, solleva interrogativi sul modo in cui la società contemporanea si relaziona con la morte e la sua rappresentazione.
Le linee guida etiche del fotogiornalismo suggeriscono di bilanciare il dovere di informare con il rispetto per la dignità umana. Ma rimane aperta la discussione su quale sia il modo più appropriato per rappresentare fotograficamente la perdita di vite umane, specialmente in contesti di violenza. Cosa ne pensano i fotografi?
Pensieri di fotografi a riguardo alla rappresentazione fotografica in generale
W. Eugene Smith, famoso fotografo di guerra, afferma: “In certe situazioni, fotografare è eticamente difficile, ma non farlo lo è ancora di più.” Questa citazione evidenzia il conflitto tra il dovere di documentare e il rispetto per le vittime. Smith, noto per le sue immagini crude e commoventi della guerra e della povertà, riconosce la difficoltà etica intrinseca nel catturare immagini di sofferenza. Tuttavia, suggerisce che l’omissione di tali immagini sarebbe una perdita ancora maggiore, poiché priverebbe il pubblico di una testimonianza visiva cruciale e ostacolerebbe la possibilità di una comprensione più profonda e di un cambiamento sociale. Questa citazione sottolinea il dovere di testimonianza del fotografo, anche di fronte a situazioni moralmente complesse.
Guy Le Querrec, fotografo e regista francese, sostiene: “La fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha.” Questa riflessione invita a considerare come le immagini possano distorcere la percezione della morte e della sofferenza. Evidenzia la natura interpretativa della fotografia. Contrariamente alla credenza popolare che la fotografia sia una registrazione oggettiva della realtà, Le Querrec ci ricorda che ogni fotografia è il risultato di una serie di scelte del fotografo: l’inquadratura, la composizione, il momento dello scatto, la post-produzione. Queste scelte influenzano il modo in cui l’immagine viene percepita e possono distorcere o enfatizzare determinati aspetti della realtà. Questa citazione è particolarmente rilevante quando si parla di rappresentazione della morte, poiché sottolinea come le immagini possano plasmare la nostra comprensione e le nostre emozioni di fronte alla perdita e al dolore.
Miroslav Tichý afferma: “Una foto originale è una foto pensata, studiata e realizzata artigianalmente.” Questo suggerisce che ogni immagine deve essere creata con consapevolezza e responsabilità. La problematica sul processo creativo e sulla responsabilità del fotografo. Tichý, noto per il suo approccio non convenzionale alla fotografia, con macchine fotografiche autocostruite e uno stile volutamente “imperfetto”, sottolinea l’importanza della consapevolezza e dell’intenzionalità nel creare un’immagine. Questa citazione invita a riflettere sul significato e sullo scopo di ogni fotografia, soprattutto quando si affrontano temi delicati come la morte.
Queste tre citazioni, seppur diverse, convergono su un punto cruciale: la responsabilità etica e interpretativa del fotografo. Fotografare, soprattutto la morte e la sofferenza, non è un atto neutro. Richiede una profonda riflessione sulle implicazioni morali e sul potenziale impatto delle immagini sul pubblico.
Ecco alcuni libri che approfondiscono il tema della fotografia e della morte, collegati direttamente alle riflessioni dei fotografi:
Per W. Eugene Smith (dovere di testimonianza): “Let Us Now Praise Famous Men” di James Agee e Walker Evans. Sebbene sia un testo con fotografie sulla povertà rurale durante la Grande Depressione, affronta in modo potente il tema della testimonianza sociale e della rappresentazione della sofferenza. Similmente al lavoro di Smith, Evans cerca di documentare la realtà senza spettacolarizzarla, ma con profondo rispetto per i soggetti. Questo libro può essere messo in relazione anche con “The Family of Man”, una celebre mostra fotografica curata da Edward Steichen che celebrava l’umanità in tutte le sue sfaccettature, comprese le esperienze di dolore e perdita.
Per Guy Le Querrec (natura interpretativa della fotografia): “Camera Lucida” di Roland Barthes. In questo saggio, Barthes esplora la natura della fotografia e il suo impatto emotivo. Introduce i concetti di “studium” e “punctum” per descrivere i diversi modi in cui una fotografia può colpire lo spettatore. Il “punctum”, in particolare, è quel dettaglio che “punge” lo spettatore, suscitando un’emozione personale e soggettiva. Questo libro aiuta a comprendere come la fotografia non sia una semplice riproduzione della realtà, ma un medium carico di significati e interpretazioni.
Per Miroslav Tichý (processo creativo e responsabilità): “Ways of Seeing” di John Berger. Questo libro, basato su una serie televisiva della BBC, analizza come vediamo le immagini e come queste influenzano la nostra percezione del mondo. Berger esplora il contesto sociale e culturale in cui le immagini vengono create e interpretate, sottolineando l’importanza della consapevolezza critica. Questo approccio si lega alla riflessione di Tichý sull’importanza del processo creativo artigianale, che potremmo interpretare come una ricerca di “un’aura” nell’immagine, unicità e irripetibilità che Walter Benjamin analizzava nella sua opera “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Berger, in “Ways of Seeing”, esplora proprio come la riproduzione meccanica delle immagini, e la loro conseguente diffusione, ne modifichi la percezione e il valore, allontanandole da quell’aura originaria. In questo senso, la diffusione massiccia di immagini di morte nell’era digitale solleva interrogativi cruciali sulla loro autenticità, sul loro impatto emotivo e sulla responsabilità di chi le produce e le diffonde.
La Fotografia e la Rappresentazione della Morte: Un Processo Complesso
Tutte queste riflessioni ci invitano a considerare la fotografia, e in particolare la rappresentazione della morte, non come un atto meccanico, ma come un processo complesso che richiede consapevolezza etica, interpretativa e creativa. Fotografare la morte significa confrontarsi con un tema profondamente umano e carico di significati culturali, sociali e individuali. Non si tratta semplicemente di registrare un evento, ma di interpretarlo e di comunicarlo attraverso un linguaggio visivo che può avere un impatto potente sullo spettatore. Questa consapevolezza implica una profonda riflessione sulle implicazioni etiche delle nostre scelte, sul modo in cui le immagini possono influenzare la nostra percezione della realtà e sulla responsabilità che abbiamo nei confronti dei soggetti fotografati e del pubblico.
Per approfondire ulteriormente il tema della rappresentazione della morte in fotografia e l’etica a essa associata, vi consigliamo anche i seguenti libri:
“On Photography” di Susan Sontag è una raccolta di saggi fondamentale che esamina criticamente il ruolo della fotografia nella cultura contemporanea. Sontag sostiene che la fotografia trasforma il modo in cui percepiamo la realtà, favorendo una “relazione voyeuristica cronica con il mondo” e riducendo eventi significativi a semplici immagini prive di significato. Contrasta il lavoro di fotografi come Diane Arbus con la fotografia documentaria della Grande Depressione, evidenziando come le immagini possano modificare le esperienze umane e creare una disconnessione tra l’osservatore e l’osservato. I saggi di Sontag esplorano le implicazioni etiche della cattura di immagini, in particolare quelle che ritraggono sofferenza e morte. Sostiene che l’atto di fotografare può essere predatorio, poiché spesso comporta l’appropriazione della realtà altrui senza un reale coinvolgimento o intervento. Ciò solleva interrogativi sulla moralità di osservare tali immagini e sulla desensibilizzazione che può verificarsi a causa della loro proliferazione nei media.
“The Photograph as Contemporary Art” di Charlotte Cotton offre un’analisi completa di come i fotografi contemporanei affrontano temi complessi, inclusa la morte. Il libro discute varie pratiche artistiche e i modi in cui i fotografi affrontano la mortalità, spesso sfidando le rappresentazioni tradizionali della morte attraverso tecniche innovative e quadri concettuali. Cotton sottolinea che la fotografia contemporanea non riguarda solo la cattura della realtà, ma anche l’interpretazione e la messa in discussione di essa. Ciò include l’esplorazione di come le tecnologie digitali e i social media abbiano trasformato il panorama della fotografia, consentendo nuove narrazioni attorno alla morte e all’esperienza umana. Il libro colloca la fotografia contemporanea all’interno di discorsi culturali più ampi, esaminando come essa rifletta e plasmi gli atteggiamenti sociali nei confronti della mortalità.
“Death in the Digital Age” di David J. A. Clough analizza l’impatto delle nuove tecnologie e dei social media sulla rappresentazione della morte. Sostiene che le piattaforme digitali hanno alterato il nostro coinvolgimento con la mortalità, rendendo la morte più visibile ma anche più astratta. Clough esplora come i memoriali online, i tributi sui social media e la condivisione di immagini relative alla morte abbiano cambiato il modo in cui elaboriamo il lutto e ricordiamo i defunti. Il lavoro di Clough evidenzia la duplice natura delle rappresentazioni digitali della morte: possono favorire comunità e connessione, ma rischiano anche di banalizzare l’esperienza della perdita. Esamina le considerazioni etiche relative alla condivisione di immagini di morte in un contesto digitale, interrogandosi sulle implicazioni sia per il defunto che per i vivi. Questa analisi è particolarmente rilevante in un’era in cui le immagini circolano rapidamente e possono essere consumate senza contesto o sensibilità.
Studio di casi pratici
Non metteremo le foto proprio perché ci interroghiamo su di esse e sul loro uso e/o abuso.
La Fotografia di Alan Kurdi
Uno degli esempi più noti e dibattuti è la fotografia di Alan Kurdi, il bambino siriano trovato senza vita su una spiaggia turca nel 2015. L’immagine, scattata dalla fotografa turca Nilüfer Demir, è diventata un simbolo della crisi dei rifugiati siriani e ha scatenato un’ondata di emozione e protesta globale. Tuttavia, ha anche sollevato importanti questioni etiche:
Impatto emotivo e politico: La foto è stata efficace nel sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere i governi a discutere delle politiche migratorie. Ma quanto di questa risposta è stata effettivamente tradotta in azioni concrete? E quanto, invece, è rimasto confinato a un’emozione passeggera?
Rischio di spettacolarizzazione: Alcuni critici hanno accusato i media di utilizzare l’immagine per ottenere clic e attenzione, sfruttando una tragedia personale per fini sensazionalistici.
Rispetto per la dignità: La famiglia di Alan Kurdi ha espresso sentimenti contrastanti riguardo alla diffusione della foto. Questo mette in luce il dilemma tra il diritto di cronaca e il rispetto per la privacy dei soggetti coinvolti.
Come Smith suggerisce, la fotografia di Alan Kurdi rappresenta una testimonianza necessaria, ma non priva di complessità morali. L’omissione dell’immagine avrebbe potuto lasciare la tragedia senza volto, riducendo l’impatto emotivo e la consapevolezza globale. D’altro canto, la riflessione di Le Querrec ci ricorda che la fotografia non è mai neutra: la scelta di pubblicare quella specifica immagine, con il suo carico emotivo, ha inevitabilmente plasmato il modo in cui la crisi è stata percepita e discussa.
La fotografia di Valeria Solesin
Un esempio di utilizzo di foto sorridenti è rappresentato da Valeria Solesin, la giovane italiana vittima degli attentati al Bataclan di Parigi nel 2015. Nei giorni successivi alla sua morte, i media hanno diffuso una sua immagine sorridente, scattata durante un momento di serenità. La scelta editoriale di utilizzare questa fotografia, invece di altre più neutrali o legate al contesto dell’attentato, ha generato diverse reazioni:
Rinforzo della memoria positiva: Per molti, vedere Valeria sorridente ha permesso di ricordarla come una persona vivace e positiva, anziché ridurla a una vittima anonima di una tragedia.
Evitare la spettacolarizzazione del dolore: Alcuni media hanno giustificato questa scelta come un modo per evitare di mostrare immagini crude o sensazionalistiche legate alla scena dell’attentato.
Critiche alla “estetizzazione”: Altri, invece, hanno sollevato il dubbio che la diffusione di immagini sorridenti possa diluire l’impatto emotivo e sociale della tragedia, spingendo a una narrazione eccessivamente distaccata dalla realtà della violenza.
Questo caso si collega alle osservazioni di Guy Le Querrec, ovvero “la fotografia non mostra la realtà, mostra l’idea che se ne ha”. La scelta di rappresentare Valeria attraverso una foto sorridente riflette un’idea specifica: la volontà di celebrare la vita e l’umanità della vittima, ma rischia anche di allontanare il pubblico dalla durezza e dalla complessità dell’evento.
La fotografia della carestia in Sudan di Kevin Carter
Un caso emblematico nella storia della fotografia è rappresentato dall’immagine scattata da Kevin Carter nel 1993, che raffigura una bambina sudanese accovacciata a terra, apparentemente morente, osservata da un avvoltoio in attesa. Questa fotografia, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1994, è divenuta un potente simbolo della fame e della miseria umana, ma ha anche sollevato intense critiche e dibattiti etici.
Dissonanza morale e ruolo del fotografo: L’immagine suscitò un’ondata di indignazione e domande sul comportamento di Carter. Il fotografo aveva scelto di documentare il momento senza intervenire immediatamente per aiutare la bambina. Carter stesso dichiarò di essersi sentito profondamente turbato dall’esperienza, ma di aver agito in nome del dovere di testimoniare una realtà devastante.
Impatto emotivo sul pubblico: La fotografia scatenò reazioni emotive globali, portando attenzione alla carestia in Sudan. Tuttavia, molti criticarono l’apparente “spettacolarizzazione” della sofferenza, chiedendosi se fosse giusto immortalare un momento così intimo e tragico senza fare nulla per alleviarne le conseguenze.
Il peso del riconoscimento: Nonostante il successo professionale che l’immagine gli portò, Carter fu sopraffatto dal senso di colpa e dalle critiche ricevute. Pochi mesi dopo aver vinto il Pulitzer, si tolse la vita, lasciando una nota in cui parlava della sofferenza che aveva testimoniato e dell’impossibilità di farsene carico.
Il caso di Kevin Carter si lega strettamente alle riflessioni di W. Eugene Smith: Carter si trovò a bilanciare il suo ruolo di cronista con il peso umano della tragedia che stava osservando. Inoltre, la citazione di Guy Le Querrec evidenzia come l’immagine di Carter sia diventata più di una testimonianza: un simbolo, un’interpretazione visiva del dramma della carestia. Tuttavia, ciò che rappresenta per lo spettatore potrebbe divergere profondamente dalla realtà vissuta dal soggetto della foto.
Conclusioni?
Discorsi Fotografici non vuole dire la sua o porre un punto fermo di come debba essere la rappresentazione fotografica, soprattutto in contesti di violenza, dolore e morte. Crediamo sia interessante e utile porvi domande a cui possiate, insieme a noi e anche da soli, andare alla ricerca di una risposta ma soprattutto di una domanda con una migliore formulazione.
I media invece dovrebbero riflettere attentamente sulle loro scelte editoriali e sulle implicazioni etiche delle loro rappresentazioni. Non inseguendo il lettore ma facendosi trovare e cercando di ristabilire quel senso di fiducia che i lettori avevano nel Giornalismo.
In un momento storico in cui le immagini circolano con una velocità e una pervasività senza precedenti, soprattutto attraverso i social media, la responsabilità dei media e dei singoli individui diventa ancora più cruciale. Promuovere un’alfabetizzazione visuale che ci renda consapevoli del potere delle immagini e delle loro possibili manipolazioni è fondamentale per affrontare con senso critico la rappresentazione della morte e della sofferenza nel mondo contemporaneo. Solo attraverso un dibattito pubblico aperto e una riflessione costante possiamo sperare di trovare un equilibrio tra il diritto di cronaca, il rispetto per la dignità umana e la necessità di una testimonianza visiva che non si riduca a mero spettacolo o consumo voyeuristico.