“Robert Capa. Nella storia”. Intervista alla curatrice Sara Rizzo

In questa intervista parleremo della mostra “Robert Capa. Nella storia” presso il Mudec Photo a Milano dall’11 novembre 2022 al 19 marzo 2023, prodotta da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, promossa dal Comune di Milano-Cultura e curata da Sara Rizzo, alla quale diamo il benvenuto e le poniamo la nostra domanda di rito, normalmente rivolta a chi scatta fotografie, ma che è comunque adeguata anche alle persone che hanno a che fare con la fotografia in altra maniera, come in questo caso: quando è iniziata la sua personale storia della fotografia?

Io in realtà arrivo dalla storia dell’arte come studi, però alla fine dell’università ero molto indecisa sul mio futuro; quindi, oltre alla scuola di specializzazione ho frequentato un master allo IED in cui mi sono formata in fotografia, sia dal lato tecnico che dal lato storico. Diciamo che ho coltivato in modo parallelo queste due passioni finché i casi della vita mi hanno portato a diventare una storica, piuttosto che una fotografa. Però devo dire che avere anche conoscenze di tipo tecnico di prima mano aiuta ad affrontare la storiografia di personaggi come, per esempio, Robert Capa ed è una cosa che credo emerga da come abbiamo impostato questa mostra.

Entriamo nel vivo. Chi è Robert Capa per te e perché il nutrito archivio di fotografie che sono frutto di una lunga carriera come fotoreporter continua ad esercitare un così grande fascino sul pubblico?

Robert Capa credo, non solo per me, è la leggenda del fotogiornalismo. Penso di non dire niente di nuovo. Lo è anche per contingenze storiche: il fotogiornalismo è nato con lui, perché lui inizia la sua attività negli anni Trenta, all’indomani di innovazioni tecniche come l’uscita della prima Leica nel 1925 e poi l’arrivo del rullino a colori nella prima metà del decennio successivo. Tutte queste innovazioni tecniche accompagnano la sua carriera e mi sembra una considerazione imprescindibile da fare: il discorso tecnico è collegato a quello della persona. Ovviamente, il fatto che fosse Robert Capa e non un altro fotografo rende appunto leggendaria la sua figura. Siamo davanti a una persona che ha un coraggio incredibile, come ha dimostrato su più fronti, anche nel vero senso della parola. Soprattutto, quello che mi colpisce quando guardo le foto di Robert Capa è la sensazione di vicinanza rispetto ai soggetti che lui fotografa. Lui dice in uno dei suoi famosi aforismi: “amate la gente e fateglielo capire”. Io credo che questa sia una cosa che nelle sue fotografie emerge sempre chiaramente: una vicinanza sia alle vittime che al mondo dell’infanzia. C’è anche questo nella nostra mostra, sottotraccia, ma è evidente anche in tutto il suo corpus che lui ha sempre un forte sentimento di comprensione per i bambini e per la magia di come i bambini vedono il mondo. Questo emerge sia nelle foto di pace che nelle foto che scatta ai bambini sui fronti di guerra. Credo che sia uno dei motivi per cui continua ad essere amato e il perché ogni sua mostra diventi un successo, questa umanità che lui dimostra sempre.

Robert Capa
Bambini che giocano nella neve
Hankou, Cina, marzo 1938
© Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos
Robert Capa Bambini che giocano nella neve Hankou, Cina, marzo 1938 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos

Ci chiedevamo se ci fossero delle difficoltà a livello concettuale o anche semplicemente pratico nel realizzare una mostra che abbia come protagonista un fotografo molto noto quale appunto è Robert Capa. Questa è la prima domanda e poi in che modo il tuo contributo di curatrice, invece, ci permette di vedere “Robert Capa. Nella storia” come una mostra nuova?

Le due domande sono collegate, perché in effetti ci sono mostre di Robert Capa tutti gli anni, anche più di una durante l’anno; quindi, è difficile dare l’idea che ci sia sempre qualcosa di nuovo. Però di fatto è così. Parlavamo prima dei documenti d’archivio: noi sappiamo che Capa ha lasciato circa settantamila scatti. Questa è più o meno la cifra di scatti che conserva l’I.C.P. (International Center of Photography), di cui più di novecento fanno parte no del cosiddetto “canone” che è stato stilato da suo fratello Cornell Capa con Richard Whelan.
Però, per esempio, ci sono delle foto che nel “canone” non sono presenti e qualcuna noi l’abbiamo esposta nella mostra che abbiamo allestito. Diciamo che l’idea è provare ad indagare dei filoni sempre nuovi, magari non fermarsi al Capa che conosciamo tutti, ma andare a prendere degli aspetti della sua produzione che sono meno noti: questo in mostra è stato fatto. L’esposizione è organizzata in modo diacronico, per cui attraversa la sua attività dal 1932 al 1954, dagli esordi a quando muore, e ogni sezione affronta in sostanza un conflitto oppure un reportage. Nella terzultima sezione, che è quella sul reportage in Russia, la mostra propone una serie di scatti mai esposti in Italia e stampati da Magnum proprio in questa occasione particolare. Sono delle “chicche” che siamo andati a recuperare e, contestualizzati nella mostra, ci si chiede perché non fossero stati inclusi in precedenza nel canone. Però è così: per ogni linea di ricerca che si porta avanti, si trovano delle nuove modalità di lettura. Diciamo che le contingenze in cui ci troviamo a vivere oggi sono state importanti nella scelta di dare più importanza a questo reportage che ci parla molto anche dell’attualità. Perché ovviamente dobbiamo considerare che la produzione di un fotografo, come tutte le opere d’arte, non è ferma nella storia ma viene letta in modi diversi, anche a seconda del momento storico in cui ci troviamo noi che le stiamo guardando. Per esempio, c’è una foto che abbiamo scelto, che raffigura le rovine del Monastero delle Grotte, la
Pečers’ka lavra, che si trova a Kyïv, che Capa e Steinbeck vedono praticamente abbattuto, tranne per il rudere di un campanile e Steinbeck scrive in Diario russo che questa chiesa era antichissima, ma che durante la Seconda guerra mondiale era stata abbattuta, e in quel momento c’era un rudere di mattoni che purtroppo non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Invece, noi per fortuna sappiamo che quella chiesa è stata ricostruita ed è diventata patrimonio Unesco. Per cui, come dire, ci dà anche un po’ di speranza per il nostro futuro.

Robert Capa
Fuochi d'artificio durante la celebrazione dell'800° anniversario della fondazione della città.
Mosca, U.S.S.R., 1947
© Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.
Robert Capa Fuochi d’artificio durante la celebrazione dell’800° anniversario della fondazione della città. Mosca, U.S.S.R., 1947 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.

Ascolta, tu hai scelto un percorso diacronico, come dicevi, per raccontare la vita professionale di Robert Capa. A tuo avviso, l’approccio fotografico di Robert Capa, intendo il modo di scattare fotografie e di inserirle poi in un racconto visivo, è cambiato nel corso della sua carriera di fotoreporter, tanto nel modo di raccontare la guerra, quanto in quello della vita quotidiana? Se sì, in quali punti della linea temporale professionale è possibile vedere questo eventuale cambio di stile?

Secondo me non è cambiato tantissimo dagli esordi. Ovviamente c’ è un grado di professionalità che continua ad aumentare nel corso del tempo, però, secondo me, Robert Capa c’è già tutto quando lui inizia la carriera a Berlino. Infatti, la foto che apre la mostra è la famosa foto che lui scatta a Trockij. Non so se sapete già l’aneddoto, però è simpatico ricordarlo. Lui viene mandato, mentre è assistente alla Dephot (Deutscher Photodienst) a Copenaghen per fotografare Trockij che fa questa conferenza imperdibile. Capa va a Copenaghen e scopre che Trockij non vuole essere fotografato e che l’accesso ai fotografi è vietato all’interno dello stadio dove si svolge la conferenza. Lui racconta che siccome ha una Leica, che è molto piccola, la mette in tasca e poi si intrufola insieme ad altri diciottenni e operai e poi scatta queste foto. Vedendo le foto che lui scatta con questo cinquanta millimetri si capisce che gli è andato vicinissimo, forse Trockij si è anche accorto che lui l’ha fotografato; quindi c’è già quel Robert Capa che dice “se la tua foto non è venuta bene, non eri abbastanza vicino”, c’è già empatia con il personaggio. È come se in nuce ci fosse già tutto in quella foto e poi ovviamente si sviluppa.

Robert Capa
Conferenza di Leon Trotsky
Copenhagen, Danimarca, 27 novembre 1932
© Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.
Robert Capa Conferenza di Leon Trotsky Copenhagen, Danimarca, 27 novembre 1932 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.

Quello che secondo me ogni tanto passa in secondo piano quando si parla di Robert Capa è la sua tecnica. Si parla sempre delle foto del D-Day, che sono appunto “leggermente fuori fuoco”, o di altre in cui si dice che lui era un fotografo impulsivo: è vero, era molto istintivo e veloce, però era anche un grande fotografo. Ogni tanto Capa viene letto semplicemente come l’uomo giusto al posto giusto. In realtà è molto evidente nelle foto che lui scatta quando non si trova al fronte (ma anche in quelle in cui si trova il fronte) che lui è un maestro della composizione, soprattutto nella composizione di diagonali; e di ritratti naturalmente. Lui è davvero un grande fotografo. Certo non è un fotografo surrealista come Cartier-Bresson, ma è veramente un maestro e questo ogni tanto viene dimenticato a favore di quello che è appunto il suo eroismo, il suo essere sceso dal mezzo anfibio a Omaha Beach, essersi lanciato col paracadute oltre il Reno. Insomma, tutti questi episodi che fanno appunto molto leggenda.

Continuiamo un po’ a parlare proprio della figura del fotografo che nel famoso saggio “Davanti al dolore degli altri” Susan Sontag ricorda come in uno dei primi numeri di “Picture Post”, la fotografia di profilo di Robert Capa con la macchina fotografica in mano nell’atto di scattare, venne usata come copertina con questa didascalia: «The Greatest War-Photographer in the World: Robert Capa». Secondo te, questo approccio visivo, dove il fotografo si mostra al pubblico, ha contribuito a creare un’immagine, per così dire, romantica della guerra?

Sì, sicuramente. Tra l’altro, in quella foto che ha scattato Gerda Taro, lui ha una cinepresa, stranamente, non una macchina fotografica. Io l’ho sempre letta un po’ come una condanna, questa uscita del “Picture Post” che gli ha cucito addosso questa etichetta, come se già lui non fosse stato già abbastanza, come dire, pazzo di suo e incosciente. E questo lo costringe ad essere sempre all’altezza di quest’etichetta. Questo è un po’ il punto. Sicuramente era un personaggio leggendario e il fatto di mostrarlo (lui spesso compariva in apertura dei reportage, nelle foto in cui lo vediamo al fronte con le macchine fotografiche), ha contribuito a renderlo un esempio per tutti quelli che sono venuti dopo, sia i fotografi più giovani di Magnum, che gli altri fotoreporter.

Entriamo nel vivo con una domanda che ci siamo sempre posti in questi anni e farla a te che sei molto ferrata per noi è un grande piacere. Vincent Lavoie con il suo saggio “L’affaire Capa. Processo a un’icona” si è concentrato sull’autenticità della famosa fotografia de Il miliziano colpito a morte. Secondo te, è ancora necessario che la fotografia sia autentica per trasmettere il concetto di realtà?

Qui potremmo versare fiumi di inchiostro, per discutere su questa domanda. Sì, ho letto “L’affaire Capa. Processo a un’icona”; ci sono talmente tante testimonianze che è impossibile ormai decidere se sia vera o falsa (cioè posata). Ormai è come X-Files: “I want to believe”. Quello che però è interessante è parlare con delle persone che hanno vissuto la Spagna franchista; una di loro mi ha detto che non importa che la foto sia vera, oppure posata: quella singola foto “è” la guerra di Spagna. Questa cosa mi ha molto fatto riflettere. In realtà, forse la cosa più importante è che ha la potenza di un’icona. Ritenerla vera o falsa ha tutti i limiti del parlare di realtà quando si parla di fotografia. Anche Robert Capa diceva che fare una grande immagine è come fare un “cut out”, un ritaglio di una realtà più grande, che però ti mostra quella stessa realtà in modo più preciso, più puntuale di quanto non sarebbe se io ti mostrassi l’intera scena. Quindi è chiaro che la fotografia è un’interpretazione e il miliziano che combatte in espadrillas, con un vecchio fucile, e cade ucciso dalle mitragliatrici tedesche che gli sparano contro, è l’interpretazione della Guerra di Spagna. Secondo me questo è il punto fondamentale.

Robert Capa
Donne in cammino in un paesaggio deserto
Stalingrado, U.S.S.R., 1947
© Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.
Robert Capa Donne in cammino in un paesaggio deserto Stalingrado, U.S.S.R., 1947 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.

Parliamo di fotografie. La produzione di Robert Capa tutto sommato è molto legata appunto a conflitti e quindi di conseguenza non tutte le fotografie sono fotografie rilassanti o comunque anche così pregno di significato. E quindi questa frase «Le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle». Sei d’accordo con questa affermazione, forte, di Susan Sontag?

Ma sai, è difficile. Io credo che faccia parte di una certa paura o di un pudore che si ha verso l’estetica della fotografia e che secondo me in questi anni sta aumentando. Noi vediamo sempre di più, magari anche nei telegiornali, anziché le foto dei fotoreporter, i filmati e le foto fatti con i cellulari, perché i primi ad arrivare non sono più i fotoreporter. A conti fatti credo che sia una rinuncia, il venir meno di un’estetica della fotografia; come se il brutto fosse più reale. Ma non è detto che una cosa per essere più reale debba essere più brutta. È una critica che viene fatta anche a Salgado. Insomma, è una questione abbastanza dibattuta e io sono sempre per le mezze misure. Mi dico: ma se riesco a fare una foto ben composta, esteticamente piacevole, anche in un momento pregno di significato o drammatico, perché non deve avere lo stesso valore di una foto di quello stesso momento, ma brutta?

Robert Capa
Folla in festa per la liberazione della città
Parigi, Francia, 25 agosto 1944
© Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.
Robert Capa Folla in festa per la liberazione della città Parigi, Francia, 25 agosto 1944 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos.

A questo punto ti chiedo cosa resta di Robert Capa nella produzione fotografica contemporanea?

Questa è una bella domanda. Resta il mito. Resta l’esempio di una fotogiornalista che ha sentito la necessità di far vedere al mondo contro che cosa era necessario combattere, a costo della vita, ispirando chi è venuto dopo. Se vogliamo collegarci al discorso che facevamo poco fa: ci sono regimi o posti nel mondo in cui le persone non riescono con il cellulare ad andare a riprendere o a fare vedere che cosa succede; magari è veramente necessario l’intervento della stampa, della stampa estera. Quindi, in questo caso, il ruolo dei giornalisti, dei fotogiornalisti, resta ancora valido proprio a livello di testimonianza. Capa, tra l’altro, non era avido di scene scabrose o di cadaveri, ne fotografava pochissimi e se li fotografava era perché avevano veramente un significato importante per lui. Un po’ come l’ultimo morto americano a Lipsia prima che scatti la pace. Era più un fotografo d’azione, fermava il momento storico, anche per quello abbiamo chiamato la mostra “Nella Storia”, perché è molto incentrata su quella che è la testimonianza della guerra, non tanto sulle vittime. Perché lui legge la realtà. Robert Capa è contro la guerra, ma non è un pacifista, questa è una cosa molto importante da dire. Robert Capa dice: “in una guerra è necessario capire da che parte stare, altrimenti non puoi sopportare quello che succede” e lui è chiaramente di parte, perché dall’inizio della guerra spagnola sta con gli anarchici e poi dopo diventa “embedded” con i comunisti, ma sempre contro i franchisti. Nella guerra in Cina lui deve lavorare fotografando, per contratto, per Madame Chiang Kai-shek e quindi i nazionalisti, però si percepisce che è un po’ più lontano, distaccato da quel conflitto. Infatti, le foto più belle sono quelle che fa ad Hankou ai bambini, che noi abbiamo mostra. C’è sempre una parte, qualcosa da combattere. Questo va ricordato: il suo messaggio non è un messaggio oggettivo, come la fotografia non è la realtà; il messaggio è chiaramente parziale, ma in senso buono. Lui ti dice da che parte stare e nella sua visione c’è questa opposizione fortissima a tutti totalitarismi che partono dalla guerra in Spagna, che all’epoca era il fronte occidentale, fino alla guerra in Cina, che era il fronte orientale.

Se mi permetti, faccio un fuori programma, perché appunto si nota ovviamente la tua preparazione storica su questo e su tanti altri fotografi. Io ricordo di aver letto quel libro di Russell Miller sulla nascita dell’agenzia Magnum, quindi l’incontro tra Robert Capa Henri Cartier-Bresson e George Rodger David Seymour a Parigi, subito dopo la guerra e che dà il via a questa fondamentale agenzia di stampa. Quello che traspare da questo racconto è proprio la grande energia dei componenti, il fatto che litigavano spesso, ma che comunque allo stesso tempo producessero dei capolavori, ciascuno per conto suo, oppure per l’agenzia e così via. Secondo te oggi è ancora possibile che si crei un’entità del genere, questo groviglio di fotografi, artisti un po’ pazzi che cambiano la storia della fotografia?

Io dico: mai dire mai. Intanto la Magnum esiste ancora e ha ancora dei fotografi sotto di sé. Chiaramente la Magnum quando è stata fondata era una realtà diversa. Perché Capa, Seymour e Cartier Bresson si conoscevano da prima, dagli anni Trenta, quando erano ancora agli esordi a Parigi. Fondano la Magnum dopo, nel 1947. Secondo me è sempre possibile che si ripetano queste condizioni magiche in cui c’è un gruppo che riesce a cambiare qualcosa; accade continuamente, io credo, nel mondo della cultura. Quello che è importante è forse il discorso che facevamo prima, bisogna capire qual è il futuro del fotogiornalismo. Magnum è stata fondata da Robert Capa principalmente per mantenere la proprietà intellettuale degli scatti dei fotografi; e la proprietà dei negativi, che altrimenti andavano a finire alle redazioni e poi si perdevano. Forse se ci fosse stata Magnum prima, avremmo il negativo del Miliziano (e sapremmo com’è andata davvero). Magnum è nata per dare un titolo, una didascalia alle fotografie, e quindi fare in modo che i giornali non modificassero i titoli cambiando quello che era il messaggio del fotografo, come aveva fatto “Life” quando aveva a proposito delle foto del D-Day di Capa aveva scritto una didascalia che diceva più o meno: “Vedete, le foto sono leggermente fuori fuoco perché qui il fotografo aveva paura” (tra l’altro qui c’è l’altro grande punto di domanda, le foto del D-Day sono state davvero rovinate?) E poi appunto, era stata fondata come cooperativa per aiutare ad ottenere incarichi per questi fotografi che venivano sempre considerati un gradino sotto i giornalisti, sempre come se fossero solo degli artigiani.

Per chiudere questa splendida intervista ti chiedo in maniera molto semplice di dare dei suggerimenti per apprezzare al meglio la mostra.

Allora, io consiglierei, se venite al Mudec a vedere la mostra, di leggere intanto la timeline all’inizio che so che è noiosa, però è molto interessante perché ci dà la biografia di Capa e poi ha degli excursus grafici che ci dicono qual è l’evoluzione sia nel mercato delle riviste e fotografico che nella produzione culturale dell’epoca e quindi dà dei ganci per contestualizzare, per esempio, la nascita di Leica. Oppure, cita La finestra sul cortile perché, non so se sapete, Capa era stato con Ingrid Bergman dopo la seconda guerra mondiale e quando poi si erano lasciati, la Bergman si era confidata con Hitchcock raccontandogli della loro storia,e  pare che Hitchcock si sia ispirato poi a Capa nello scrivere il personaggio di questo fotografo restio ai legami. Ci sono così un po’ di spunti che possono aiutare a contestualizzare meglio quello che si vede. Poi abbiamo fatto un lavoro sia sui documenti d’archivio che nella parte introduttiva per contestualizzare Robert Capa all’interno del mondo del fotogiornalismo. Che cosa voglio dire? C’ è un pannello esplicativo sulle caratteristiche tecniche delle macchine che lui usava, che penso sia abbastanza una novità in mostra, per il pubblico (certo gli addetti ai lavori lo sanno). Abbiamo voluto farlo creando proprio dei cubi che avessero le dimensioni e il peso delle macchine fotografiche, le usiamo per la didattica con i bambini, ma poi tutti le possono toccare, per capire come si passa dalla Speed Graphic che pesa tre chili alla Leica che invece è tascabile. Ti dà proprio l’idea di come l’evoluzione del mezzo accompagni l’evoluzione della professione. Nelle due vetrine abbiamo dei documenti d’archivio, un focus anche sulle riviste che pubblicavano Capa. Abbiamo una copia di “Life” aperta sul reportage che lui ha fatto sulla Russia e altre immagini si trovano sui pannelli. Quello che cerchiamo di far passare in mostra è il concetto che noi adesso tendiamo a leggere le foto di Capa come delle opere d’arte, perché le vediamo incorniciate in questi spazi museali, nelle gallerie; però il loro fine ultimo, quando lui le scattava, era di finire sui giornali, informare. C’è questa doppia lettura, fotogiornalistica e di opera d’arte, che si accompagna poi a tutte quelle che erano le esigenze delle redazioni per cui lui lavorava. Per esempio, il fatto che lui scatti ogni tanto con la con la Rollei e altre volte invece con la Contax, non è che sia semplicemente o soltanto la sua poetica, in cui lui pensa, che so: adesso questa foto del paesaggio di Stalingrado la voglio fare quadrata perché mi rende più felice; si tratta proprio di richieste dell’editore, perché gli viene detto: se tu ci mandi una foto che è in trentacinque millimetri per noi è più difficile fare il taglio e quindi ci limiti un po’ nella scelta della dell’impostazione grafica della rivista, se invece ce la fai quadrata, poi noi decidiamo se tagliarla in verticale od orizzontale, ce la giochiamo un po’ come vogliamo. È interessante perché ti fa capire che non sono soltanto degli artisti che scattano secondo una poetica, uno stile personale, ma secondo me sono ancora più grandi proprio perché scattano all’interno di una griglia di regole ben costruita, di necessità dell’editore e del giornalista che vuole comunicare una determinata cosa: questo ti dà indubbiamente anche la cifra della professionalità di Robert Capa.

Federico Emmi

Foto Copertina: Robert Capa – Stalingrado, U.S.S.R., 1947 © Robert Capa © International Center of Photography/Magnum Photos